1 Introduzione
Il presente contributo, seppur nella sua sinteticità, vista la complessità e l’interdisciplinarità del tema, prova a lumeggiare una questione poco esplorata e cioè il rapporto tra carcere e psichiatria, assumendo la prospettiva pedagogica. In particolare, si è partiti dalla ricostruzione del contesto storico – culturale agganciandosi agli insegnamenti di Franco Basaglia (a cento anni dalla sua nascita), recuperando il suo modello di psichiatria democratica ancora attuale e da rileggere in chiave contemporanea, anche alla luce di nuovi bisogni, come dimostrano i dati rilevati, ad esempio, dall’Associazione Antigone (2022; 2023a). Tale questione sta assumendo i tratti di una vera e propria emergenza sociale con una crescita progressiva delle persone affette da disordini e disturbi di natura psicologica e psichiatrica. Il carcere diventa così non solo un contenitore delle cosiddette “vite di scarto” (Bauman, 2007), ma un caleidoscopio che restituisce frammenti di esistenze sempre più segnate dalle differenze e dalla fragilità in tutte le sue sfaccettature; si delinea così una visione prospettica di un futuro incerto e preoccupante di cui è necessario prendersi cura.
La finalità del presente lavoro è soprattutto quella di mettere in evidenza il contributo originale e pedagogicamente significativo dell’istituto barcellonese, anche attraverso l’analisi di un progetto di ricerca svolto presso l’Istituto “Vittorio Madìa” di Barcellona Pozzo di Gotto, ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario contrastando un’eredità ingombrante e cioè quella della medicalizzazione coercitiva nel trattamento della malattia mentale, specie in presenza di reati. Si è avuto così modo di riflettere sul tema ambiguo, scivoloso e ancora scomodo tra carcere psichiatria che lascia emergere contraddizioni, nodi critici come la marginalizzazione e gli stereotipi nei confronti delle donne, nonché l’urgenza di guardare alle storie di vita, alle esistenze ferite che reclamano dignità e cura pedagogica. Con la valorizzazione delle buone pratiche educative e culturali promosse presso altri istituti del territorio nazionale, è emersa l’opportunità di assumere la prospettiva di genere per sviluppare nuove traiettorie di ricerca al fine di un superamento del modello carcerario nella presa in carico di persone autori di reato e portatrici di disturbi psichiatrici.
2 Carcere e psichiatria: una convivenza ancora possibile?
Sono trascorsi esattamente 100 anni dalla nascita dello psichiatra Franco Basaglia e oggi, a distanza di un secolo, abbiamo ancor più bisogno di riflettere sul tema della salute mentale come occasione di cura non solo del singolo portatore di disagio, ma dell’intera comunità.
Basaglia nelle sue Conferenze brasiliane (2000) sostenne che la società, per dirsi civile, avrebbe dovuto accettare tanto la ragione quanto la follia e dunque, secondo il suo modo d’intendere, la società potrà dirsi tale solo quando si farà accogliente e inclusiva verso la differenza e, nella fattispecie, la follia. Un’alterità intesa come differenza che è parte della società civile, come “l’ordito di una trama” (Rovelli, 2024).
L’idea nodale della rivoluzione della psichiatria democratica di Franco Basaglia era vedere il malato e non la malattia, era aver cura della persona in quanto soggetto portatore di diritti, inserito in un sistema sociale. L’intento era di reintegrare la persona debole prendendosi cura di lei e della rete di relazioni in cui era inserita, non sradicarla e segregarla ma pensarla in una comunità che cura, che include, ascolta, accoglie e reinserisce. I servizi psichiatrici che Basaglia immaginava, e che egli stesso sperimentò nella sua Trieste, avrebbero dovuto essere organizzati a partire da questa filosofia inclusiva e concretamente orientata alla cura delle differenze in un contesto che accoglie e che cura le sue fragilità anziché rimuoverle o, ancora peggio, espellerle.
Per un’adeguata considerazione della sofferenza psichica, dunque, è necessario considerare la rete di relazioni che coinvolgono il soggetto: non un corpo-oggetto portatore di disturbi specifici con relative terapie da manuale, ma un corpo vissuto con una storia di vita e di malattia che va ascoltata all’interno di una relazione col medico e con l’operatore. La stessa relazione dovrebbe svilupparsi nel territorio e nella comunità curante ed educativa. La psichiatria immaginata e praticata dallo psichiatra triestino, ha una specifica postura educativa ed è un processo etico e politico che ruota intorno all’idea di garantire il pieno diritto di cittadinanza, soprattutto alle fasce deboli della popolazione.
L’opera e il pensiero filosofico di Franco Basaglia dovrebbero continuare ad interrogarci e le sue parole continuano ancora a riecheggiare sulla nostra società e nelle pratiche dei professionisti di fronte al difficile tema della malattia mentale che, in questi anni, si è ancora di più articolata, si è fatta più complessa parallelamente alla società intera, rendendo sempre più difficile la gestione e la risoluzione.
Sicuramente, la problematica del disagio mentale è divenuta un tema diffuso e trasversale in vari contesti sociali, territoriali e di vita che non riguarda solo pochi individui ma la comunità intera.
Ancor più complesso è il fenomeno della salute mentale in carcere i cui dati raccontano una realtà più complessa e più significativa di quella percepita. Il tema legato alla tutela della salute mentale in carcere, infatti, rappresenta uno dei nodi più difficili da sciogliere per la necessità, da una parte, di garantire cure adeguate che rendano il contesto detentivo quanto meno possibile peggiorativo del disagio psichico, dall’altra per la necessità di assicurare la sicurezza della società libera e all’interno degli istituti stessi.
Dialogando con le direzioni di alcuni istituti penitenziari, emerge che la condizione legata alla salute mentale, risiede sempre più nei luoghi del carcere come a significare un avvertimento su quest’emergenza soprattutto oltre le mura degli istituti stessi, ovvero nella società le cui carceri si collocano facendo da specchio dei disagi della stessa società.
Dalla rilevazione dell’Associazione Antigone, nel corso del 2022, emerge che le diagnosi psichiatriche gravi ogni 100 detenuti erano pari al 9,2% della popolazione carceraria (Associazione Antigone, 2023a).
Accanto ai numeri delle persone con una diagnosi medicalmente e psichiatricamente definita, vi sono il 20% dei detenuti che assumeva stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi ed addirittura il 40,3% sedativi o ipnotici. A fronte di questi dati, le ore di servizio degli psichiatri erano in media 8,75 ogni 100 detenuti, quelle degli psicologi 18,5 ogni 100 detenuti con una percentuale del disagio psichico maggiore tra le donne detenute piuttosto che tra gli uomini. Si tratta di numeri molto rilevanti che indicano che la strada verso “carceri psichiatrizzate” sembra ormai senza ritorno (Associazione Antigone, 2023a). C’è insomma un universo, ben più consistente, di persone con patologie psichiche anche gravi che vivono spesso in sezioni “comuni” delle carceri italiane e non nelle ATSM (Articolazione per la tutela della salute mentale) che sarebbero i luoghi deputati a trattare questa tipologia di utenza.
Sembra dunque – come sopra indicato – che il carcere faccia da cartina tornasole, da specchio riflettente su fenomeni come l’aumento del disagio mentale nella società odierna. La salute mentale in carcere, dunque, rappresenta un’area critica nell’ambito della tutela della salute generale delle persone condannate nonostante la protezione di essa sia un diritto umano e costituzionale egualmente valido “fuori” e “dentro” le mura.
Secondo Donald Clemmer, ad esempio, nel corso dell’espiazione della pena il soggetto detenuto assimila un insieme di norme che governano ogni aspetto di vita dello stesso, portandolo così a determinare un annichilimento della personalità e dei valori che aveva prima dell’ingresso in carcere. Viene denominata dagli addetti ai lavori “sindrome da prigionizzazione” (Clemmer, 1941) e dimostra quanto l’ambiente carcerario possa essere nocivo per i soggetti più deboli che lo subiscono, sforniti di strumenti adeguati per reagire al contesto di privazione della libertà personale caratterizzanti le istituzioni penali.
Sappiamo comunque che il carcere, per sua stessa natura, comprime i diritti individuali e la salute mentale, in particolare, è legata dalla sofferenza per lo stato di costrizione e di dipendenza totale per qualsiasi necessità della vita quotidiana e, dunque, il soggetto recluso con problemi di salute mentale, non ha le condizioni per poter intraprendere un completo iter trattamentale per la sua condizione di salute psichica. Da ciò si evidenzia una chiara incompatibilità fra il carcere e la salute mentale e l’indicazione che la presa in carico delle persone con disturbo psichiatrico debba avvenire di regola al di fuori del carcere, nel territorio. La cura della salute mentale nella reclusione, infatti, richiede la predisposizione di un ambiente adeguato al fine di mantenere l’equilibrio psichico delle persone detenute e a non aggravare lo stato di chi già soffre di disturbi, assicurando in primo luogo condizioni dignitose di detenzione e il rispetto dei diritti umani fondamentali. La cura psichiatrica in carcere dovrebbe essere limitata alle persone con disturbi minori, oppure al ristretto numero di coloro per cui non sia possibile applicare un’alternativa alla carcerazione a fine terapeutico.
Un tema complicato quello della salute mentale in carcere e da percorrere su binari diversi: prima della Legge n. 81/2014 che ha consentito la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG), le persone giudicate non imputabili per vizio di mente e perciò prosciolte per essere sottoposte a misura di sicurezza in OPG; oggi invece i prosciolti sono avviati al nuovo articolato sistema di presa in carico territoriale, di cui fanno parte le Residenze per la Esecuzione della Misura di Sicurezza-REMS.
Dall’analisi svolta dall’Associazione Antigone nel 2022 emerge che il carcere, per sua stessa natura, nonostante i tentativi affannosi del legislatore, non possa e non debba essere considerato come un luogo adatto alla cura dei malati psichiatrici. Una posizione precisa che riprende pienamente il pensiero e la filosofia basagliana.
3 La scelta della prospettiva
Ho visto tante persone entrare con la faccia lucida, da bambola […] e sono usciti con la faccia smostrata dai farmaci. Quella non è stata una cura. Quella è stata una smostratura. Magari lo hai messo a posto sul carattere o sul morale […] Però che tu lo smostri in faccia, gli fai le occhiaie, lo fai soffrire […]. è sbagliatissimo. Perché per il detenuto già il carcere è sofferenza (cit. in Santambrogio, 2020, p. 195).
La “smostratura” è l’effetto di un trattamento che, come avverte l’Autore di queste righe, va inteso nella sua accezione più negativa. La citazione è tratta dallo studio di Santambrogio, medico psichiatra fenomenologo, il quale recentemente ha compiuto uno studio sugli Ospedali psichiatrici Giudiziari (OPG), un vero e proprio diario scientifico. L’aspetto interessante è infatti l’aver ricostruito le condizioni e i metodi applicati nelle diverse realtà valorizzando i vissuti degli internati, degli “intravisti”, come vengono chiamati nel testo, che si raccontano, restituendo le condizioni di vita nell’istituzione, ma anche lasciando esprimere desideri e speranze (Santambrogio, 2020, p. 38). La storia ha insegnato quanto sia importante entrare nelle “stanze della memoria”, attraversando la sofferenza, i silenzi, le censure, le omissioni (Faranda, 2020, pp. 82-84), compiendo un’operazione che è stata ed è ancora difficile e delicata da una parte per la frammentarietà delle fonti e l’inaccessibilità degli archivi, dall’altra per la complessità delle relazioni umane in esse agite, ai vari livelli, che svelano i drammi dell’umano esperire quando si attraversa il dolore della malattia mentale.
La ricostruzione delle tormentate vicende delle istituzioni è stata perciò quella degli psichiatri che le hanno dirette. E si è trattato spesso di una “storia auto-celebrativa di simposi di freniatria, di sperimentazioni al limite della tortura, di terapie moralizzanti e di paternalismi pseudoscientifici” (Dell’Aquila, 2020, p. 143).
Come sopra richiamato, si dovrà, infatti, attendere Basaglia e il fervore di movimento che egli riuscì a suscitare per vedere le singole esistenze, per sottrarle appunto dal silenzio, per restituire parole e dare voce. Ha insegnato Foucault (1963) che per i soggetti affetti da patologie psichiatriche il mandato custodialistico, e cioè l’esigenza di una separazione netta si è sempre imposta come scelta obbligata, irrinunciabile e ben sappiamo quanto l’internamento sia stato nella maggior parte dei casi caratterizzato condizioni disumanizzanti, con strutture fatiscenti, segnate da ogni tipo di degrado e con le specificità proprie delle istituzioni totali (Goffman, 1961). Si è trattato di un’esperienza “tragica per eccellenza. Perché quando ad un corpo vengono sottratte le stimolazioni relazionali, sociali ed ambientali indispensabili al suo volo, esso viene toccato nel cuore stesso della sua umanità, e, dunque, irreversibilmente mutilato e ferito” (Curcio Petrelli & Valentino 2011, p. 277).
L’immagine della smostratura è, dunque, particolarmente evocativa nel rappresentarci i destini degli internati, portandoci a riflettere sul limite fra follia e reato, fra psicopatologia e insorgenza del comportamento criminale, sull’utilità/inutilità di queste strutture, sulla necessità del loro superamento, come si diceva in apertura, considerando la soluzione carceraria inopportuna e certo non attenta al benessere della persona con problemi di salute mentale, spesso aggravata quando non indotta dalla reclusione. Prima i manicomi criminali, poi quelli giudiziari e, a seguito della riforma penitenziaria, gli Ospedali psichiatrici giudiziari, nascono con il mandato di isolare dalla società e provvedere a due specifiche categorie: i detenuti che “perdevano la ragione” durante la detenzione (i cosiddetti rei-folli) e i sofferenti psichici che si macchiavano di un reato (i cosiddetti folli-rei), giudicati incapaci di intendere e volere e socialmente pericolosi, portatori più degli altri detenuti di uno stigma difficile da contrastare.
Emerge in entrambi i casi tanto l’incompatibilità con il regime detentivo, quando la patologia psichica si aggrava o insorge successivamente all’ingresso in carcere, quanto la necessità di un periodo di “osservazione” e vale la pena di ricordare che è solo con il superamento degli OPG a partire dalle l. 9/2012 e, poi, con la l. 81/2014 che le risposte sanzionatorie e trattamentali cambiano.
Nel nostro Paese è possibile comprendere appieno la complessità della tematica proprio entrando nelle succitate “stanze della memoria” degli istituti penitenziari psichiatrici di Aversa (1876), di Montelupo Fiorentino (1886), di Reggio Emilia (1892), di Napoli (1922), di Barcellona Pozzo di Gotto (1925), di Castiglione delle Stiviere (1939), di Pozzuoli (1955), provare ad attraversarle per cercare nelle biografie frammenti di vita e di rinascita. Ciascuno di queste realtà conosce stagioni alterne (Dell’Aquila, 2020) che ci portano anche a riflettere su cosa è rimasto nel nostro immaginario del manicomio criminale.
Nell’Istituto siciliano, dal 1925 fino al 2017, sono stati reclusi – come documenta Pandolfino (2022, p. 194) “uomini e donne delinquenti, vittime dell’abbandono e della società, vittime di una prigionia primitiva ed endogena”, “lacerti di umanità”, rei folli e folli rei, e la citazione riportata in apertura ben ci introduce nel viaggio che faremo in queste pagine, nei luoghi di contenimento dell’“umanità in eccesso” (Arendt, 1951), in particolare proprio nell’ospedale psichiatrico giudiziario (OPG) di Barcellona Pozzo di Gotto (Pandolfino, 2020; 2021). Un viaggio che si è deciso di compiere assumendo la prospettiva pedagogica perché la congiuntura tra reato e disagio mentale richiede un’adeguata presa in carico che non può prescindere anche da un’attenzione educativa. La deriva della medicalizzazione non è mai scongiurata, anzi è spesso praticata come l’unica via, riducendo così la possibilità di agire un paradigma della cura politicamente orientato e pedagogicamente fondato (Mortari, 2021).
Si tenterà perciò di intravedere, oltre il peso della colpa e la sofferenza della malattia, nuovi inizi, attraverso percorsi educativi in grado di ridare dignità ai soggetti che si muovono all’interno di queste realtà drammatiche e complesse, gli “intravisti”, appunto, rafforzando l’autodeterminazione a contrasto della passivizzazione indotta dalla forza dei dispositivi disciplinari. Vulnerabilità, sfiducia, disistima, ansia, inquietudine, si amplificano con ricadute importanti su tutte le dimensioni del sé, anche quella genitoriale che è particolarmente messa a dura prova (Augelli, 2022) sia se agita, sia se soffocata o negata.
Ci si trova di fronte a storie singolari, come documenta sempre Pandolfino (2022, p. 195), riferendosi all’Istituto di Barcellona Pozzo di Gotto, “riportando alla luce un ampio ventaglio di modi di vivere l’ordinarietà compromessa dalla malattia ancor prima che dal carcere” con drammi esistenziali e vicende che necessitano di essere rivisitate e reinterpretate per tessere nuove trame.
All’interno delle narrazioni andranno perciò ricercate quelle pratiche educative che sono state in grado di restituire possibilità di futuro. Si è già dichiarato che il nostro sguardo è quello pedagogico provando a lavorare, come si sottolineava in apertura, per una trasformazione dei sistemi a favore di un “modello comunitario-partecipativo” (Certomà, 2010), trasformazione peraltro già richiesta da molti anni, con l’impegno di valorizzare le risorse del territorio. Lo ha confermato anche Mauro Palma, denunciando un aumento delle difficoltà e del disagio nella società contemporanea e perciò richiamando l’urgenza di incoraggiare e incrementare “il processo anche culturale di graduale responsabilità territoriale” (Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, 2023, p. 50).
Va rimessa in circolo pure l’utopia perché solo con essa, seppur con tempi lunghi è possibile modificare la realtà esistente, immaginando e progettando il nuovo, non soffocando sogni e desideri, specie quando si vivono condizioni di privazione della libertà.
In queste pagine si è scelto di concentrare lo sguardo, tra le strutture, su quella siciliana di Barcellona Pozzo di Gotto, uno degli ultimi OPG a chiudere nell’aprile del 2017 (Benelli & Zizioli, 2023) dove dall’ottobre 2014 era stata attivata una sezione femminile (con capienza fino a 10 posti letto) (Rivellini, 2018, pp. 394-395; p. 465), perché l’esperienza dell’istituto barcellonese rimane esemplare e ha molto da insegnarci sulle pratiche avviate per contrastare gli eccessi di medicalizzazione e promuovere una riabilitazione a tutti gli effetti “educativa”. Lo si vedrà in un progetto di ricerca che prova ad ‘attraversare’ un universo complesso che chiede di essere svelato.
4 L’ex OPG di Barcellona Pozzo di Gotto: il progetto Attraversamenti
Tra gli ex Ospedali Psichiatrici Giudiziari presenti nel territorio nazionale, l’Istituto “Vittorio Madìa” di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, è sicuramente uno dei più complessi istituti che si occupano, e si sono occupati, di salute mentale nel territorio nazionale. Ricordato negli anni a causa di una cattiva gestione conclusasi nei fascicoli della Magistratura con relative indagini parlamentari, Barcellona Pozzo di Gotto è sempre stato un Istituto penitenziario unico e complesso e, per questo, diventa interessante attraversare la sua storia per comprendere meglio i passaggi nodali con relativi punti di fragilità e di forza.
Il “Madìa” nasce in seno alla legge n. 36 nel 1904, quando la materia psichiatrica viene riordinata e si dà una prima impronta a questi Istituti determinandone l’ambito di competenza: i rei folli, ovvero coloro che manifestavano disturbi psichiatrici in carcere. Il nucleo, più corposo dei folli rei sarebbe stato indirizzato presso i manicomi civili. Un taglio netto dei manicomi giudiziari che avrebbe visto la sua concretizzazione solo con la rivoluzione del Codice penale, determinandone la materia per quasi cento anni. L’edificio dell’Istituto “Vittorio Madìa” di Barcellona Pozzo di Gotto è stato progettato e realizzato negli anni 1913-1925 come manicomio giudiziario maschile del Regno d’Italia, sulla scia di quelle opere create nel post-terremoto e nel 1913 nasce il progetto di un manicomio giudiziario. L’Istituto di Barcellona Pozzo di Gotto diviene così un punto di riferimento per un’esigenza sociale che richiedeva un’espansione, uno sviluppo e il manicomio aprirà i battenti nel 1925, elevandosi come emblema della ricostruzione e costituendo un vero e proprio nuovo quartiere della città: uno spazio curato, elegante e dignitoso. Nel corso degli anni cambiano le normative e nel 1930 entra in vigore il Codice Rocco e anche i folli rei dovevano essere ospitati nei manicomi giudiziari. Le attività formative e professionali iniziano a prendere forma all’interno del manicomio con un intento terapeutico e la prima vera iniziativa fu quella di istituire la scuola elementare. Come lo stesso direttore Vittorio Madìa scrive nei suoi documenti personali dove emerge, fin dall’inizio della sua direzione, un interesse verso le attività culturali, scolastiche, professionali e, più in generale, di formazione rivolte ai reclusi dell’istituto (Madìa, 1932). La storia risulta attraversata da momenti di grande interesse sociale e, allo stesso tempo, da eventi scomodi, che hanno visto periodi bui, talvolta da tenere in ombra o addirittura da rimuovere nella memoria sociale (Benelli, 2023).
Negli anni Settanta del secolo scorso, vediamo come cambia il clima politico e sociale in materia di detenzione e, allo stesso tempo, i cambiamenti della direzione dell’Istituto di Barcellona Pozzo di Gotto. La gestione e ogni tipo di attività, infatti, si modificano radicalmente con l’avvento del direttore Nunziante Rosania, medico psichiatra e criminologo. Il suo principale obiettivo si configura, fin da subito, nello smantellamento di queste istituzioni, considerate anacronistiche, oramai fuori tempo. Siamo negli anni Settanta, nel pieno clima dell’antipsichiatria sfociata, successivamente, nella oramai famosa legge Basaglia: la n.180 del 1978.
Almeno sulla carta, quello che a Barcellona Pozzo di Gotto veniva indicato come “il manicomio”, diventava un vero e proprio ospedale, con l’obiettivo di sottolineare come tra quelle mura venissero messe in pratica attività di tipo terapeutico. S’impone così una prospettiva di tipo pedagogico- culturale che ridimensiona il carattere qualificante dell’Istituto barcellonese e il peso del trattamento sanitario. Accanto a quelli che vengono definiti “mezzi curativi comuni” e alla psico-terapia, si introduce l’ergoterapia e cioè la cura delle malattie mentali proprio per mezzo di un’attività lavorativa. Si dice infatti che era importante “vincere la riluttanza” (Madìa, 1932, p. 16) degli ospiti utilizzandoli dapprima in piccoli servizi nell’interno dei reparti, per poi essere impiegati in occupazioni a loro più idonee. Chi partecipava alle attività, ovvero circa i 4/5 della popolazione carceraria, otteneva una remunerazione regolare e un rapporto assicurativo e poteva godere di una certa libertà. Lavoro e libertà diventarono, pertanto, gli elementi fondamentali del programma di riabilitazione.
Le attività erano scelte in base: alle condizioni psicosomatiche; al grado sociale; alla cultura, concorrendo così, insieme alla scuola appositamente allestita, come era nelle intenzioni del direttore, Vittorio Madìa, a “ridestare nei soggetti l’equilibrio sentimentale ed affettivo” e a “riallacciarli alla vita” (1932, p. 11) e si muovevano nell’ambito dell’artigianato. Per questo erano stati allestiti laboratori dotati di macchinari e attrezzature idonee adatti ad espletare ed evadere le numerose commesse (abiti, calzature, mobili in ferro e in legno, infissi, rilegature di libri, etc.) che provenivano dall’esterno dell’Istituto, assicurando così un rapporto sinergico e produttivo tra il dentro e il fuori. Fino alla fine degli anni Novanta del secolo scorso sfogliando la rassegna stampa, si riconosce alla struttura la capacità di aver garantito lavoro e quindi benessere a intere famiglie; una struttura quindi che nonostante la sua particolarità e specificità era riuscita ad inserirsi nella vita della comunità (Benelli & Zizioli, 2023). Ci sono stati anche dei momenti bui nella storia dell’Istituto, ma si riuscì comunque a dimostrare, e lo si evince chiaramente dall’analisi dei materiali (come le cartelle o i “diari clinici” conservati nell’Archivio storico dell’istituzione e in Archivi privati), che concedendo ai ricoverati la possibilità di inserirsi nel flusso della vita, seppur tra le mura protette di un Istituto, si spezzava il nesso tra malattia mentale e pericolosità sociale, la cui indissolubilità privava completamente il soggetto della responsabilità verso la propria vita, diversamente da un’attenta progettazione educativa da prefiggersi. I bilanci sempre in attivo e le partecipazioni a mostre regionali e nazionali dell’artigianato furono tra i risultati più tangibili della buona riuscita del progetto che possiamo qualificare come pedagogico, oltre che sociale, proprio per le ricadute positive in chiave trasformativa che ebbe sugli ospiti e sull’intera comunità.
Facendo un salto temporale dove, nel mezzo, incontriamo altri momenti critici dell’Istituto barcellonese, andiamo al 2012 quando si metterà la parola fine alla storia dei manicomi criminali; con la legge 9/12, “Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri” si decretava la definitiva chiusura di tutti gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari d’Italia.
Nei luoghi dei “folli rei” sono stati effettuati alcuni precorsi e ricerche interessanti e, in particolare, presso l’istituto barcellonese, come quello del lavoro dello psichiatra fenomenologo Jacopo Santambrogio già citato per il volume di rara bellezza, valorizzante le storie.
Sempre presso l’Istituto di Barcellona Pozzo di Gotto, in seguito ad un produttivo incontro tra chi scrive e la direzione del carcere, nasce un progetto tanto interessante quanto complesso, dal titolo: Attraversamenti, con l’obiettivo di conoscere il percorso dell’istituto Madìa, di attraversarne le fasi storiche e nodali per ri-significare e riprogettare alla luce della nuova realtà che l’istituto è divenuto e rappresenta oggi.
Dal 2018, attraverso una convenzione tra il Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne dell’Università di Messina e l’Istituto penitenziario Vittorio Madìa di Barcellona Pozzo di Gotto, prende corpo una ricerca esplorativa e partecipativa denominata: Attraversamenti. Un progetto il cui scopo era l’esplorazione della storia complessa e articolata dell’istituto barcellonese attraverso uno sguardo interdisciplinare per valorizzare i punti di forza e far emergere per risignificare quelle criticità che lo hanno da sempre contraddistinto. Una ricerca che ha visto ulteriori fragilità durante il suo svolgimento dovuta alle varie interruzioni per il lungo periodo della pandemia del 2019-2020 e i cambiamenti istituzionali che sovente abitano le istituzioni penitenziarie. Nel dicembre del 2022 siamo riusciti a completare la realizzazione di una prima tappa di restituzione della ricerca; un percorso con la presentazione delle prime riflessioni sulla storia sociale dei manicomi grazie ad esperti di storia contemporanea e di antropologia sociale con i passaggi normativi fino ai giorni nostri. Inoltre, da un punto di vista pedagogico-sociale, sono stati evidenziati i punti di forza per l’attivazione e lo sviluppo di azioni formative a partire dalle biblioteche sociali e attraverso percorsi educativi e didattici (Benelli & Del Gobbo, 2016; 2023).
Infine, una seconda tappa è avvenuta nel dicembre 2023 quando è stata presentata la restituzione del progetto all’interno dello speciale monografico della Rivista Critical Hermeneutics (Benelli, Costanzo & Pandolfino, 2023). Nel monografico dal titolo Crossing: an interdisciplinary approach to the former psychiatric hospitalin Barcellona Pozzo di Gotto, sono state messe in evidenza questioni centrali e che richiamano l’attenzione alla tematica della carcerazione e della psichiatria come il diritto alla formazione e all’educazione nei contesti della pena.
Tra questi sono da citare le esperienze condotte presso la biblioteca penitenziaria, uno dei luoghi prioritari per la formazione della popolazione detenuta, attenta ai bisogni di chi le abita, come il progetto presentato da chi scrive e dalla collega Del Gobbo (Benelli & Del Gobbo, 2016; 2023). Oppure, come nel caso di Rebibbia, dove si è realizzato un percorso con la lettura come strumento di formazione e di educazione sociale (Zizioli, 2023). All’interno del progetto Attraversamenti si è, infatti, valorizzata la biblioterapia (Mento, Pira, Gueli Alletti & Silvestri, 2023), che richiama il tema della terapia attraverso interessanti dati sulla riabilitazione con la lettura come occasione di cura di sé. Infine, Salvo Presti (2023), tramite il progetto della riabilitazione della biblioteca scolastica di Barcellona Pozzo di Gotto, non effettua solo un lavoro di ascolto e di cura delle storie dei reclusi partecipanti al progetto stesso, ma realizza un docufilm intitolato: Dopo questo esilio successivamente pluripremiato a livello internazionale: un prodotto che restituisce la potenza e la cura educativa e culturale del luogo della biblioteca in carcere.
5 Lo sguardo di genere per le nuove traiettorie di ricerca
La scelta di puntare sulle attività legate alla lettura, nelle sue varie declinazioni, nasce dall’evidenza scientifica che l’arte e in genere tutti i linguaggi espressivi svolgono un ruolo ‘trasformativo’ sui processi identitari anche e soprattutto per i soggetti affetti da patologie psichiatriche. La creatività – sostiene sempre Santambrogio (2020, pp. 57-58) – è un’esperienza di cura e indubbiamente un mezzo per resistere all’istituzionalizzazione, per sottrarsi all’anedonia. Si apre allora la riflessione su quali attività possano essere promosse per incrementare l’utilità e l’efficacia terapeutica e quali riescano a ‘educare’ i soggetti coinvolti in un percorso di autodeterminazione e responsabilizzazione. La pratica già citata e condotta alla Casa Circondariale Femminile “Germana Stefanini” – Rebibbia a Roma ha valorizzato la biblioteca come spazio formativo (Benelli & Del Gobbo, 2016) dove sperimentare la meraviglia di un altrove che fa della bellezza una risorsa per ridare senso e far scoprire nuovi orizzonti alle esistenze più fragili, pure quelle attraversate dai disordini identitari, da turbamenti e da crisi depressive che possono generare in atti di autolesionismo. Chi scrive ha lavorato con donne che non erano estranee all’utilizzo degli psicofarmaci, di cui spesso, come si è documentato, si abusa nel contesto penitenziario. La finalità pedagogica è stata propria quella di sperimentare percorsi di risignificazione identitaria valorizzando, tramite il dispositivo autobiografico le singole storie, restituendo voce (Benelli, Bennati & Bennati, 2019; Zizioli, 2021), rielaborando ricordi ed emozioni per re-orientare il percorso di vita e aprire nuovi orizzonti.
Si sono cioè allestiti laboratori narrativi con testi particolari dove lo sviluppo della narrazione è affidato alle sole immagini per stimolare l’agency dei lettori (Zizioli, 2023), per provare a ricostruire immaginari, prima individuali e poi collettivi, frutto della condivisione, per mettere in circolo, come si diceva, sogni e desideri in donne attraversate da vulnerabilità e fragilità dove spesso il ricorso alle sostanze prova ad anestetizzare il dolore di vite sciupate o considerate non meritevoli di essere vissute. Si è trattato per certi versi di una forma di Visual Autobiography (Benelli & Mancaniello, 2023, p. 125) che ha messo in stretta relazione “formazione e biografizzazione”, “apprendimento ed esperienza” come insegna la letteratura scientifica (Delory-Momberger, 2021, p. 55), in una circolarità virtuosa tra teoria e prassi che valorizza il leggere e il fare insieme per sperimentare l’essere comunità e vivere il “margine” come campo di resistenza attraverso la valorizzazione delle pratiche artistiche e letterarie (bell hooks, 1998).
La scelta delle partecipanti non è stata causale e si deve pure rilevare che l’analisi sistematica dei dati riguardanti la sofferenza mentale in rapporto alla criminalità femminile rappresenta nel nostro Paese un tema ancora poco esplorato (Rivellini, 2018).
Le donne in carcere, peraltro, hanno sempre sofferto e ancora soffrono di una “doppia pena” (Gandus & Tonelli, 2019). Da anni si discute, anche a sostegno della maternità e dei diritti dei bambini, di individuando soluzioni altre, a partire da un rafforzamento e ampliamento delle misure alternative, pur “nella chiara consapevolezza – come fa notare Colamussi (2023, p. 133) – della gattopardesca realtà provvisoria in cui verte il sistema penitenziario, in generale, e quello delle misure alternative, in particolare”, nonché della complessità che attraversa le vite delle donne.
Assumere la prospettiva di genere ci consente di guardare più in profondità l’esclusione e la drammaticità del rapporto tra carcere e psichiatria proprio perché si tratta di una minoranza spesso considerata vulnerabile non per gli accidenti della vita, ma ontologicamente.
Le ricerche internazionali (Rutter & Barr, 2021) mostrano che il femminile nell’articolato sistema di giustizia penale è rappresentato da un gruppo particolare di donne, emarginate, spesso in posizioni di subalternità, recuperando una categoria gramsciana, materialmente deprivate e provenienti da contesti di abuso e abbandono, come del resto confermano anche i rapporti nazionali (Associazione Antigone, 2023b), e per le quali le relazioni positive assumono centralità nei percorsi di responsabilizzazione.
Le donne, senza alcun dubbio, soffrono di più nel sistema penitenziario di una trascuratezza dovuta non solo alla irrilevanza numerica (in Italia ad esempio rappresentano solo il 4/5%), ma anche alla permanenza di modelli che finiscono per ingabbiare la specificità femminile in un recinto di regole pensate solo al maschile, scontando la pena, per la maggior parte in sezioni all’interno di istituti popolati in prevalenza da uomini (Zizioli, 2021). Gli istituti ad utenza femminile sul territorio nazionale sono infatti solo quattro. La convivenza di entrambe le soluzioni, come ha ben sottolineato Giulia Mantovani (2018, p. 23) lascia avvertire “una realtà sospesa tra la frustrazione del principio di territorialità dell’esecuzione penale da un lato e la marginalità della comunità delle donne detenute dall’altro”. Per chi manifesta disturbi psichiatrici al pari degli uomini sono previste due tipologie di strutture: le REMS (Residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza) le ATSM che registrano comunque poche presenze, confermando la difficoltà di emersione del fenomeno e quella tendenza ad un “disagio psichico diffuso” di cui si diceva (Associazione Antigone, 2023a).
C’è da rilevare però che proprio guardando al femminile è possibile individuare piste per lavorare a soluzioni alternative al penitenziario (Pitch, 2020), anche per quanto riguarda la salute mentale. L’esiguità delle presenze e la specificità delle donne ha favorito – e può continuare a favorire – le sperimentazioni e la progettazione di inediti percorsi educativi.
In questo viaggio perciò, per indagare il rapporto tra carcere e psichiatria, si è deciso di fare un focus sulle donne capitalizzando alcune esperienze, come quella dei laboratori narrativi-identitari succitati per provare a tracciare nuove traiettorie di ricerca.
I processi di modernizzazione della storia dell’ospedale psichiatrico giudiziario maturano infatti proprio nell’ambito dell’internamento femminile; lo dimostra una storia singolare e drammatica come quella di Antonia Bernardini, bruciata viva nella sezione “Agitate e coercite” del manicomio giudiziario femminile di Pozzuoli, mentre era legata al letto di contenzione. Il materasso prende fuoco e le fiamme si sviluppano così rapidamente che ogni intervento si rivela intempestivo e fallimentare. La morte della donna ricoverata all’ospedale Cardarelli di Napoli sopraggiunge il 31 dicembre 1974 dopo un’estenuante agonia durata quattro giorni. L’evento, come restituiscono le fonti (Dell’Aquila & Esposito, 2017; Miravalle, 2018; Rivellini, 2018) contribuì a creare consapevolezza intorno alla necessità di riformare radicalmente il trattamento dei folli rei sollevando dubbi sulla liceità di certi metodi di trattamento (come il letto di contenzione), e portando sotto i riflettori la violenza istituzionale subita da tante altre donne. Violenza, peraltro, che si è perpetuata, seppur con forme e modalità differenti a fronte di un fenomeno che, come attestano i dati, continua ad avere sempre più rilevanza.
Il rapporto Antigone documenta che nel corso del 2022 “le donne con diagnosi psichiatriche gravi rappresentavano, negli istituti visitati, il 12,4% delle presenti, contro il 9,2% della rilevazione complessiva; e quelle che facevano regolarmente uso di psicofarmaci rappresentavano invece il 63,8% delle presenti, contro il 41,6% complessivo” (Miravalle, 2023).
La letteratura internazionale (Galán-Casado, del Mar García-Vita, Raya-Miranda & Añaños, 2024). conferma che la salute mentale ha assunto ormai una rilevanza non trascurabile per quanto concerne le donne in stato di reclusione e i disturbi dell’umore (depressione e ansia), insieme ai disturbi cognitivi (problemi di memoria, concentrazione, ecc.) sono i più frequenti, evidenziando una maggiore prevalenza di problemi come la doppia patologia (Baillargeon, Penn, Knight, Harzke, Baillargeon & Becker, 2010). Vi sono sicuramente dei fattori che incrementano i cosiddetti motivi di destabilizzazione: il distacco dai figli e il conseguente senso di colpa o le condizioni di vittimizzazione pregresse, per citarne alcuni tra i più significativi.
Per richiamare l’urgenza di ricercare modelli d’intervento adeguati, sarebbe interessante poter ripercorrere alcune traiettorie, riprendendo, ad esempio, i lavori di Gianfranco Rivellini (2018) sulla struttura di Castiglione delle Stiviere, intorno alle diverse variabili bio-psico-sociali, cliniche e criminologiche, rapportate ai processi di cura e di trattamento per le donne con disturbi mentali e socialmente pericolose. Ed è bene ricordare, riconducendoci alla questione del paradigma di subalternità, che per molto tempo “le differenti manifestazioni patologiche erano messe in relazione alle fasi biologiche e sessuali che scandivano le stagioni dei corpi femminili” (Valeriano, 2019, p. 172), provando così a dimostrare, con ogni mezzo, uno stato di minorità.
La progettualità educativa diventa perciò una vera e propria scommessa, una scelta che riflette un orientamento ben preciso. Ed è una questione aperta che la pedagogia in quanto scienza trasformativa è chiamata senza alcun dubbio ad affrontare, percorrendo itinerari di ricerca tra i contesti e le soggettività, lavorando sulla qualità delle relazioni per provare a restituire senso all’esistenza, nella piena convinzione che irregolarità, imperfezione, squilibri, angosce, anche sconfitte e paure sono espressioni di vite che hanno sempre e comunque il diritto di essere tutelate e dignitosamente accompagnate e sostenute.
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