Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education. Vol.28 n.69 (2024), 85–98
ISSN 1825-8670

L’incontro tra biologia e letteratura nei romanzi per l’infanzia. Una proposta interdisciplinare

Claudia FedericiAlma Mater Studiorum Università di Bologna (Italy)

Dottoranda in Scienze pedagogiche presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione “G. M. Bertin” dell’Università di Bologna, conduce il proprio progetto di ricerca in Letteratura per l’infanzia. È laureata in Scienze della formazione primaria e in Scienze biologiche.

Pubblicato: 2024-08-08

The Encounter between Biology and Literature in Children’s Novels. An Interdisciplinary Proposal

Abstract

The need to be surrounded by stories, through a continuous production of and listening to narrations, is a distinctive feature of humankind. Even biology, although part of the Natural Sciences, is a discipline that “tells stories”, because it has to do with time, with the relationships between organisms and with the depths and transformations of life. Starting from the assumptions of a reading pedagogy that promotes the pleasure of reading among children, without the aim to educate and conform, the purpose of this contribution is to bring out a specific didactic potential scattered throughout children’s novels, to propose interdisciplinary learning-teaching paths in biology at school by including children’s literature in science classes.

La necessità di essere immersi nelle storie, mediante una continua produzione e fruizione di narrazioni, è una caratteristica distintiva del genere umano. Anche la biologia, per quanto facente parte delle Scienze Naturali, è una disciplina che “racconta una storia”, perché ha a che fare col tempo, con le relazioni tra organismi, con le profondità e le trasformazioni della vita. A partire dagli assunti di una pedagogia della lettura che promuove la fruizione dei libri da parte dei bambini senza il proposito di istruire e conformare, nel presente contributo si intende far emergere uno specifico potenziale didattico sparpagliato nei romanzi per ragazzi, per proporre percorsi interdisciplinari di apprendimento-insegnamento della biologia a scuola innestando la letteratura per l’infanzia nelle ore dedicate alle scienze.

Keywords: Children’s Literature; Biology Education; Narration; Reading Pedagogy; Interdisciplinarity.

1 La narrazione come modo di essere

L’essere umano è un narratore, un raccontafavole, un cantastorie. Perché? Qual è il beneficio di tale attività? Quale vantaggio (evolutivo, ma non solo) questa facoltà porta? Quanto influisce sulla nostra organizzazione cognitiva, sui nostri saperi, sul nostro essere e sul nostro agire? I tentativi di dare risposta a queste domande sono numerosi, apportati da studiosi di discipline tra loro diversissime: le neuroscienze, l’archeologia cognitiva, la filosofia, la psicologia, la biologia evoluzionistica, la paleontologia, l’antropologia e le scienze letterarie, per citarne alcune. La collaborazione tra ambiti disciplinari tradizionalmente lontani si rivela per ora l’unica via destinata a raggiungere un qualche risultato condiviso (Cometa, 2017), per quanto non definitivo. Jonathan Gottschall (2012/2014) sintetizza alcune delle possibili spiegazioni date alle funzioni delle storie: come forme di gioco cognitivo, come motori della selezione naturale e/o sessuale, come fonti di apprendimento, come collante sociale, come organizzatori cognitivi. Infine, possono essere incluse anche tra i generatori di piacere estetico e le strategie di gestione dell’ansia (Cometa, 2017).

Senza addentrarsi nella specificità di ciascun contributo, ai fini della presente proposta interessa individuare il nucleo comune, lo spazio di condivisione sul quale tutti gli studiosi concordano, ovverosia che la capacità di narrare e di raccontare storie, per quanto apparentemente inutile e senza dirette ricadute pratiche, ha concorso ad accrescere la nostra capacità di sopravvivenza (Cometa, 2017; Gottshall, 2012/2014; Nikolajeva, 2014; Wilson, 2017/2018). In noi “l’evoluzione culturale si è innestata in quella biologica, influenzandola e venendone influenzata” (Wilson, 2017/2018, p. XII). L’immenso areale di distribuzione di Homo sapiens e la sua fitness, quindi il suo successo come specie, derivano da una plasticità cerebrale unica, originatasi dall’ampliamento di certe aree del cervello e dalla comparsa di “un pacchetto di comportamenti e di capacità mai visti prima tutti insieme e svincolati dalle esigenze di mera sopravvivenza” (Sini & Pievani, 2020, p. 43). Tra questi, appunto, il linguaggio e, con esso, la capacità di raccontare. La narrazione, così peculiare e definente la nostra specie, è un’attività che domina la nostra vita: siamo immersi nelle storie ed elaboriamo storie in continuazione, anche mentre dormiamo (Gottshall, 2012/2014). Non solo, la grammatica delle storie che gli esseri umani raccontano è universale e, soprattutto, antichissima. Si ritiene sia molto probabile che la nostra capacità di narrare “abbia registrato un incremento quantitativamente e qualitativamente decisivo durante quella che è stata definita la ‘rivoluzione del Paleolitico Superiore’, un’epoca compresa tra (circa) 40.000 e i 10.000 anni fa” (Cometa, 2017, p. 26). In qualche modo, siamo quello che siamo – umani – grazie alle storie.

Dunque, le narrazioni possiedono una funzione cognitiva e una funzione sociale: organizzano la conoscenza del singolo ma anche del gruppo, creano legami nello spazio e nel tempo, promuovono il senso di appartenenza. Queste potenzialità insite nelle storie non si sono mai dissolte nel corso delle trasformazioni fisiche e culturali dei nostri antenati e tali sono rimaste fino a noi. Quindi, se possediamo un patrimonio così prezioso e che così fortemente ci caratterizza, lo si può considerare, parimenti al sistema sensoriale, un canale privilegiato di collegamento tra il mondo esterno e il nostro mondo interno. La narrazione, sostiene Dallari, “è uno degli strumenti più efficaci (forse il più efficace) per trasmettere conoscenza” (Dallari, 2005, p. 12). Le storie, oltre ad essere esplorazioni per scoprire nel profondo chi siamo (Grilli, 2021) e per strutturare la nostra identità (Demetrio, 2012), possono divenire condizione e veicolo di apprendimento per interiorizzare le regole e la cultura che caratterizzano il gruppo umano di appartenenza, lenti per interpretare il presente e immaginare il futuro (Grandi, 2017), mediatori per imparare a guardare e a relazionarsi con la realtà all’interno della quale ci si muove, costruendo e condividendo “rappresentazioni del mondo e chiavi di lettura per decifrare l’esistenza” (Dallari, 2005, p. 12).

2 Le narrazioni della biologia

Le Indicazioni Nazionali per il Curricolo della Scuola dell’Infanzia e del Primo Ciclo di Istruzione orientano il lavoro degli insegnanti che si occupano di Scienze nella scuola primaria precisando che:

l’osservazione dei fatti e lo spirito di ricerca dovrebbero caratterizzare anche un efficace insegnamento delle scienze e dovrebbero essere attuati attraverso un coinvolgimento diretto degli alunni incoraggiandoli, senza un ordine temporale rigido e senza forzare alcuna fase, a porre domande sui fenomeni e le cose, a progettare esperimenti/esplorazioni seguendo ipotesi di lavoro e a costruire i loro modelli interpretativi (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca [MIUR], 2012, p. 66).

Aggiungono anche che:

è opportuno, quindi, potenziare nel percorso di studio l’impostazione metodologica, mettendo in evidenza i modi di ragionare, le strutture di pensiero e le informazioni trasversali, evitando così la frammentarietà nozionistica dei differenti contenuti. Gli allievi potranno così riconoscere in quello che vanno studiando un’unitarietà della conoscenza (MIUR, 2012, p. 66).

Senza mettere al bando il libro di testo, le Indicazioni Nazionali ne suggeriscono però un uso parsimonioso e oculato, perché le Scienze si fanno. L’astrattezza di molti contenuti, il linguaggio specifico, la tendenza a proporle come oggettive e la mancanza del racconto dei percorsi – più che dei risultati – rischiano di rendere le scienze naturali un monolitico assemblaggio di verità inconfutabili. Domande importantissime quali “come?” e “perché?”, spesso ottengono risposte senza nemmeno essere state poste. L’osservazione dei fenomeni, punto obbligato di accesso allo sviluppo delle fasi del metodo scientifico (che, se imparate a memoria e raramente sperimentate, difettano di senso), rischia di perdere il suo valore euristico a favore della visione di animazioni nelle quali voci fuoricampo spiegano, selezionano, focalizzano. Il pericolo di tutto ciò è un disamore nei confronti delle discipline del bios, la perdita di interesse nei fenomeni naturali e il distaccamento, concettuale e fisico, dalle relazioni ecosistemiche che permettono la sopravvivenza della nostra specie. Ebbene, in questa sede si vuole provare a suggerire un percorso di apprendimento-insegnamento in cui, come Lombardo Radice (1925) scriveva della scuola della Montesca, l’educazione scientifica coincida con quella artistica e l’avvicinarsi alla scienza sia un atto poetico.

Le storie, procedendo per canali di pensiero specifici e differenti rispetto ad altre forme di pensiero – quale, ad esempio, il pensiero logico-scientifico o paradigmatico (Bruner, 1988/2003) -, percorrono i nostri circuiti neurali e si fissano a livello cerebrale per vie diverse rispetto a quelle più frequentemente sollecitate durante le ore di insegnamento delle scienze naturali a scuola. Il pensiero narrativo è una modalità cognitiva di organizzazione e rielaborazione dell’esperienza umana mediante il quale l’esperire acquista senso e significato, è un modo per interpretare gli eventi e trasformarli in oggetto di riflessione e di analisi (Bruner, 1988/2003). Beach e Bissell hanno ampliato la definizione di pensiero narrativo aggiungendo che “although narrative thinking is a product of evolution, it enables humans to transcend evolutionary limits, making possible both reaction to and shaping of the internal and external environments” (Beach & Bissell, 2016, p. 168).

Nei processi di funzionamento della mente, le forme di pensiero, come ad esempio quelle analitiche e narrative, non sono in contrapposizione tra loro bensì si completano e si integrano in un flusso continuo. Il cervello umano, infatti, è un

suprasystem composed of subsystems that, acting in concert, give rise to emergent consciousness. Some of these subsystems, notably perception and memory, contribute content to consciousness. And one subsystem in the left hemisphere codes the content in language while a corresponding subsystem in the right hemisphere links it with emotions. Working together as a single system, called the “interpreter,” they impose order upon the content of consciousness (Beach & Bissell, 2016, p. 168).

Secondo questi Autori, ancora, ciò che sottostà al pensiero logico sono narrazioni procedurali: “procedural thought grows out of (and supplements) discursive thought, which is the primary mode of thinking. Moreover, both are types of thought. That is, procedural narratives exist to fill the needs of discursive chronicle narratives” (Beach & Bissell, 2016, p. 172).

Il pensiero logico segue percorsi lineari ed è definito da regole precise, sistematiche, ripercorribili; è il pensiero della relazione causa-effetto, della sequenza temporale, degli algoritmi di calcolo, della classificazione, ed è quello sul quale diffusamente converge il sistema scolastico; il pensiero analogico, invece, è il pensiero delle libere associazioni, della casualità, della trasversalità, della scoperta euristica (Dallari, 2021). L’interazione tra il pensiero logico e quello analogico rende efficace la comunicazione perché intreccia il contenuto cognitivo con una forma nella quale entrano in gioco anche la componente estetica e quella emotiva. La narrazione “offre un approccio di tipo ermeneutico alla conoscenza che tende a coniugare i diversi aspetti della dimensione esistenziale, ossia quelli intellettuali come quelli affettivi” (Gramigna, 2013, p. 29). L’avvicinamento ai saperi tramite la collaborazione dei processi logici e analogici, mediata dalla narrazione, permette un approccio conoscitivo in cui l’apprendimento si compone anche di partecipazione, interpretazione, elaborazione e comprensione (Dallari, 2005; Gramigna, 2013); dunque, un approccio globale alla conoscenza, aperto, interconnesso, plurale. La molteplicità degli sguardi e la costruzione collaborativa dei saperi può essere un antidoto contro il pensiero unico, dogmatico e assertivo e favorire, invece, una riflessione poliprospettica, dubitativa e critica. Perché i contenuti delle discipline abbiano significato, sono necessarie “logiche interpretative capaci di selezionare e aggregare il flusso dei saperi” (Frabboni & Pinto Minerva, 2014, p. 36), in un contesto che solleciti punti di vista ipotetici e problematici, e in cui la rappresentazione del mondo sia discussa, esplorata, co-costruita, partecipata. Uscire dal proprio punto di vista per andare verso altre prospettive incoraggia un pensiero collaborativo e curioso, che legittima le differenze e apre alle connessioni intime con tutti i sistemi viventi, “un pensiero che si nutre di ragione e di emozione, di logica e immaginazione” (Frabboni & Pinto Minerva, 2014, p. 173). La narrazione acquista così un valore ecosistemico e fenomenologico, poiché connette, intreccia e mette in relazione una molteplicità di saperi disciplinari e specialistici, ponendoli in dialogo tra loro, frantumando gli steccati che li incasellano e annullando “ogni pretesa di esistenza extracontestuale e sovrastorica di idee, conoscenze e valori” (Dallari, 2005, p. 17).

Curiosamente, però, viene spesso trascurato il potenziale narrativo della biologia che, a ben guardare, è una scienza storica (Longo, 2014); è storica perché racconta la storia della vita e del suo trasformarsi nel tempo e perché l’evoluzione, lente imprescindibile attraverso la quale guardare gli organismi e le loro relazioni, è un racconto scritto nelle forme in cui la vita stessa si manifesta. Inoltre, come già intuito da Alexander von Humboldt nella prima metà dell’Ottocento (Wulf, 2015/2017), la natura è un unico interconnesso di cui le scienze del bios narrano, mediante i loro specifici linguaggi, i ruoli, le vicende e le relazioni; un organismo-soggetto in cui nulla può essere considerato separatamente. La biologia conferma che siamo fili di una stessa trama, ognuno inserito nel proprio percorso evolutivo e individuale e nella propria forma, ma irriducibilmente interconnessi. Oltre ad aiutarci a “sentire” questo profondissimo legame, così come i filosofi della Naturphilosophie e, a partire da loro, i Romantici (Wulf, 2015/2017), le scienze della vita ci spiegano le strutture e i processi biologici alla base di tale interdipendenza, dal macroscopico all’infinitamente piccolo: “at the DNA level, the whole biosphere is highly permeable and boundaryless” (Morton, 2012, p. 275). Nella raffinata analisi del pensiero ecologico condotta da Timothy Morton, che procede lungo una “‘humiliating’ descent, towards what is rather abstractly called ‘the Earth’” (Morton, 2012, p. 265), punto di partenza imprescindibile è il Teorema dell’Interdipendenza, i cui due assiomi fondamentali affermano che le cose sono ciò che sono solo in relazione alle altre cose, e che nulla esiste da sé stesso e nulla deriva da nulla. Conclusione dei ragionamenti intorno a tale teorema, e base del pensiero ecologico, non è una nuova forma di nichilismo, bensì “a politicized intimacy with other beings” (Morton, 2012, p. 266), congiunta ad un rinnovato senso di responsabilità nei confronti di tutte le forme di vita e ad una certa dose di malinconia, derivante dalla consapevolezza dei nostri errori come specie.

Dal comprendere intellettualmente ad un sentire profondo: è in questa trasformazione dialogica, in questo continuo travaso dal cognitivo all’emotivo – e ritorno – che biologia e letteratura si incontrano, innervando un pensiero che si radica su conoscenze e consapevolezze e che poi si dirama verso una partecipazione intima con il mondo vivente. L’interdipendenza di tutti gli esseri tra loro, e l’equilibrio dinamico mantenuto costante da “relazioni instabili ma insolubili” (Frabboni & Pinto Minerva, 2014, p. 124) dovrebbero migrare da una condizione di mere informazioni ad una di guide nell’orientamento dello sguardo e dell’agire, andando a determinare un modo di abitare la Terra consapevolmente ecosistemico. Nell’analisi proposta da Pinto Minerva, il pensiero ecologico

è in grado di riconoscere collegamenti, di operare legami, di scoprire nessi tra visioni del mondo che, seppure epistemologicamente autonome, si differenziano e hanno senso nella consapevolezza del loro riferirsi ad una stessa realtà che si lascia, solo transitoriamente, osservare da una pluralità di punti di vista. Aiutare già nell’infanzia alla costruzione di un pensiero ecologico significa far acquisire ai piccoli allievi la consapevolezza della complessità della rete della vita (Frabboni & Pinto Minerva, 2014, p. 134).

Proprio per l’interdipendenza che caratterizza qualunque essere vivente rispetto agli altri, le narrazioni che descrivono questi rapporti sono storie di soggetti e raccontano di vicende che trattano di morte, competizione, problemi, nascita, inventiva, cooperazione, simbiosi, malattie, imbrogli, bellezza.

Un sistema è un “insieme di varie parti che si comporta come un tutto unico” (Longo, 2014, p. 7), ciò significa che tra queste parti esistono relazioni complesse ed equilibri che si alterano se una parte del sistema si modifica. La biologia è piena di sistemi, cioè di legami complessi tra gli organismi, ed è piena di processi, ovverosia di eventi collocati in luoghi determinati e collegati tra loro secondo una sequenza logica e temporale che richiama la fabula narrativa. Dunque, se una storia è costituita da personaggi (gli organismi) che si muovono in un ambiente (l’ecosistema), che agiscono e che attraversano peripezie a partire dal turbamento dell’equilibrio iniziale (l’alterazione dell’omeostasi interna o la perturbazione dell’equilibrio dinamico dell’ecosistema), si può forse affermare che la biologia sia un ininterrotto fluire di storie.

Se c’è una narrazione che sottende le scienze del bios, allora si può avanzare l’idea che le strutture narrative universali possano essere applicate anche al racconto di questa disciplina, al fine di promuovere un apprendimento caldo, partecipe, attivo. Secondo Castoldi infatti:

di fronte ad un sapere formalizzato che tende a privilegiare la generalizzazione, la ricerca di leggi comuni ai diversi fenomeni, l’astrazione dai contesti specifici, la narrazione rappresenta un antidoto per aiutare a non spersonalizzare la conoscenza, per riportarla al nostro vissuto, alla nostra esperienza, al nostro sentire (Castoldi, 2015, p. 198).

Nella dinamica formativa, il recupero del pensiero narrativo può ridare senso alla conoscenza perché permette di collocarla entro una cornice di significati condivisi, perché avvicina concettualizzazione ed esperienza e perché rende i contenuti più comprensibili, prossimi, concreti (Castoldi, 2015).

Le grandi domande che l’essere umano si pone (“da dove vengo?”, “perché si muore?”, “che cosa rende me, me?”, “che cos’è la vita?”) sono domande anche biologiche (Longo, 2014), lì dove la scienza della natura incontra la filosofia, dalla quale, inevitabilmente, deriva. Narrazioni e grandi domande sono le medesime componenti della letteratura, che parla un linguaggio diverso dalla biologia ma tende verso gli stessi vasti orizzonti.

Ora, si vorrebbe sottolineare l’importanza dell’aspetto descrittivo in biologia: gli oggetti di questa scienza hanno bisogno, per essere individuati, conosciuti e riconosciuti nella loro specificità, di essere descritti minuziosamente, nei loro dettagli, nelle loro similarità e differenze. Quindi, ancora, appare fortissimo il nesso tra le forme della narrazione e quelle della biologia. In questo particolare aspetto, soprattutto, diviene discriminante tra letteratura e scienza l’uso del linguaggio che, nella comune percezione, traccia i confini tra un campo e l’altro. Ad esempio, la descrizione di un fiore, di un lupo o di un bosco sarà tanto più scientifica quando incentrata su caratteristiche oggettive definite da termini rigorosi e costruita con una sintassi adeguata alla razionalità di un sapere formale; similmente, una descrizione letteraria sarà tale se capace di smuovere emozioni, di portare il lettore intimamente vicino all’oggetto descritto e di creare immagini dense di suggestioni, facendo uso di un linguaggio poetico, evocativo, sciolto da qualsiasi vincolo di meticolosità.

La scienza è una costruzione umana (come la letteratura) e ha un suo linguaggio specifico, certamente, ma questo non deve essere vincolante, esclusivo, inviolabile. Le parole della biologia possono essere anche le parole della letteratura, e viceversa. Riprendendo il pensiero di Claudio Longo, il linguaggio letterario (o poetico) è “un linguaggio con una certa forza suggestiva che parla con immediatezza ai sensi o all’immaginazione o che collega arditamente fatti e idee apparentemente lontani tra loro. Questo ‘colpo d’ala’ tipico della poesia è del resto una caratteristica della migliore scienza” (Longo, 2014, p. 199). Il timore di confondere i linguaggi rischia di ridurre quello scientifico destinato ai bambini sciatto, esageratamente specifico e freddo. Se è vero che le storie ci coinvolgono e rendono accessibili i saperi, e che “la narrazione è una forma primigenia di organizzazione della conoscenza” (Gramigna, 2013, p. 34), allora forse si può pensare di veicolare contenuti e temi propri delle scienze della vita tramite la letteratura e, nello specifico, mediante la letteratura per ragazzi. Il rapporto tra narrazione e conoscenza nel contesto scolastico, scrive Dallari:

non vale, sia ben chiaro, soltanto per quel tipo di sapere che veniva definito umanistico e distinto da quello scientifico. Vale per qualunque tipo di conoscenza, poiché nella relazione educativa ogni sapere si fa mobile, plastico, diviene parole, simboli, gesti, creazione e rievocazione di esperienza. Non è dunque la sua enunciazione, se c’è, che lo rende “sapere”, ma la sua ri-fondazione, la sua ri-scoperta, il suo ri-racconto (Dallari, 2005, p. 8).

3 Una proposta interdisciplinare

Secondo David Ausubel, l’apprendimento diviene significativo nel momento in cui si stabilizza, ancorandosi a saperi precedenti, e in cui si riempie di senso perché tocca corde legate anche alla motivazione e alla curiosità cognitiva (Tornar, 2001). La letteratura è in grado di sollecitare non solo la cognizione, che può consentire la lettura di un testo per indagarne i contenuti, ma anche un sentito emozionale agganciato ai temi e agli argomenti incontrati ed una partecipazione empatica evocata dalla storia. Non solo, la natura interpretativa della scienza, “il suo valore come impresa intellettuale” (Longo, 2014, p. 34) e il suo carattere dubitativo, potrebbero essere meglio comunicati dalla voce della letteratura che da quella assertiva e apparentemente inconfutabile del sussidiario scolastico. Come costruzione umana, la scienza è “un modo particolarissimo di vedere il mondo” (Longo, 2014, p. 34), ma, appunto, è un modo. Lo sviluppo del pensiero critico passa anche da qui.

Secondo il celeberrimo biologo Edward O. Wilson “abbiamo bisogno di unificare l’ambito umanistico e quello scientifico per costruire un quadro completo e onesto di ciò che davvero siamo e possiamo diventare. Questa combinazione è il substrato potenziale dell’intelletto umano” (Wilson, 2017/2018, p. 76). Il divario tra i saperi umanistici e quelli scientifici, che si è andato sempre più approfondendo e irrigidendo a partire dalla separazione tra res cogitans e res extensa celebrata da Cartesio, ma che ha radici nel pensiero dualistico già del mondo Greco, limita la formazione di un pensiero culturale unitario e integrato, ostacolando la conoscenza della realtà nella sua completezza (Re, 2010). Mentre la società si sviluppa soprattutto sui modelli tecnico-scientifici, la cultura intesa in senso tradizionale domina i processi di scelta politica, compresi quelli orientanti le politiche educative; dunque, questa incomunicabilità non è relegata al mondo accademico e intellettuale, ma ha ricadute sulla vita concreta delle persone (Snow, 1959/1970). L’esercizio del pensiero, in termini di ricerca sia scientifica sia umanistica, offre alla cultura gli strumenti per comprendere e gestire il proprio tempo, per capire e orientare i cambiamenti (Angela, 1975), abbandonando l’idea del primato di un sapere su un altro. Secondo Bruner “il solo modo possibile per la conoscenza individuale di mantenere il passo con il continuo dilatarsi della conoscenza universale è proprio il possesso delle relazioni intrinseche che unificano la conoscenza” (Bruner, 1962/2005, p. 138).

Lontana dal voler promuovere un fragile accumulo di nozioni, la presente proposta vorrebbe incoraggiare percorsi di avvicinamento al senso, ai metodi, alle riflessioni, alle interconnessioni della scienza, e in particolare della biologia, tramite la narrativa, per contribuire al trasformarsi delle informazioni in conoscenza (Boero, 2011).

Alla luce di ciò, e dunque della necessità di mettere in dialogo tra loro le “due culture”, così definite le discipline letterarie e quelle scientifiche da Charles P. Snow nel 1959, interessa evidenziare quanta biologia sia contenuta nei romanzi per l’infanzia e quali potenzialità possa mostrare questa forma di contaminazione nei percorsi di apprendimento-insegnamento delle scienze naturali a scuola. Senza rendere la letteratura per ragazzi uno strumento didascalico (lo è stata per lungo tempo e, purtroppo, in parte lo è ancora) e senza cercare in essa unicamente i contenuti utili, si ritiene che si possa però inserirla tra le risorse didattiche anche dell’insegnante di scienze, proprio in virtù delle sue peculiarità: la forza evocativa, la profondità di analisi, la ricchezza immaginativa, la voce poetica, l’interdisciplinarità.

La produzione letteraria per ragazzi è divenuta strumento di divulgazione scientifica già a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. In forma di libri e libricini, volumetti e giornalini, la “scienza dilettevole” è stata proposta ai bambini italiani come premio, come gioco, come regalo (Marrazzi, 2016). Non è questo che qui si propone, perché i testi per ragazzi specificamente orientati alla divulgazione scientifica si trovano principalmente nello scaffale degli albi illustrati non-fiction (tra l’altro, con libri resi oggetti di gran pregio da un’estetica raffinatissima e un’accuratezza scientifica scrupolosa); l’intento qui è invece quello di offrire ai bambini romanzi nati per essere romanzi, ma talmente ricchi di suggestioni naturalistiche, osservazioni meticolose e rimandi ai modi e agli oggetti delle scienze biologiche da renderli terreno di scoperte, domande, riflessioni e, sì, apprendimenti. Alcuni titoli: Miss Charity (2008) di Marie-Aude Murail, L’estate in cui tutto cambiò (2013) di Penelope Lively, Io sto nei boschi (1959) di Jean Craighead George, L’isola misteriosa (1875) di Jules Verne, Clorofilla dal cielo blu (1991) di Bianca Pitzorno, Fishboy (2017) di Chloe Daykin, Il giardino segreto (1911) di Frances Hodgson Burnett, Julia e lo squalo (2022) di Kiran Millwood Hargrave, Lettere dall’universo (2019) di Erin Entrada Kelly, Lo scarabeo vola al tramonto (1978) di Maria Gripe, Il meraviglioso viaggio di Nils Holgersson (1906) di Selma Lagerlöf, L’esploratore (2017) di Katherine Rundell, La storia di Mina (2010) di David Almond, Il barone rampante (1957) di Italo Calvino, solo per citarne alcuni. Libri scritti per raccontare una storia, per l’urgenza di narrare e non con un fine di divulgazione. Eppure, da questi testi fanno insistentemente capolino la biologia, scienza della vita, e i suoi oggetti, processi, approcci. Talvolta i rimandi sono consapevoli, voluti, dichiarati – come accade più di frequente nei romanzi contemporanei –, altre volte invece rientrano in uno specifico modo di guardare il mondo e di porsi domande su di esso. Il sapere naturalistico, nei libri menzionati poc’anzi, transita frequentemente da una nomenclatura precisa, sistematica, linneana e da espliciti riferimenti ai contenuti delle branche in cui la biologia si specializza (l’etologia, l’ecologia, la botanica, la zoologia…). Non di rado all’interno della narrazione vengono inserite descrizioni e spiegazioni di natura scientifica con specifici rimandi a questo sapere (facendo riferimento a esponenti autorevoli come Charles Darwin, Linneo e David Attenborough, oppure riportando insegnamenti ricevuti da genitori scienziati, o ancora citando libri e studi condotti autonomamente).

L’abitudine all’osservazione minuziosa e investigativa, al porsi domande e al meravigliarsi di fronte ai fenomeni e alle manifestazioni della vita è un’attitudine che caratterizza i protagonisti e le narrazioni di tutte queste storie. Storie pensate e scritte in epoche diverse, collocate sia nella loro genesi sia nel mondo dell’immaginario in contesti differenti, eppure accomunate dall’attenzione e dall’approccio scientifico alle forme e ai processi della vita. Questa ibridazione, questa contaminazione, può essere considerata una risorsa preziosa, una possibile sorgente di percorsi di apprendimento diversi, interdisciplinari e creativi. I romanzi citati sono solo alcuni dei libri che potrebbero essere scelti dagli insegnanti per introdurre, approfondire o affrontare specifici argomenti di scienze. Esistono testi la cui narrazione sorge e si sviluppa intenzionalmente su temi “biologici”, racconti che spesso hanno come protagonisti gli animali, i loro ambienti o la relazione di un essere umano con loro (gli scritti di Gerald Durrell, William Henry Hudson, James Herriot e Mario Rigoni Stern, ad esempio), ma qui si vuole rimarcare quanta ricchezza si dischiuda dalle pagine anche di altri libri, magari meno esplicita, evidente, dedicata, eppure profusamente distribuita.

4 Spunti operativi e riflessioni in merito

Capolavoro, in questo senso, è il romanzo L’evoluzione di Calpurnia di Jacqueline Kelly, edito da Salani per la prima volta nel 2011.

1899, Texas. Calpurnia ha quasi dodici anni e già sei fratelli, tutti maschi. Vicino alla vasta piantagione gestita dalla sua famiglia scorre un fiume, ed è tra lì e la grande casa che il Nonno rende partecipe Calpurnia dei segreti del mondo naturale, del rigore del metodo scientifico, della teoria dell’evoluzione del signor Darwin. Il romanzo, i cui capitoli sono tutti introdotti da brani tratti da L’origine delle specie (a sottolineare la continuità tra le vicende umane e le grandi forze che regolano i processi e i fenomeni biologici), racconta la storia di una scienziata in erba, di una ragazzina interessata ai fenomeni della vita, curiosa, perspicace, tenace. La figura del Nonno, dapprima spaventevole drago feroce poi unica guida in un mondo che la vorrebbe dedita a crinoline e merletti, è un mentore socratico, un educatore che condivide e non trasmette, che sollecita e legittima, che interroga e sostiene. Tramite questo metodo maieutico, Calpurnia osserva, compara, sistematizza. L’evoluzione di Calpurnia è un romanzo di crescita, di presa di consapevolezza e di formazione – una formazione quasi professionale, perché essere una scienziata è un mestiere.

Le domande che Calpurnia si pone, e che originano da un guardare attento e da una riflessione su quanto osservato, vengono da lei annotate su un taccuino e poi condivise con il Nonno. Osservazione, domande, ipotesi, esperimento, conferma o disconferma delle ipotesi… l’applicazione narrata del metodo scientifico, che non è mera ripetizione di rigidi passaggi ma modo di approcciarsi al reale, al complesso mondo della materia vivente.

Quell’estate avevamo due tipi molto diversi di cavallette. C’erano quelle solite, veloci e piccoline, color verde smeraldo tempestate di macchie nere. E poi quelle giallo acceso, enormi, grandi il doppio e torpide, così ceree e grasse che quando atterravano facevano piegare i fili d’erba. Non le avevo mai viste prima. Sondai tutti in casa (eccetto Nonno) per scoprire da dove venivano quegli strani esemplari gialli, ma non seppero dirmelo. E non importava nulla a nessuno.
Come ultima risorsa, misi insieme tutto il mio coraggio e mi recai al laboratorio di mio nonno (Kelly, 2014, p. 13).

Dapprima Calpurnia pensa di avere scoperto una nuova specie di cavallette, ma poi, osservando e riflettendo, arriva ad un’altra conclusione.

La calura prosciugava la vita di tutti e di tutto. Pensai alla nostra amata casa, grande e antica, e a come sembrava triste al centro del prato giallo, arido. Di solito l’erba era morbida, fresca e verde, invitava a togliersi le scarpe, a correrci sopra a piedi nudi e a giocare alle belle statuine, ma adesso era di un colore oro riarso, e pericolosa per i piedi come le stoppie. L’erba gialla rendeva difficile vedere la mia nuovissima specie di grandi cavallette gialle. In pratica era impossibile trovarle sino a quando non ci si camminava sopra. Allora schizzavano su e volavano pesanti schioccando le ali per qualche piede, atterravano di nuovo in mezzo all’erba e sparivano. Catturarle era difficile, nonostante fossero grasse e lente. Ѐ buffo come quelle color smeraldo, più piccole e veloci, fossero così facili da catturare. Individuarle era una bazzecola. Gli uccelli passavano le giornate a ingurgitarle, mentre quelle gialle si nascondevano lì vicino e schernivano le cugine meno fortunate.
E allora capii. Non esisteva nessuna nuova specie. Erano tutte dello stesso genere. Quelle che all’inizio della siccità erano nate un po’ più gialle vivevano fino a tarda età; gli uccelli non riuscivano a vederle nell’erba secca. Quelle più verdi, quelle che gli uccelli beccavano, non resistevano abbastanza per diventare grandi. Solo quelle più gialle sopravvivevano, perché erano più adatte a vivere nella torrida canicola. Il signor Charles Darwin aveva ragione. La prova si trovava nel prato davanti a casa mia (Kelly, 2014, pp. 18-19).

Dunque, a partire dall’osservazione di una realtà vicina, accessibile, quotidiana, Calpurnia deduce il collegamento con la teoria della selezione naturale e dell’adattamento. Oggi, che ai bambini è concesso così poco tempo per contemplare e immergersi in un contesto che non sia artificiale e inorganico, forse la letteratura può offrire uno stimolo per vedere altro, per accorgersi, per sorprendersi. Il bisogno di esperienze in natura, dirette, corporee, immersive e lente, ma così diffusamente negate, trova un promotore in questo romanzo, nel quale non solo si rimarca l’esigenza dell’infanzia a stare “fuori” per un benessere psico-fisico, ma anche per accrescere il proprio sapere del mondo. In classe, ragionare insieme delle deduzioni di Calpurnia, delle domande che si pone e delle sue asserzioni può originare, in un contesto di discussione e brainstorming, sguardi originali, ipotesi, approfondimenti, condivisione dei saperi, desiderio di sperimentare, coinvolgimento e co-costruzione delle conoscenze. La narrazione, inoltre, innesca la creazione di immagini mentali e di sequenze temporali alle quali possono più facilmente ancorarsi informazioni puntuali e oggettive (Castoldi, 2015), come quelle nozionistiche generalmente associate allo studio delle discipline scientifiche. Tali visualizzazioni possono rendere più agevole richiamare alla memoria i contenuti incontrati, mentre la linea cronologica seguita dal racconto può aiutare a dare ordine ad un processo, un ragionamento, un metodo. La motivazione, motore indispensabile ad un apprendimento significativo, si sollecita offrendo ai bambini modalità, situazioni e strumenti diversificati (Gherardi, 2010). Pertanto, a partire dalla lettura di una pagina di Calpurnia, si possono programmare attività all’aperto (avventurandosi magari anche in quel “fuori” che va oltre le recinzioni del giardino scolastico) dedicate alla ricerca e all’osservazione di fenomeni biologici, di forme di vita impensate, di ambienti frequentati assiduamente ma mai riconosciuti come luoghi di esplorazione scientifica. Il mimetismo criptico, ad esempio, implicato nel brano citato poco sopra, è un fenomeno rintracciabile facilmente anche in un prato incolto prossimo a luoghi fortemente antropizzati, e dunque la sua rilevazione in un contesto reale ed empirico potrebbe agevolare i bambini nella creazione di quelle connessioni e sinergie cognitive necessarie a rendere un apprendimento stabile, significativo e duraturo. L’attivazione parallela di pensiero narrativo e paradigmatico, mediante la lettura di un romanzo e insieme la discussione sui contenuti e sui processi scientifici presenti nelle pagine ascoltate, offre un approccio più completo, globale e unitario ad una disciplina, la biologia, le cui domande di senso riguardano ogni singolo essere umano.

«Dicevate?» chiesi, alzando lo sguardo dal trilobita.
«La bestia imbottigliata che puoi vedere lì sullo scaffale».
Guardai il mostro nello spesso vaso di vetro, con i suoi occhi strani e i tanti arti.
«È una Sepia officinalis che aveva raccolto vicino al Capo di Buona Speranza».
«Chi l’aveva raccolta?»
«Stiamo parlando del signor Darwin».
«Davvero?» Non riuscivo a crederci. «È lui che ve l’ha mandata?»
«Certo. Nel corso della sua vita tenne un’ampia corrispondenza con molti naturalisti di tutto il mondo e scambiava esemplari con qualcuno di noi». […]
Non riuscivo a crederci. Non avevamo soltanto il suo libro in casa nostra, ma addirittura un mostro catturato dal signor Darwin in persona. Fissai la cosa e cercai di comprendere la ragione dell’eccesso di gambe e braccia.
«Che cos’è?»
«Che cosa pensi che sia?» (Kelly, 2014, p. 86)

«Che cosa pensate che sia? Che cosa potrebbe essere?». Domande alle quali si può provare a cercare risposte, ragionando sugli indizi e vagliando le possibilità, a partire dai saperi impliciti e personali di cui ogni bambino è portatore. Tante braccia, tante gambe, occhi strani; un mostro che sta in un vaso, una “bestia imbottigliata”; ha nome e cognome, Sepia officinalis, che forse ci aiutano a immaginare che specie di animale sia, o almeno a cosa possa assomigliare. Perché il doppio nome? E perché è scritto in corsivo? Avvicinare i bambini allo studio della tassonomia, e quindi ai principi di classificazione degli esseri viventi tramite la nomenclatura binomia, può forse sembrare ardito, se non sterilmente rigido. Ebbene, per avere contezza dell’immensa ricchezza delle forme viventi è necessario distinguerle una dall’altra, sapere che esistono singolarmente e che ognuna ha valore di per sé. Ogni specie presente oggi sulla Terra è frutto di un’evoluzione sua propria, benché intrecciata a quella di tutte le altre, e di una storia che, per vie imprevedibili e casuali, l’ha portata ad essere come è e che la condurrà verso nuove trasformazioni. L’esistenza sincrona di miliardi di specie viventi è il miracolo che caratterizza il nostro comune pianeta e la diversità della vita è la ricchezza che garantisce la sopravvivenza di tutti. L’osservazione minuziosa dei dettagli che fanno di una specie un’entità a sé può acuire la capacità di vedere la miriade di forme diverse che abitano la nostra quotidianità e di accorgersi della varietà che esiste nel mondo. Solo nel momento in cui ci si rende conto della quantità di forme incredibilmente diversificate che la vita assume si può prendere consapevolezza del dramma che rappresenta la perdita di questa insostituibile ricchezza. Il tasso di estinzione che le scelte e le attività umane hanno comportato continua a salire, rischiando di compromettere la capacità di resilienza di numerosi ecosistemi, compreso quello terrestre nella sua interezza (Wilson, 2016). La comprensione del concetto di biodiversità, termine talvolta abusato e talvolta sminuito, diviene pertanto essenziale per comprendere una delle tematiche più scottanti e urgenti del nostro tempo, e che non si può capire appieno se non si ha dimestichezza con i criteri e il senso profondo della tassonomia.

«Posso tirarlo fuori dal vaso? Non si vede bene, anche perché lì dentro sta tutto pigiato».
«Ha quasi settant’anni ed è conservato in alcol di vino. Temo che se lo estraessimo si disintegrerebbe».
Lo scrutai. Terra? Mare? Aria? Aveva molti arti, sì, ma sembravano gommosi e non abbastanza robusti per sostenere un peso, quindi doveva essere un nuotatore. Mare, allora. Solo che non aveva pinne. Come poteva nuotare senza pinne? Uhm, un problema. Non vedevo le branchie. Un altro problema. Gli occhi erano eccessivi, grandi come piattini. Perché avevano bisogno di essere così grandi? Risposta: per vederci al buio, è logico. Doveva vivere in zone poco luminose, cioè acque profonde.
Dissi «È una qualche specie di pesce, e vive vicino al fondo dell’oceano. Ma è diverso da tutti gli altri pesci che io abbia mai visto. Non riesco a capire come si muova e come respiri».
«Fin dove sei arrivata, hai detto cose vere. Sarebbe ingiusto aspettarsi da te altre congetture, dato che come hai detto è tutto pigiato lì dentro. È una seppia. Famiglia Sepiidae. Si muove aspirando acqua in una cavità del mantello e spremendola fuori grazie a un sifone muscolare. Il mantello inoltre nasconde le branchie. Quando viene sorpresa da un predatore, emette una nuvola di inchiostro nero-bluastro per coprire la sua fuga. Utilizziamo la conchiglia interna, calcificata, come abrasivo. Talvolta i proprietari di uccelli in cattività danno loro la conchiglia, l’osso, su cui affilare il becco».
La cosa mi affascinava. Era un pezzo di storia e una curiosità. Toccai il vetro freddo con un dito (Kelly, 2014, pp. 87-88).

Una descrizione biologica ed ecologica della seppia, isolata dalla storia, potrebbe non suscitare alcuna curiosità, ma inserita nella trama e collocata in un percorso di costruzione di una logica argomentativa e di acquisizione di un processo di pensiero scientifico, potrebbe risultare un accompagnamento, un esempio, uno stimolo verso analoghi ragionamenti. Oltre a innescare il desiderio di “saperne di più”. Chi sa cos’è il mantello della seppia? La seppia è uguale a un polpo? Cosa c’entra la conchiglia? Ma è o no un pesce? E come fa a produrre l’inchiostro? È lo stesso delle biro? Domande che possono nascere spontaneamente o possono essere suggerite, per aprire spazi di ricerca e discussione condivisi.

5 Conclusioni

Con la proposta di approccio ad un romanzo per ragazzi come quella appena tratteggiata, e cioè orientata verso le tematiche della biologia, si intende offrire agli insegnanti un’ulteriore via per avvicinare i bambini e i ragazzi allo studio degli argomenti di scienze tramite una didattica attiva e interdisciplinare, e mediante linguaggi diversi e un diverso processo di pensiero. L’integrazione e la sinergia dei saperi, richieste anche dalle Indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione (MIUR, 2012), concorrono all’educazione globale della persona, consolidando le connessioni tra le conoscenze, la capacità di riflessione e la comprensione della realtà del mondo che, appunto, non è un insieme scomposto di frammenti bensì un unico tutto interconnesso.

L’idea di inserire la narrazione nel curricolo scolastico per introdurre i bambini all’esplorazione delle discipline, a partire da quelle umanistiche certamente ma espandendosi anche alla matematica e alle scienze, trae le proprie origini dalle ricerche, dai modelli, dai concetti teorici e dalle proposte operative avanzate da numerosi studiosi a partire già dalla fine degli anni ’80 (Bruner, 1988/2003; Egan, 1989; Lauritzen & Jaeger, 1997; Smorti, 1994) e riprese, aggiornate e sperimentate nei decenni successivi. Ciò che si desidera sottolineare in questo caso, però, è la possibilità di apprezzare un testo letterario anche per la sua ricchezza in termini di contenuto scientifico, ma a partire dalla sua qualità letteraria. Dunque, non libri di narrativa la cui trama è forzatamente incentrata su un fenomeno, un ecosistema, un essere vivente, ma romanzi la cui genesi sia profondamente autoriale e “caratterizzati da una piena dimensione letteraria ed estetica” (Cantatore et al., 2020, p. 230) e il cui scopo sia raccontare una storia, una grande storia, poiché “children have the right to great stories”.1

Ciò che siamo, che ognuno di noi è, non è determinato solo dal genoma contenuto nei nuclei delle nostre cellule, ma anche dall’ambiente nel quale nasciamo, cresciamo e ci sviluppiamo. Ciò con cui entriamo in contatto orienta il nostro divenire. Biologia e letteratura ancora si incontrano, perché entrambe, nelle loro proprie e specifiche modalità, ci costituiscono e ci modellano. Il potere trasformativo delle storie, capaci di orientare lo sguardo, le opinioni, le azioni e di radicarsi nell’intimo di una persona quanto di un popolo, possono informare l’essere umano nel profondo (Benedetti, 2021; Cantatore et al., 2020; Chambers, 2011; Gottshall, 2014). Nel saggio di John Brockman Menti curiose, eminenti scienziati del mondo anglosassone raccontano di ciò che, a partire dalla loro infanzia, ha fatto sì che dedicassero la propria vita alla scienza; molti di loro, oltre a condividere curiosità e desiderio di imparare, hanno indicato il “potere e l’influenza dei libri e delle idee che veicolano” (Brockman, 2004/2005, p. xi). Tra questi Richard Dawkins, che si domanda se l’influenza decisiva che ha fatto di lui uno zoologo

sia stata la lettura di un libro per ragazzi: I viaggi del Dottor Dolittle di Hugh Lofting, che ho letto infinite volte, con tutte le puntate seguenti. […] Il Dottor Dolittle era uno scienziato, il più grande naturalista del mondo, e un pensatore dalla curiosità inarrestabile. Per me è stato un modello, e ha indubbiamente stimolato la mia sensibilità (Brockman, 2004/2005, p. 120).

Senza immaginare che questa decisiva influenza dei romanzi possa riguardare ogni bambino, è anche vero che, riprendendo sempre le parole di Dawkins:

L’attitudine a mettere in dubbio le certezze è uno dei doni più preziosi che un libro, o un insegnante, possa fare a un giovane aspirante scienziato. In altre parole, ad abituarsi a non prendere per buono quello che ci viene detto dagli altri, ma a pensare con la propria testa. Credo che le mie letture d’infanzia mi abbiano predisposto ad apprezzare Darwin, nel momento in cui le mie letture adulte l’avrebbero poi introdotto nella mia vita (Brockman, 2004/2005, pp. 123-124).

La lettura di un romanzo in classe ha valore di per sé, è un dono disinteressato, una liberazione dalle maglie dello spaziotempo, un’avventura comune e intimissima, un seme (Bernardi, 2016; Boero, 2014; Calvino, 1991; Cantatore et al., 2020; Chambers, 2015; Faeti, 1995; Grilli, 2021) e fa parte certamente di un’educazione alla lettura che va voluta, difesa e attuata. Però, si può forse immaginare che questo gesto porti con sé un’altra ricchezza, altrettanto nobile e preziosa, come il nutrimento della curiosità verso il mondo che vive.

Riferimenti bibliografici

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  1. Parole di Astrid Lindgren scelte come motto dell’Astrid Lindgren Memorial Award.↩︎