Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education. Vol.28 n.69 (2024), 43–57
ISSN 1825-8670

La comunità “messa alla prova”. Una ricerca pilota di matrice pedagogica per la costruzione di un vademecum

Elisabetta MusiUniversità Cattolica del Sacro Cuore (Italy)

Professoressa associata di Pedagogia generale e sociale nella Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (sede di Piacenza). 

Pubblicato: 2024-08-08

The Community “Put to the Test”. A Pedagogy-Driven Pilot-Research for the Construction of a Vademecum

Abstract

The institution of “probation,” a form of judicial probation aimed for adults, was rewied by the recent justice reform law (Cartabia Reform, Dec. 30, 2022), where, even in the rewied version, was confirmed its high civic and reeducational value. Through probation, offenders can realize the paths to change own critical reinterpretation of their behavior. This is an interpretation of punishment that preserves its retributive value, but the challenge that institutions and associations take as welcoming these people into the activities and projects of a (re)educational nature, gives this particular penal measure a restorative purpose too. Probation concerns first and foremost the offender, it also verifies the skills, resilience, and responsibility of those it accommodates. With these premises, in 2023 a collaboration between some professors of the Catholic University of the Sacred Heart and the Piacenza Volunteer Service Center led to the realization a training course and later a Research involving the Associations that take in the people on probation.

L’istituto di “messa alla prova”, una forma di probation giudiziale rivolta agli adulti, è stato rivisto dalla recente legge di riforma della giustizia (Riforma Cartabia, 30 dicembre 2022), che, pur nella revisione, ne ha confermato l’alto valore civico e rieducativo. Attraverso la messa alla prova gli autori di reato hanno la possibilità di realizzare percorsi finalizzati al cambiamento e alla rilettura critica dei propri comportamenti. Si tratta di una interpretazione della pena che ne conserva la valenza retributiva, ma la sfida che enti e associazioni assumono nell’accogliere queste persone in attività e progetti di carattere (ri)educativo conferisce a tale particolare misura penale anche una finalità riparativa. La prova riguarda innanzitutto l’autore di reato ma verifica anche le competenze, la tenuta, la responsabilità di chi accoglie. In linea con queste premesse nel 2023 una collaborazione tra alcune docenti dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e il Centro Servizi per il Volontariato di Piacenza ha portato alla realizzazione di un percorso formativo e in seguito ad una Ricerca che ha coinvolto le Associazioni che accolgono le persone messe alla prova.

Keywords: Prison; Community; Reintegration; Probation System; Restorative Justice.

1 Chi si mette alla prova? Una sfida per gli autori di reato e per la società

La recente riforma della giustizia ha introdotto numerose misure tese a incrementare concretamente il valore della giustizia riparativa1 (Lattari, 2021; Ziccone, 2021; Di Tommaso, 2023) e a sottolineare il fine rieducativo e non solo punitivo della pena (Nugnes, 2022). Particolarmente incisive sono quelle relative alla cosiddetta “messa alla prova”, che consente la sospensione del procedimento penale mentre l’imputato svolge un programma di attività di utilità pubblica (Pagano, 2019). L’esito positivo della messa alla prova estingue il reato.

L’istituto è stato introdotto nel sistema penale già dal 2014, ma con la riforma è stata estesa la possibilità di richiedere la messa alla prova, ovvero sono state ampliate le tipologie dei reati per i quali essa può essere ammessa. La richiesta deve riguardare un reato punito con la pena pecuniaria o con la pena detentiva fino a quattro anni e deve essere accompagnata da un programma di trattamento elaborato dall’Ufficio esecuzione penale esterna competente per territorio (UEPE).2 L’UEPE ha un ruolo essenziale in tutta la procedura, con attività di controllo e di informazione per il giudice che concede la messa alla prova. Questa deve essere frutto di una scelta consapevole dell’imputato, perciò sono richiesti requisiti formali con cui egli esprime la chiara volontà di sottoporsi al trattamento che per sua natura è costrittivo, a fronte della mancanza preventiva o attuale di un accertamento della sua responsabilità.

Dunque, in ottemperanza alle condizioni previste dalle legge, è necessario individuare i contesti sociali in cui gli autori di reato possano svolgere un percorso trattamentale e rieducativo (HM Inspectorate of Probation, 2024, pp. 7-13). L’UEPE collabora con i Centri di Servizio per il Volontariato (CSV)3 per individuare questi ambiti di accoglienza, che riguardano gli enti del terzo settore (Associazioni di volontariato, Cooperative, Parrocchie, Oratori…).

Per rafforzare il proprio compito in questo senso e per supportare con maggior efficacia i volontari che affiancano le persone messe alla prova, il CSV di Piacenza nel 2023 ha realizzato un percorso di formazione rivolto ai responsabili degli enti.

A febbraio 2023 è stato organizzato un weekend formativo “intensivo” di carattere teorico-pratico (con approfondimenti teorici ed esercitazioni a supporto della riflessione sull’esperienza) con questi obiettivi:

  • far emergere e valorizzare il contributo che i volontari e l’associazionismo possono offrire nel processo di rieducazione delle persone messe alla prova, maturando così competenze e prospettive con cui sostenere concretamente gli autori di reato nell’interpretare al meglio l’opportunità di crescita (Cherry, 2010); 

  • aiutare le realtà accoglienti a rileggere il proprio servizio in relazione all’esperienza di messa alla prova ed individuare in modo creativo come valorizzare le persone che scelgono tale percorso in alternativa al carcere (Kirkwood & Hamad, 2019);

  • sostenere le associazioni nel dare vita a una rete di soggetti che si supporta a vicenda e promuove reciprocità e interazioni, incrementando il processo motivazionale dei singoli e delle realtà partecipanti che lavorano sul territorio.

Gli obiettivi sono stati assunti da tre docenti di Pedagogia della sede piacentina di Scienze della formazione.

Agli incontri erano presenti anche le/gli assistenti sociali dell’UEPE, che hanno il compito di incontrare e conoscere le persone messe alla prova per poi individuare, insieme ai referenti del CSV, i contesti più adatti da proporre.

Il percorso ha inteso rafforzare le competenze delle associazioni di volontariato in relazione all’accoglienza delle persone autrici di reato al fine di favorire l’inclusione e la coesione sociale.

1.1 Educare alla cittadinanza attraverso la comunità

Il percorso formativo ha posto l’accento sul ruolo imprescindibile che gioca la comunità nel consentire a chi ha commesso un reato a scoprire in sé spazi di riscatto (Travaglia Cicirello, 2016). La pena non riguarda solo il detenuto, ma la società nel suo complesso (Mannozzi & Lodigiani, 2015). Offrire spazi di riconoscimento in alternativa alla reclusione significa contribuire a riconnettere chi ha violato la legge ai legami della comunità in cui ha generato uno strappo; significa testimoniare concretamente i valori della pace, della non violenza, della libertà, della legalità, della tolleranza; significa ancora educare alla cittadinanza valorizzando la capacità di ciascuno di essere attivo responsabile della propria storia che inevitabilmente incontra e si intreccia con quella altrui (Furia, 2021). In questo modo le organizzazioni di volontariato svolgono un preciso ruolo politico e di impegno civico contribuendo efficacemente alla realizzazione delle politiche sociali e del territorio.

Affinché siano in grado di assumere compiti sempre più delicati e complessi ai volontari va dunque garantito il sostegno e la formazione necessari per la loro crescita e per l’attuazione dei compiti di cui sono responsabili.

In educazione è da sempre chiaro che la relazione si costruisce in due: educatore ed educando. E l’effetto degli stimoli educativi non si esaurisce nella reazione del destinatario (l’educando), ma nella circolarità delle retroazioni che si attivano anche nella realtà circostante. L’efficacia di un’azione educativa (o ri-educativa) si misura nel cambiamento che sortisce anche nell’ambiente in cui vive l’educando e che si rivela decisivo nel sostenere e consolidare il cambiamento. Questo è massimamente vero per l’istituto della messa alla prova, in relazione alla quale scrivono Castignoli e Paganini (2021, p. 19):

La riparazione non è meramente un fatto economico e pratico, non riguarda unicamente il risarcimento di quanto danneggiato per corrispondere agli obblighi civilistici discendenti dalla commissione del reato, ma ha anche l’obiettivo di corrispondere ad un risarcimento nei confronti della collettività, per riparare e contenere l’allarme sociale derivante dalla commissione dell’illecito. La giustizia riparativa […] considera sempre la dimensione comunitaria all’interno del percorso stabilito a seguito dell’illecito.

La comunità va dunque educata almeno quanto i detenuti e le persone messe alla prova con cui si progetta un cambiamento realisticamente perseguibile.

Il diritto regola la giustizia e stabilisce i criteri di soddisfazione di una società. Ad un reato segue una sentenza che in nome del diritto assegna una pena, ma la pena non mette automaticamente in regola la giustizia (Musumeci & Ferraro, 2014, p. 53), semplicemente ribadisce le regole di una società.4 Può rimanere un atto poco più che formale. Se il diritto non verifica l’efficacia di azioni e relazioni educative, se non dà la possibilità di ristabilire le regole per mezzo di bonum actionis, allora il diritto diventa ingiusto. Ogni reato è un trauma nell’ordine delle relazioni (Randall & Haskell, 2013), ed è dalle relazioni dunque che bisogna ripartire. Relazioni rifondate nel rispetto delle regole.

La disciplina imposta dalla pena cambia le persone, ma non c’è nessuno che colga la qualità e la profondità del cambiamento, il momento in cui si è verificato, in cui si è aperta la possibilità di una svolta (Decembrotto & De Rocco, 2023, pp. 67-69). È un’operazione che non si compie da soli ma si realizza attraverso una relazione intenzionalmente finalizzata, cioè una relazione educativa, investita del compito di maturare nuove competenze. Le competenze possono svilupparsi solo in situazioni, in contesti, imparando a ragionare sull’esperienza, ipotizzando e verificando, in un costante confronto con chi si fa portavoce di regole e valori. Questo può forse conseguire nuove competenze esistenziali (Bertolini & Caronia, 2015, pp. 115-129).

Le relazioni sociali sono i mediatori più importanti per la creazione di opportunità. Relazioni come ricerca, come incontro, come co-costruzione dei processi di convivenza (Volterrani & Luciano, 2021). Questo genere di competenze, che ineriscono ad una sapienza di vita, rimandano a una duplice mobilitazione: a ciò che il soggetto può mettere in gioco in se stesso, ma insieme a cosa può mobilitare in un contesto con cui fare i conti in un processo di riconoscimento reciproco. Ha origine in questo modo un percorso co-evolutivo mai stabilito a priori, in cui il contesto si apre ad un soggetto in divenire, prima identificato solo in un gesto. Tanti sono i fattori che si intersecano e si rafforzano reciprocamente nel provocare un reato: le circostanze, la società, la famiglia, le sfortunate vicende della vita e tutte le altre condizioni, psichiche o ambientali, che possono aver concorso o facilitato la scelta del male, ma decisiva è la volontà del soggetto che l’ha compiuto. Che tuttavia può cambiare di segno più facilmente quando si saldi alla volontà di chi decide di mettersi in gioco con lui scommettendo sugli esiti imprevedibili della libertà. Il riconoscimento di quella apertura al possibile che caratterizza l’arbitrio umano, può dare nuovo corso alle storie di vita.

2 Dalla formazione alla ricerca

Il percorso formativo ha evidenziato da parte delle associazioni una certa preoccupazione per i nuovi scenari prefigurati dalla Riforma Cartabia (Dei-Cas, 2021), ovvero un sensibile aumento di soggetti potenzialmente interessati dall’istituto della messa alla prova. Anche il CSV ha avvertito la rilevanza, la responsabilità e la delicatezza del proprio compito di coordinamento, promozione e sostegno della rete delle associazioni di volontariato e del Terzo Settore che si sono rese disponibili ad accogliere queste particolari esperienze di giustizia.

Il desiderio di verificare l’efficacia del proprio operato e gli eventuali margini di miglioramento, ha portato il CSV di Piacenza a intraprendere una Ricerca che fornisse indicazioni chiare per le azioni e i possibili cambiamenti da perseguire. Pertanto tra la fine del 2023 e i primi mesi del 2024 è stata realizzata per conto del CSV, che ha nuovamente investito la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università Cattolica nella persona di chi scrive, una “Indagine esplorativa sull’esperienza di accoglienza di persone messe alla prova presso associazioni affiliate e seguite dal Centro Servizi per il Volontariato di Piacenza”. È stato formulato un questionario quali-quantitativo non anonimo, con domande a risposta numerica, alternativa (sì/no), multipla o aperta, somministrato a operatori/operatrici di 28 associazioni accoglienti che – accanto ad alcuni dati di contesto (ente accogliente, ore svolte dalla persona messa alla prova, descrizione attività) –, si sono espressi/e in relazione a 54 persone messe alla prova sui seguenti nuclei tematici:

  • tipo di attività svolta: se ordinaria o specifica;

  • difficoltà o vantaggi che l’ente ha registrato nell’accogliere la persona messa alla prova;

  • ricadute dell’esperienza nel rapporto con gli altri volontari/operatori;

  • cambiamenti resi necessari durante il progetto (durante il percorso, avete dovuto modificare l’attività prevista che il soggetto doveva svolgere? Per quale motivo?)

  • valutazione del supporto offerto dal CSV (accompagnamento e tempestività di risposta in caso di dubbi o difficoltà riscontrate durante il percorso di accoglienza; supporto per le pratiche burocratiche: aiuto nella preparazione e compilazione delle lettere in cui dichiarare la propria disponibilità, fogli presenza, assicurazione; adeguatezza della persona segnalata dal CSV dopo il colloquio di orientamento, in termini di competenze, predisposizione e abilità, rispetto alle attività svolte dall’associazione);

  • valutazione complessiva dell’esperienza.

In sostanza le domande hanno inteso cogliere il punto di vista dell’ente accogliente chiamato a riferire:

  • della persona messa alla prova, di cui sono stati raccolti alcuni dati sintetici e descrittivi (quante ore di “lavoro” sono state svolte, che tipo di attività le persone messe alla prova hanno realizzato);

  • del CSV nell’esercizio della selezione delle persone messe alla prova e del loro orientamento verso le associazioni ritenute più adeguate, del supporto ai processi di integrazione e in generale dell’esperienza di inserimento.

Le domande hanno raccolto risposte in parte descrittive e in parte valutative.

Da parte del CSV chiara era la preoccupazione di svolgere un’azione di accompagnamento attenta ed efficace; contestualmente lo stesso questionario ha rappresentato uno strumento per sollecitare negli enti una riflessione critica e costruttiva/migliorativa dell’esperienza. La precisione e l’articolazione delle risposte espresse dagli enti hanno evidenziato un atteggiamento collaborativo e un’attestazione di stima verso il CSV.

Tra i numerosi stimoli di riflessione che l’indagine ha fornito, le risposte che hanno maggiormente orientato l’attenzione e le successive azioni del CSV sono state quelle relative all’inserimento delle persone messe alla prova, la valutazione dell’esperienza e del supporto fornito da CSV agli stessi enti.

È stata esplorata l’attività svolta dalla persona accolta, attività di cui è stata chiesta una descrizione. In sintesi è possibile riunire le attività in alcune categorie:

  • attività di cura verso ambienti e cose;

  • attività a bassa intensità relazionale (ad es. mediate da dispositivi comunicativi, come computer e telefono);

  • attività ad alta intensità relazionale (con esposizione a rapporti interpersonali prolungati e/o continuativi);

  • attività di alto impegno autoriflessivo.

È emersa una certa prudenza nell’assegnare alla persona messa alla prova la gestione – diretta o affiancata da altri volontari – dei rapporti con l’utenza.

Solo un’associazione ha coinvolto la persona messa alla prova in un esplicito, dichiarato lavoro su di sé, perché quella era esattamente l’attività svolta dall’ente attraverso il suo esercizio ordinario (laboratori di scrittura autobiografica). È emerso da parte di tutti gli enti accoglienti un deciso investimento nelle relazioni interpersonali (tutti i messi alla prova sono stati accolti, affiancati, introdotti in attività che prevedevano interazioni interpersonali) probabilmente ritenute intrinsecamente formative e un atteggiamento di apertura verso le persone messe alla prova. Alcune risposte hanno individuato nel soggetto affidato «una seria preoccupazione» e «la difficoltà a individuare mansioni da far svolgere alla persona» (7 voci). Evidentemente accoglienza e intesa non sono state efficaci.

La valutazione sull’operato del CSV: il questionario presentava una domanda sulla soddisfazione riferita a tre aspetti dell’operato del CSV (“Rispetto al ruolo del CSV, quanto si ritiene soddisfatto in merito ai seguenti aspetti”. Tre le risposte possibili: 1. accompagnamento e tempestività di risposta in caso di dubbi o difficoltà riscontrate durante questo percorso di accoglienza; 2. supporto per le pratiche burocratiche: aiuto nella preparazione e compilazione lettere di disponibilità, fogli presenza, assicurazione…; 3. Adeguatezza della persona segnalata dal CSV dopo il colloquio di orientamento, in termini di competenze, predisposizione e abilità, rispetto alle attività svolte dalla vostra associazione).

Le valutazioni per tutte tre le funzioni sono risultate estremamente positive. Volendo provare a interrogare i dati comparati per cogliervi possibili indicazioni operative, i focus delle tre questioni possono essere rilette in questo modo:

  1. accompagnamento e tempestività = funzioni totalmente a carico del CSV, giudizio pienamente soddisfacente;

  2. supporto per pratiche burocratiche = parzialmente in carico a CSV (per la quantità e complessità delle pratiche, che devono trovare spazio tra le altre attività del Centro). Condizione migliorabile;

  3. adeguatezza della persona segnalata = questo dato è il più “problematico”. Quella che viene indicata sinteticamente come “adeguatezza” è il buono o cattivo esito di un incontro che costituisce la risultante di molteplici fattori:

    • efficacia del colloquio di orientamento;

    • effettiva convinzione e motivazione della persona messa alla prova e dell’ente che l’accoglie;

    • approfondita conoscenza delle “competenze, predisposizione e abilità” della persona messa alla prova nonché del contesto in cui è stata inserita.

Queste indicazioni hanno evidenziato alcuni aspetti su cui porre l’attenzione:

  • Come avviene il colloquio? (Con quali strumenti e competenze? Quanti colloqui vengono realizzati? Nelle situazioni in cui i colloqui non sono stati efficaci, quali altri strumenti di ascolto e conoscenza reciproca sono stati contemplati? Sono stati analizzati i colloqui infruttuosi o smentiti dal successivo decorso dell’inserimento? È stata riservata attenzione alla motivazione?)

  • Un analogo colloquio è stato realizzato anche con l’associazione di accoglienza?

  • È stata prevista un’azione di monitoraggio (a intervalli ravvicinati all’inizio dell’esperienza) per valutare il buon andamento dell’inserimento? Le aspettative sono state confermate? Sono intervenuti cambiamenti? Sono emerse situazioni all’inizio non contemplate o conosciute solo in teoria e smentite o recepite come diverse nei fatti?

Un confronto approfondito con le referenti del CSV sui risultati dell’indagine ha fatto emergere ulteriori questioni:

  • Esistono degli elementi strutturali che portano un’associazione ad essere più recettiva? Quali sono?

  • In che relazione sta la capacità/disponibilità recettiva di un ente con il numero dei volontari, l’investimento in percorsi formativi specifici, l’organizzazione?

  • L’oggetto di lavoro di un ente incide sulla ricettività? Se sì, come? (così da orientare meglio gli “abbinamenti” tra persone messe alla prova e associazioni, riducendo possibilmente il rischio di insuccessi).

3 Le interviste in profondità

Particolarmente significativa è risultata l’analisi delle modalità di accoglienza e cura dell’inserimento (sono state messe in atto attenzioni particolari? Vi è un protocollo di accoglienza? È stata proposta una formazione specifica, oppure l’incontro è stato lasciato alla sensibilità dei singoli?).

Il desiderio di gettare nuova luce sul processo di accoglienza prevenendo situazioni spiacevoli o dannose e facendo di quelle già accadute un’occasione di riflessione formativa ha indotto il gruppo di coordinamento, composto dalle referenti del CSV e dalla responsabile della Ricerca, a conseguire nuove e più approfondite conoscenze attraverso un’intervista semi-strutturata con quattro realtà associative: due che hanno realizzato un’esperienza positiva di inserimento e due che invece hanno denunciato disagi e criticità. Questa nuova fase esplorativa si è focalizzata su alcuni nuclei tematici: accoglienza, orientamento e supervisione da parte del CSV, valutazione dell’esperienza, criticità e capacità di riprogettazione.

3.1 Le esperienze critiche

Il confronto sugli inserimenti mal riusciti ha portato a formulare alcune riflessioni critiche. Innanzitutto è stata problematizzata l’espressione “esperienza negativa” da parte di un’intervistata: «cos’è un percorso negativo? La negatività più lapalissiana è che si interrompe il percorso e la persona va a giudizio» (C. C.). Il percorso può interrompersi perché «la persona ha commesso dei reati mentre stava facendo la messa alla prova; quindi, non la vedi più» (C. C.). Ma un’esperienza può essere negativa anche perché vissuta senza impegno e convinzione, condizioni che spesso determinano comportamenti scorretti e questo destabilizza tutto il contesto in cui le persone messe alla prova vengono accolte.

In seconda istanza sono state ipotizzate alcune possibili cause di insuccesso assumibili come fattori di difficoltà e di rischio:

  • la complessità dell’esperienza di messa alla prova:

    «Mi capita di vedere situazioni che sono più grosse della messa alla prova. (…) penso che arrivino a volte persone con grossi problemi che sono contento se non sono finiti dentro, però non sono sicuramente tranquillo che le cose non possano ripetersi. (…) ho avute 2 o 3 situazioni interrotte per seri problemi psichiatrici e il giudice ha detto di sospenderle. Ci sono alcuni soggetti che non sai davvero come possano arrivare in fondo a un impegno a volte anche minimo. Sono molto confusi dal punto di vista della gestione quotidiana e la messa alla prova non è sufficiente. Qualche volta succede che qualcuno non ha ben capito dov’è finito [l’associazione accoglie persone con disabilità o con problemi psichiatrici, che molto spesso hanno anche dei problemi relazionali]. (…) stiamo chiedendo a gente che non riesce a autoregolarsi di “esserci”. (…) Ci sono poi situazioni estreme che avrebbero bisogno di un passaggio di informazioni un po’ più dettagliato. Per esempio, adesso abbiamo soggetti che sono in cura al servizio di salute mentale. A me questo non spaventa, però sapere qualcosa in più su queste persone sarebbe utile, perché è vero che bisogna tutelare la privacy, però se poi tu non sei informato puoi fare anche meno bene quello che desideri fare» (L. P.);

  • la difficoltà di rispettare gli accordi:

    «Un segnale di criticità è senz’altro, il rispetto. Per molte persone, ad esempio, non è chiaro che debbano avvisare se e quando vengono. (…) Avvisare vuol dire prendere un impegno, avvisare per tempo, chiedere quando si può venire. (…) l’attività è un pretesto, il senso è la relazione che si crea» (C. V.);

  • il fraintendimento:

    «non sempre la messa alla prova è ben compresa: ci sono persone che non hanno il lavoro e mordono il freno. Vorrebbero venire tutti i giorni per tirarsi via l’esperienza. Questa cosa a volte può funzionare, nel senso che le esigenze organizzative e il desiderio legittimo di togliersi il problema possono incrociarsi, alle volte no. Io non posso farti venire perché tu hai tempo e non sai cosa fare, perché sei disoccupato» (A. B.);

  • il mancato supporto della famiglia:

    «abbiamo avuto un ragazzo molto giovane che non era minimamente supportato dalla famiglia, cioè la famiglia era convinta che il ragazzo fosse stato sanzionato troppo severamente e quindi addirittura faceva ostruzione, cioè, per esempio, il giorno in cui avrebbe dovuto collegarsi, doveva andare a prendere dei parenti alla stazione. Con lui ho tentato più volte, anche in maniera severa, di dirgli che se non faceva le cose seriamente non era possibile…, poi è intervenuta l’assistente sociale dell’UEPE e ha riscontrato le medesime difficoltà familiari, quindi alla fine va a processo, ormai è chiaro» (P. P.);

    «Quando il percorso non è stato condiviso né con la famiglia né con i datori di lavoro e loro si stanno arrampicando sui vetri… c’è quello che arriva e deve ancora mangiare, sarebbe sufficiente dicesse al datore di lavoro che deve uscire prima per questo motivo. Quindi c’è questa discrezione tipica della messa alla prova, che però è anche uno svantaggio. È dentro la filosofia della messa alla prova: ti do questa opportunità di non dire niente a nessuno, però questa non è sempre la scelta migliore. (…) Una criticità seria sono quelle informazioni delicate ma dirimenti che non vengono comunicate, perché poi nel corso della messa alla prova saltano fuori, ma non sai come muoverti. (…) E noi lì ci perdiamo, perché io non devo controllare se lui lì ci va, però se non ci va non tocca il problema che lo ha portato ad essere in messa alla prova» (S. P.);

  • i pregiudizi verso le persone straniere:

    «c’è un aumento di persone straniere e quindi può esserci anche qualche difficoltà e lo ammetto anche qualche pregiudizio da parte mia e forse anche degli altri che accolgono. Io ho avuto diversi con cui era difficile all’inizio la comunicazione e poi mi hanno stupito, persone su cui non avrei scommesso un centesimo e poi invece hanno fatto il lavoro molto bene» (A. B.);

  • il turn over nell’UEPE:

    «Con l’assistente sociale il dramma è questo turn over, alcuni non le hanno mai viste. È difficile anche per i messi alla prova, per tutti, anche per l’assistente sociale. Quindi alla fine noi facciamo una parte che non dobbiamo fare. Se l’assistente sociale la vedo e la incontro, posso parlarle e dirle che c’è un problema. Cioè, le relazioni finali, noi prima non le avevamo mai fatte, adesso le chiedono in maniera prescrittiva. Quindi io scriverò poco o nulla su chi non ha fatto un percorso bellissimo e tanto su chi è andato davvero bene. (…) È un lavoro di sistema: volontariato, assistente sociale, famigliari: tutti devono fare la loro parte. Non si può lavorare in solitaria» (M. S.).

Inoltre l’aumento di persone che, grazie alla Riforma Cartabia, possono fare ricorso all’istituto di messa alla prova appesantisce l’attività delle associazioni le cui risorse umane sono sempre le stesse:

«credo che in futuro ne arriveranno anche molte di più di persone, con le indicazioni della Riforma Cartabia» (L. I.).

3.2 Le esperienze positive

Le associazioni che hanno riferito di aver realizzato un’esperienza positiva con le persone messe alla prova, hanno posto l’accento su alcune condizioni favorevoli:

  • un lavoro metodico:

    «Non c’è niente di strutturato formalmente. La procedura si è modificata nel corso degli anni, perché sono tanti anni che accogliamo e quindi abbiamo affinato le tecniche strada facendo. Prima c’è un contatto telefonico, dopo il filtro del CSV, con la persona che deve fissare un appuntamento. Già questo dà alcune informazioni sulla persona, sulla precisione, puntualità, modalità di organizzarsi. C’è poi un colloquio in presenza in cui si valuta la disponibilità della persona in termini di tempi e orari, quindi in base al momento della giornata o della settimana che viene segnalata come disponibile, noi proponiamo le attività presenti in questa fascia oraria. (…) Quindi ci presentiamo, ci facciamo vedere, ci scambiamo i numeri e poi si incomincia a provare, quindi si inserisce la persona su un turno, di solito ridondante di personale, dove ci sono operatori, volontari, in modo che ci sia qualcuno disponibile a spiegare, stare un po’ dietro e non lasciare a se stessa la persona. Poi si verifica com’è andato l’inserimento, sia con la persona, sia con gli altri operatori in turno. (…)» (S. V.);

  • un abbinamento ponderato ed efficace:

    «Ma più di ogni altra cosa decisiva è la capacità di fare il giusto match fra la persona e l’attività che le si propone. A volte è un po’ obbligata, nel senso che quelli che hanno poca disponibilità oraria più di tanto non hanno possibilità di scelta fra le attività. Per altri invece in cui c’è un po’ più di possibilità, si cerca di capire se è la persona adatta per stare in casa famiglia, piuttosto che fare un turno o qualcosa di operativo, pratico, concreto meno relazionale. Se ci sono delle difficoltà si cerca sempre di capire il perché. (…) La nostra fortuna è anche di avere una buona disponibilità di attività da proporre. (…) Se l’esperienza funziona lo si vede già in itinere, se la persona ci sta bene, è contenta e collabora e comincia a dire “ma poi io resto, io faccio le ore però poi tienimi in considerazione…”, capisci che sta funzionando per noi e per lui/lei insomma. Capisci che è rimasto qualcosa e quelle ore lì hanno prodotto qualcosa di buono. C’è un doppio riscontro. Poi di solito facciamo un momento finale, un colloquio, guardiamo il registro delle firme che sia tutto a posto e facciamo quattro chiacchiere su come è andata. Questo si cerca di farlo con tutti. Di solito i feedback sono positivi da parte loro, perché se c’è qualcosa che non va di solito viene rilevato prima» (L. P. );

  • una formazione di supporto:

    «È stata riservata una formazione specifica agli operatori e alle operatrici dell’Associazione sulle persone messe alla prova. È stato un accompagnamento informale all’interno delle riunioni di équipe, per modificare quell’atteggiamento un po’ troppo severo con cui veniva valutata la persona. Quando chiedevo, l’educatore mi diceva “questa cosa non la sa fare, questo invece sì, qui dovrebbe migliorare”. Il problema è che non stiamo valutando la persona come operatore, né sono persone condannate, non si può utilizzare la map come una punizione. Mi sembra che poi con l’abitudine si sia molto attenuato questo atteggiamento da parte degli operatori» (C. C.);

  • la cura della motivazione e la capacità di conciliare prospettive diverse:

    «Le nostre proposte operative sono molto piacevoli. Fare della manutenzione in un sentiero o in un bosco, porta ad essere sempre in mezzo alla natura e questa condizione favorevole alimenta la motivazione» (A. G.);

    «Io non faccio molta fatica a fare questa cosa perché il mio lavoro è sempre stato fare il mediatore, il conciliatore. La prima cosa è conoscere le persone, andargli dietro un po’ anche per il loro verso e capire quando questi possono seguirti e quando non possono. La cosa più importante è cogliere il momento giusto per proporre le cose. (…) E questo mi aiuta molto anche in questi rapporti. Si crea proprio un rapporto personale. Non si possono trattare come dipendenti ma (…) farli sentire come se loro fossero compartecipi alla cosa che stai facendo tu e che fanno anche loro. Da noi sono sempre affiancati, non sono mai soli. (…) sanno che non è che si possono fare errori madornali, ma cose semplici, qualsiasi cosa anche la più semplice se la fai con una certa passione e amore ti viene bene e non te ne accorgi neanche. (…) adempiono alle loro cose e fanno qualcosa di utile anche per la società. Poi se ne rendono conto, capiscono che stanno facendo qualcosa anche per gli altri, di utile, perché la gente che passa li ringrazia. Anzi quando passano alcuni che non ringraziano ci rimangono male» (B. B.);

  • la cura dell’accoglienza (che riguarda chi accoglie ma al contempo schiude nuove logiche di rispetto, responsabilità e reciprocità anche in chi è accolto) (Habermas, 1998):

    «Abbiamo un sistema di accoglienza abbastanza famigliare, quindi li accogliamo, io li vado a prendere a casa, li “curo” e quello che è importante è anche cercare di incastrare i loro impegni e le loro attività al di fuori di questa, con il lavoro di pubblica utilità. (…) Quindi da un lato fai loro un piacere, perché li accogli, però loro possono fare queste attività senza dover rinunciare a qualcosa di sé. Questo secondo me li mette molto a loro agio e li fa venire volentieri. (…) chiaramente sono persone che hanno un percorso di vita diverso dal nostro, magari più difficile, quindi bisogna usare il massimo della pazienza per poter farli venire, ecco. Però lui quando viene ci sta volentieri» (B. B.).

3.3 Il supporto garantito dal CSV

Un altro tema indagato nelle interviste in profondità è il supporto offerto alle Associazioni dal CSV. All’interno di valutazioni in generale molto positive, l’analisi delle risposte ha permesso di evidenziarne i fattori maggiormente incisivi:

  • la consapevolezza di non essere soli a fronteggiare situazioni complesse:

    «Ho avuto alcune situazioni per cui ho dovuto chieder aiuto al CSV perché non ci vedevo il fondo, (…) per me è molto importante non rimanere da solo. Io non vedo mai una dimensione dove ci sono solo io e la persona che ha una necessità. Il fatto stesso di avere qualcuno con cui condividere è metà del lavoro fatto, perché tu a volte sei troppo coinvolto, cioè almeno io ho bisogno di chiedermi “sto esagerando?” oppure “sono un po’ fissato perché voglio assolutamente arrivare in fondo però forse questa persona non è qui che trova il posto migliore”. Allora, il fatto di avere qualcun altro presente, e il CSV lo è molto, è importantissimo. Sarei veramente spaventato se non ci fosse il CSV, perché sarei intasato dagli avvocati. Per me sicuramente c’è un aspetto pratico, ma c’è anche un aspetto di sapere che c’è il CSV. E scusate se ve lo dico ma sono un po’ preoccupato per il futuro, perché arriveranno un mucchio di soldi sull’esecuzione penale e Piacenza sulla messa alla prova è un fattore di cui ci possiamo vantare, però tu alzi i numeri, perché ne arriveranno di più, non è che le associazioni aumentano ogni 5 minuti e ti trovi ad avere una richiesta più alta e le risorse che fanno fatica, allora devi cominciare a dare tempi diversi. Io sono spaventato perché non sono i soldi il problema, o un operatore in più… dopo però non possono diventare da 80 persone a 160» (B. B.);

  • il supporto amministrativo-burocratico:

    «Io personalmente sono molto contenta. Sapere che dietro c’è il Centro di Servizi è la garanzia che posso andare avanti a fare questa cosa, perché se no sarebbe troppo pesante, anche perché questo lavoro si inserisce all’interno di una vita molto complessa per ognuno di noi. E poi io sono allergica a questo lavoro amministrativo, burocratico. Tutto il lavoro che fa il CSV è preziosissimo» (M. S.);

  • la cura degli abbinamenti, la formazione, la tempestività degli interventi:

    «il lavoro di CSV è indispensabile, anche per destinare le persone a chi è in grado poi di gestirle» (L. P.);

    «Direi che il vostro ruolo è stato essenziale in questi anni, perché mi è capitato di inserire alcune persone che provenivano direttamente dall’avvocato, da percorsi non seguiti da voi ed è stato molto complicato, per cui vedo proprio la differenza… è proprio molto diverso avere un filtro precedente e la formazione è essenziale e da portare avanti, anche sui contenuti, sulla nuova riforma come cambia le cose» (L. I.);

    «Il lavoro del CSV è essenziale. Anche sulla segnalazione di problemi, di solito c’è una risposta tempestiva, quindi il supporto assolutamente funziona» (A. A.).

4 Conclusioni

Al termine delle rilevazioni, è stata proposta, nel mese di marzo 2024 una nuova giornata di formazione dedicata ai referenti delle associazioni che accolgono le persone messe alla prova. All’incontro erano presenti le operatrici del CSV, le/gli assistenti sociali dell’UEPE e la scrivente in qualità di conduttrice del percorso di Ricerca.

L’incontro è stato strutturato secondo la metodologia del world café,5 un format di discussione che utilizza la potenza generativa delle conversazioni informali per dar vita a confronti su tematiche importanti che riguardano la vita di un gruppo. Su cinque tavoli apparecchiati con tovaglie di carta (su cui è possibile scrivere) e “generi di conforto” (torte e bevande), erano presenti fogli per gli appunti e una traccia di lavoro che invitava i partecipanti a confrontarsi sull’esperienza di accoglienza, sulle interazione con le persone messe alla prova e sulla conclusione del percorso. L’obiettivo era quello di individuare i punti a cui prestare particolare attenzione, da assumere come riferimenti per il monitoraggio in itinere e come indicatori per verificare il buon andamento dell’esperienza (Vacchelli, 2023). Non è possibile affermare che il confronto abbia portato a delineare un vero e proprio “vademecum”. Probabilmente saranno necessari altri incontri con questi stessi co-attori della Ricerca al fine di costruire insieme una sorta di “griglia procedurale” con cui garantire un’analoga sistematicità alla gestione dell’esperienza di messa alla prova tra tutte le associazioni del territorio piacentino che si rendano disponibili a sostenerla. È comunque possibile rilevare fin da ora una serie di attenzioni e nodi critici su cui si sono registrate convergenze e sensibilità comuni. Tre sono stati gli ambiti, richiamati espressamente dai/dalle partecipanti, su cui si sono condensate le considerazioni: accoglienza (indicata anche come “avvio dell’esperienza”), percorso (indicato come “durante” o “corso dell’esperienza”) e conclusione.

Si riportano di seguito le raccomandazioni a cui i partecipanti si sono impegnati ad attenersi verificandone l’efficacia, col proposito di ritrovarsi a distanza di tempo per modificare, confermare o implementare questo strumento di lavoro.

Area 1. L’accoglienza

  • L’ente accogliente individua un tutor del progetto e, se necessario, un gruppo di volontari/operatori che affianchino costantemente le persone messe alla prova e relazionino al tutor l’andamento del percorso.

  • Si prevede un incontro preliminare tra il tutor del progetto e la persona messa alla prova segnalata dal CSV. Dall’esito del confronto in cui si valuteranno la motivazione e la congruenza tra le reciproche aspettative dipenderà l’accoglienza.

  • Nel colloquio iniziale verrà esposta più dettagliatamente l’attività da svolgere, tenendo conto delle disponibilità orarie e delle attitudini della persona messa alla prova.

  • L’associazione accogliente si impegna a condividere con la persona alcune regole di base del percorso: rispetto degli impegni, definizione e assolvimento dei compiti, puntualità, avviso tempestivo in caso di assenze… È opportuno, ma non obbligatorio, che tali regole siano scritte, così da evitare equivoci e fraintendimenti.

  • La persona messa alla prova verrà presentata agli altri volontari/operatori come nuovo volontario. Sarà la persona a decidere se, quanto e quando condividere con il resto dei volontari/operatori il proprio percorso.

Nodi critici

  • È utile che i referenti dell’associazione, oltre a presentare il contesto, propongano alla persona messa alla prova una visita guidata e una giornata di osservazione, in modo che l’accettazione da parte della persona messa alla prova sia consapevole e convinta?

  • È opportuno che l’associazione tenga un diario dell’esperienza? Possono essere annotazioni libere o è bene strutturare una griglia di osservazione?

  • È opportuno segnalare ai referenti istituzionali (CSV, UEPE) eventuali defezioni agli accordi? Quando? (alla prima scorrettezza? Dopo un richiamo verbale? Scritto?)

  • Se la comprensione della lingua italiana, da parte della persona messa alla prova, è scarsa, è possibile suggerire la partecipazione ad un corso di italiano per il quale l’associazione si impegna a facilitare il contatto e la frequenza, in una logica di rete e mutuo aiuto tra associazioni e realtà del territorio che si occupano di corsi di alfabetizzazione per migranti?

Area 2. Il percorso di messa alla prova

  • L’associazione di accoglienza comunica periodicamente al CSV l’andamento dell’esperienza.

  • Il tutor e/o i volontari che affiancano la persona messa alla prova osservano per una o due giornate la persona impegnata nell’attività concordata e successivamente si confrontano con lei e con gli operatori per capire se l’esperienza è positiva e soddisfacente e per valutare insieme l’opportunità di apportare eventuali cambiamenti (ad es. di compiti, conoscenze/competenze necessarie, orari…).

  • È bene evitare di lasciare la persona messa alla prova da sola, affiancandole sempre un volontario/operatore a cui possa far riferimento. Questi non deve essere necessariamente il tutor del progetto.

  • Qualora il soggetto accolto dichiari apertamente il motivo per cui si trova a svolgere quell’esperienza, l’associazione si impegna a vigilare che nei suoi confronti non vi siano atteggiamenti o espressioni giudicanti.

Nodi critici

  • Nel tempo si è notato che le persone messe alla prova presentano situazioni personali, psicologiche e familiari sempre più complesse e sofferenze sempre più profonde. In che modo accertarsi che operatori e volontari presenti nelle associazioni abbiano gli strumenti e la disponibilità necessari a seguirli?

  • Le esperienze lunghe di messa alla prova spesso vedono calare la motivazione nei soggetti accolti. Come sostenere la motivazione ed eventualmente risignificare l’esperienza?

  • È opportuno che il tutor di progetto o il referente dell’associazione promuovano una riflessione con la persona messa alla prova sul senso dell’esperienza in una logica “riparativa”? Se sì, come?

  • È corretto che il progetto personalizzato di messa alla prova non contempli la dimensione rieducativa, che al momento viene assunta come implicita e mai discussa?

  • Che impatto ha l’esperienza di messa alla prova sulla riflessività e la revisione critica che la persona accolta dovrebbe maturare?

  • La famiglia ha un peso decisivo nei vissuti e nell’esperienza della persona messa alla prova: è possibile coinvolgerla? Come?

Area 3. Conclusione del percorso

  • Al termine dell’esperienza l’associazione prevede un colloquio finale tra la persona accolta e il tutor di progetto e/o i volontari/gli operatori che l’hanno affiancata per una valutazione del percorso, i guadagni conseguiti e le criticità. Sarà quella l’occasione anche per controllare insieme le presenze e sistemare l’eventuale documentazione.

  • Le associazioni si impegnano a consegnare tempestivamente i fogli-presenza e la relazione finale al CSV.

Nodi critici

  • Al momento i colloqui non seguono alcuno schema né prevedono annotazioni scritte. È utile prevedere una traccia a cui tutte le associazioni possano attenersi? Questo faciliterebbe una raccolta precisa di informazioni, il confronto tra esperienze (sia all’interno di una stessa associazione, sia tra associazioni) favorendo al contempo la possibilità di raccogliere dati per eventuali ricerche e analisi.

  • I rappresentanti delle associazioni hanno rilevato che gli imputati giovani tendono a minimizzare il reato, mentre quelli stranieri mostrano una scarsa consapevolezza del valore sociale dell’esperienza di messa alla prova. È possibile intervenire per promuovere senso critico e consapevolezza? Come?

  • È importante che le associazioni vengano avvisate con tempestività di eventuali proroghe dell’esperienza di messa alla prova e ne tengano conto rimodulando eventualmente obiettivi e tempistica.

Per quanto sul documento sia necessario continuare a lavorare, strutturando il supporto all’esperienza di messa alla prova affinché si riduca il rischio di insuccesso e si affinino strumenti e competenze per la sua corretta e proficua gestione, i partecipanti sono stati concordi nell’esprimere la volontà di realizzare un vademecum che sia innanzitutto “dinamico”, come l’hanno definito, ovvero passibile di aggiornamenti e continui interventi migliorativi. Questo dovrebbe garantire un atteggiamento di ricerca e apertura di contrasto al rischio di scivolare in pratiche adempistiche e deresponsabilizzanti. Ma soprattutto richiede l’impegno di sintonizzarsi con la persona accolta, con le sue risorse e fragilità, ed esorta ad intendere l’accoglienza come un lavoro collettivo, facendo così dell’istituto di messa alla prova un’occasione di crescita per tutta la comunità. Questa considerazione introduce un’ultima riflessione che riguarda il nesso tra giustizia riparativa e istituto di messa alla prova. Da quanto è stato possibile rilevare attraverso la piccola indagine presentata in queste pagine, evidente è la difficoltà di rendere efficace e significativa l’esperienza di chi opta per un percorso alternativo al carcere. Alla disponibilità del Terzo settore, infatti, non corrisponde un adeguato sistema di supporto, garantito da operatori specificatamente preparati, con un monte ore congruo, percorsi di formazione e attività di ricerca che sostengano e monitorino l’esperienza, più efficaci e significativi raccordi con la magistratura e il sistema penitenziario.

Ad evidenziarsi è la necessità di realizzare la finalità rieducativa secondo un trattamento volto alla “valorizzazione del soggetto, (…) e che si avvalga di giudizi prognostici, attinenti alla ‘futura’ vita del reo nella società” (sent. 282/1989). Prospettiva, quest’ultima, che “sollecita la responsabilità individuale dell’autore di reato nell’intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato e di ricostruzione della propria personalità, (…) ma che chiama in causa anche la correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino (sent. 149/2018). Il recupero alla società, infatti, così come la pena, coinvolgono tutta la collettività, tutto lo ‘Stato-comunità’, oltre i confini del solo ‘Stato-apparato’” (Pugiotto, 2019, pp. 293 e ss., specie p. 295).

In questo quadro è evidente come la finalità rieducativa della pena sia conseguibile attraverso l’incontro di nuove politiche sanzionatorie, da un lato, ed esecuzione della pena altrettanto innovative dall’altro, entrambe ispirate ad un concetto della pena non più solo subita, ma attivamente “agita”. Il risultato dovrebbe essere il reinserimento sociale secondo logiche complementari a quelle della giustizia sostanzialmente retributiva su cui è ancora imperniato il sistema sanzionatorio e penitenziario.

In questo senso appare necessario un ulteriore investimento in risorse umane ed in particolare nell’assunzione di educatori, psicologi, mediatori linguisti e culturali, funzionari amministrativi che rendano l’istituto di messa alla prova una reale possibilità di crescita per l’autore di reato e per il contesto che lo accoglie. In questa chiave le pratiche della giustizia rivestono un ruolo decisivo potendo costituire un presidio di pace sociale e un laboratorio partecipato per costruirla ogni giorno (Cartabia & Ceretti, 2020).

Riferimenti bibliografici

Bertolini, P., & Caronia, L. (2015). Ragazzi difficili. Pedagogia interpretativa e linee di intervento. Milano: FrancoAngeli.

Cartabia, M., & Ceretti, G. (2020). Un’altra storia inizia qui. Milano: Bompiani.

Castignoli, V., & Paganini, G. (2021). La scrittura che ripara. La valenza educativa della scrittura autobiografica in un’esperienza di “messa alla prova”. Milano: FrancoAngeli.

Cherry S. (2010). Transforming Behaviour: Pro-social Modelling in Practice (2nd ed.). London: Willan. https://doi.org/10.4324/9781315084633

D’Agostino F. (1982). Le buone ragioni della teoria retributiva della pena, Iustitia 35, 236-259.

Decembrotto, L., & De Rocco, G. (2023). Ricerca educativa in carcere: sfide per un dibattito aperto, Studium Educationis 24(2), 64-72, https://doi.org/10.7346/SE-022023-06

Dei-Cas, E. A. A. (2021). Qualche considerazione in tema di giustizia riparativa nell’ambito della legge delega Cartabia. Archivio penale 3, 1-18.

Di Tommaso, G. (2023). La giustizia riparativa dagli albori alla riforma Cartabia. FrancoAngeli: Milano.

Furia, A. (2021). Ricucire trame, ricreare legami. Solidarietà e cura di fronte alla crisi della democrazia contemporanea. In C. Faraco, & M. P. Paternò (eds.). Cura e cittadinanza. Storia, filosofia, diritto (pp. 141-160). Napoli: Editoriale Scientifica.

Habermas, J. (1998). L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica. Milano: Feltrinelli.

HM Inspectorate of Probation (2024). The interventions landscape for probation services: delivery, challenges, and opportunities. Research & Analysis Bulletin, 02, 1-45.

Kirkwood, S., & Hamad, R. (2019). Restorative justice informed criminal justice social work and probation services, Probation Journal 66(4), 398-415. https://doi.org/10.1177/0264550519880595

Lattari, P. (2021). La giustizia riparativa. Una giustizia «umanistica». Una cultura dell’«incontro» per ogni conflitto. Milano: Key Editore.

Mannozzi, G., & Lodigiani, G. A. (2015) (Eds.). Giustizia riparativa. Ricostruire legami, ricostruire persone. Bologna: il Mulino.

Mantovani, F. (2017). Diritto penale. Parte generale. Padova: Cedam.

Musumeci, C., & Ferraro, G. (2014). L’assassino dei sogni. Lettere fra un filosofo e un ergastolano. Rimini: Nuovi equilibri.

Nugnes, F. (2022). La funzione rieducativa della pena: quali prospettive nell’attuale sistema amministrativo penitenziario?. JUS – Rivista di Scienze giuridiche. A cura della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano, 2/2022, 232-285. https://doi.org/10.26350/18277942_000075

Pagano, R. (2019). Istituto della “messa alla prova” e rieducazione. Questioni e temi pedagogico/educativi. Formazione, lavoro, persona VI(17), 16-28.

Pugiotto, A. (2019). Caino, il diritto e i diritti di Caino. Lo Stato 7(13), 293-304.

Randall, M., & Haskell, L. (2013). Trauma-Informed Approaches to Law: Why Restorative Justice Must Understand Trauma and Psychological Coping Must Understand Trauma and Psychological Coping. Dalhousie Law Journal 36(2), 501-533.

Travaglia Cicirello, T. (2016). L’affidamento in prova al servizio sociale: da misura “alternativa” alla detenzione a “misura penale di comunità” a contenuto riparativo? Giurisprudenza italiana, 1535-1540. Retrieved from https://hdl.handle.net/11570/3123275

Vacchelli, E. (2023). Il World Café come tecnologia del dibattito. In A. Giorgi, M. Micol, & E. Vacchelli (Eds.), Metodi creativi in pratica. Un laboratorio aperto (pp. 17-22). Bergamo: Università degli Studi di Bergamo.

Volterrani, A., & Luciano, S. (2021). Lo sviluppo sociale delle comunità. Come il terzo settore può rendere protagoniste, partecipative e coese le comunità territoriali. Bologna: Fausto Lupetti Editore.

Ziccone, P. (2021), Verso Ninive. Conversazioni su pena, speranza, giustizia riparativa. Soveria Mannelli (CZ): Rubettino.


  1. L’art. 42 del decreto n. 150/2022 definisce giustizia riparativa “ogni programma che consente alla vittima del reato, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore”.↩︎

  2. Si tratta di un organo periferico del Ministero della Giustizia alle cui dipendenze vi sono assistenti sociali incaricati di elaborare il suddetto programma al quale l’imputato dovrà attenersi al fine di ottenere un esito positivo. Tale programma dovrà specificare al suo interno le modalità di coinvolgimento dell’imputato, le prescrizioni comportamentali e gli altri impegni specifici che l’imputato assume (tra cui il risarcimento del danno e le condotte volte a promuovere la mediazione con la persona offesa).↩︎

  3. Istituiti nel 1991 dalla Legge quadro sul volontariato n. 266/1991 (oggi abrogata a seguito della Riforma del terzo settore), i Centri di servizio per il volontariato hanno il compito di organizzare, gestire ed erogare servizi di supporto tecnico, formativo ed informativo per promuovere e rafforzare la presenza ed il ruolo dei volontari in tutti gli enti del Terzo settore. I servizi che i CSV devono erogare sono articolati in 6 aree di intervento: promozione, orientamento e animazione territoriale (per dare visibilità ai valori del volontariato e all’impatto sociale dell’azione volontaria, promuovendo la cultura della solidarietà soprattutto tra i giovani); formazione (per qualificare i volontari e gli aspiranti tali, favorendo una maggiore consapevolezza del loro ruolo e lo sviluppo di competenze trasversali); consulenza e accompagnamento (i CSV offrono assistenza qualificata e accompagnamento alle associazioni in vari ambiti: giuridico-fiscale, gestionale-organizzativo, raccolta fondi etc.); informazione e comunicazione (promozione e diffusione delle notizie dedicate al volontariato); ricerca e documentazione; logistica (spazi per incontri e riunioni, strumenti, attrezzature).↩︎

  4. Secondo la teoria retributiva, il fine della pena “non è quello né che la giustizia sia fatta, né che l’offesa sia vendicata, né che sia risarcito il danno (…). Il fine primario della pena è il ristabilimento dell’ordine esterno nella società” (così sulla teoria retributiva della pena D’Agostino, 1982, pp. 236 e ss.; F. Mantovani, 2017, p. 749).↩︎

  5. The World Café was born out of local conversations held with diverse groups from around the world; the ideas behind it tested and adapted until Juanita Brown collated the work during her doctoral studies at Fielding Graduate University, which culminated in her seminal dissertation published in 2001 (https://theworldcafe.com/).↩︎