1 Introduzione
Carcere e disabilità non vengono associati nell’immaginario collettivo (Cesaris, 2016) e trovano poco spazio nel dibattito scientifico e specialistico, anche a causa dei riduzionismi e degli stereotipi che accompagnano il concetto di disabilità, come la fragilità, l’impotenza e l’incapacità di fare “connaturati” alla condizione. Eppure, le persone con disabilità sono presenti negli istituti di pena, anche italiani, nonostante la loro quasi totale invisibilità per mancanza di monitoraggi continuativi e specifici.
In questo articolo, ci proponiamo di analizzare gli effetti del contesto carcerario, come evidenziato dalla letteratura sociologica sulle carceri, mettendo in luce come queste istituzioni possano generare incapacitazione e disabilitazione sociale. Tali effetti colpiscono tanto le persone già considerate disabili, quanto le altre. Indipendentemente dalle condizioni di disabilità preesistenti, esamineremo come il carcere possa introdurre un ulteriore livello di disabilitazione, trasversale a chiunque.
Per quanto riguarda il contesto italiano, gli ultimi dati del Ministero della Giustizia a nostra disposizione si riferiscono all’agosto 2015, quando le persone con disabilità in carcere erano 628: 528 persone con cittadinanza italiana (di cui 26 donne) e 100 prive di cittadinanza italiana (di cui 8 donne). Un’unica rilevazione a cui, per il momento, non ne sono seguite altre né da parte del Ministero della Giustizia, né da parte del Servizio sanitario nazionale.
Non sono solo i monitoraggi ad essere carenti, ma anche gli studi. Nel 2013 un progetto di ricerca dal titolo Essere disabili in carcere. Progetto di vita e intervento educativo tra sfide e risorse (Cesaro, Caldin, & Pasin, 2013) ha raccolto venticinque interviste nelle carceri di Roma e Padova, offrendo una rappresentazione, per quanto parziale, di cosa comporti vivere una disabilità all’interno dell’istituzione penitenziaria. Tutti, tranne tre, avevano già avuto un’esperienza detentiva e tre avevano sperimentato anche il carcere minorile. Nessuno usufruiva di permessi premio e solo uno aveva avuto accesso alle misure alternative (affidamento in prova) in una precedente detenzione. Solo in dieci erano in possesso di una certificazione.1 Al pari di ogni altra persona ristretta, anche le persone con disabilità in carcere percepiscono come “problema” prioritario la privazione della libertà, poiché questa determina l’impossibilità di percepirsi come attore sociale e protagonista del proprio progetto di vita, di sperimentare ed esercitare ruoli ed immagini di sé diversi da quello di detenuto. Analizzando i fattori di diminuzione degli ostacoli sociali e di promozione del supporto sociale, le ricercatrici hanno individuato due strade percorse: un’organizzazione degli spazi tale da permettere alle persone con disabilità motoria di partecipare agli eventi promossi dall’istituto e la presenza di persone ristrette formate come caregiver (chiamate “piantoni”), in grado di “prendersi cura” del compagno di cella e di svolgere una funzione sociosanitaria, “un lavoro che ha un doppio valore: di aiuto alla persona disabile e di futura spendibilità in ambito professionale nel momento del reinserimento sociale” (Cesaro, Caldin, & Pasin, 2013, p. 690).
A seguito della rilevazione statistica del 2015 il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP) del Ministero della Giustizia ha emanato una circolare – La condizione di disabilità motoria nell’ambiente penitenziario. Le limitazioni funzionali (Circolare 10 marzo 2016) – dando alcune linee guida sul superamento delle barriere architettoniche, sulla formazione delle persone ristrette che si dedicano alla cura dei compagni con disabilità, su modello dei caregivers, e sull’assistenza sanitaria. La circolare prende atto delle novità introdotte dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (CRPD) del 2006 e dalla Classificazione Internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute (ICF) del 2001, non riuscendo però a far proprie le conseguenze della nuova definizione. Per l’ICF, infatti, “il funzionamento e la disabilità di una persona sono concepiti come un’interazione dinamica tra le condizioni di salute (malattie, disturbi, lesioni, traumi, ecc.) e i fattori contestuali” (OMS, 2004, p. 20). I fattori contestuali, personali e ambientali (intesi come ambiente fisico e sociale), interagiscono tra loro e comportano un impatto su tutte le componenti del funzionamento e della disabilità. Così, in un ambiente sfavorevole, certe condizioni di salute possono diventare disabilità. Perciò, per affrontare la questione della multi-discriminazione vissuta dalle persone con disabilità che si trovano in carcere (Traina & Caldin, 2014) è necessario partire dai fattori ambientali che rappresentano le circostanze in cui vive la persona, prendendo in esame l’impatto facilitante o ostacolante delle caratteristiche del contesto fisico (non unicamente architettonico) e sociale del carcere. I fattori ambientali, infatti, “interagiscono con le funzioni corporee, come ad esempio nelle interazioni tra qualità dell’aria e respirazione, luce e vista, suoni e udito, stimoli distraenti e attenzione, conformazione del terreno e equilibrio, e temperatura dell’ambiente e regolazione della temperatura corporea” (OMS, 2004, p. 27), avendo un’influenza positiva o negativa sulla partecipazione della persona come membro della società, sulla sua capacità di eseguire azioni o compiti, o sul suo funzionamento o sulla struttura del corpo.
La multi-discriminazione diventa ancora più evidente se si considera che la salute mentale non è ricondotta in alcun modo a questi discorsi, nonostante i numeri crescenti del disagio psichico. Secondo i dati di Antigone (Miravalle & Scandurra, 2024), il 12% delle persone detenute nel 2023, quasi 6.000 persone, hanno una diagnosi psichiatrica grave e, tuttavia, non accedono a spazi, risorse e professionalità adeguati.
Il concetto di disabilità introdotto dalla International Classification of Functioning, Disability and Health (ICF), una condizione di salute in un ambiente sfavorevole, comporta che chiunque possa sperimentare questo stato durante la propria vita, facendo della disabilità una condizione universale non più attribuibile esclusivamente a un gruppo minoritario. Il modello bio-psico-sociale sotteso all’ICF chiama in causa i contesti, ogni contesto di vita, nella definizione della disabilità e, in questo senso, il carcere non è diverso da altri; non è esente dagli interrogativi riguardanti la sua capacità di ostacolare o facilitare l’inclusione sociale, ovvero la capacità di riconoscere la persona come parte integrante della società e potenziarne la partecipazione. In questi termini appare riduttivo circoscrivere la disabilità a una questione di “tutela della salute”, essendo appunto coinvolta la qualità di vita nel suo insieme.
Ci troviamo di fronte a un nuovo modo di intendere la disabilità, nato a partire dalle riflessioni dei Disability Studies e del modello sociale, successivamente acquisite dal modello bio-psico-sociale, che hanno segnato il cambio di passo da un’interpretazione deficitaria della disabilità (modello biomedico) all’attribuzione di un ruolo “disabilitante” (Medeghini et al., 2013) dei contesti sociali. È riconosciuta la funzione causale che questi hanno nella produzione della disabilità, in forza di una epistemologia sociale abilista (un atteggiamento discriminatorio, svalutativo e ostacolante nei confronti delle persone con disabilità). Un tema che trova echi negli studi sull’attitudine incapacitante del carcere (Clemmer, 1940; Gallo & Ruggiero, 1989; Gonin, 1994).
2 Disabilità e processo di disabilitazione
Storicamente la disabilità è stata interpretata a partire dai parametri del modello medico, che si è concentrato sulle limitazioni fisiche, sensoriali o psichiche individuali. La disabilità era vista come un problema intrinseco alla persona e legato alla sua salute, che deve essere trattata, curata o quantomeno attenuata. La normalizzazione è così obbligatoria, poiché non si concepisce la possibilità di un corpo o di una mente non normalizzati (in riferimento a uno standard astratto). È con il modello sociale, il cui obiettivo è superare la visione della disabilità come “tragedia personale” (D’Alessio, 2013), che si fa strada l’idea di un possibile ruolo del contesto e dei suoi fattori ostacolanti. Secondo questo modello, infatti, è la società e la sua inaccessibilità a rende la persona disabile e non l’impairment (o deficit). Per esempio, una persona con ridotta capacità motoria potrebbe essere disabile non per la sua condizione, ma per la mancanza di strutture accessibili; ugualmente, gli atteggiamenti e gli stereotipi della società possono emarginare le persone con disabilità, portando all’esclusione da varie opportunità sociali, educative o lavorative. La dialettica tra i due modelli ha portato all’elaborazione di un ulteriore approccio, il modello bio-psico-sociale, che segue una concezione multidimensionale della salute, basata su fattori biologici, psicologici e sociali, incluse le loro complesse interazioni. In questo terzo approccio, come anticipato, la disabilità diventa una condizione di salute in un ambiente sfavorevole. Manca, tuttavia, un riferimento esplicito alle politiche e alle pratiche disabilitanti.
Per recuperare questa prospettiva è necessario tornare ai risultati dei Disability studies e al modello sociale, che hanno approfondito il concetto di disabilità come risultato di pratiche sociali, politiche, culturali ed economiche (D’Alessio, 2013). Tali approcci (plurali e non sempre convergenti) hanno prodotto un corpus teoretico contro-egemonico rispetto alle concezioni dominanti della disabilità (Goodley, Lawthom, Liddiard, & Runswick-Cole, 2019), con l’obiettivo di de-ontologizzare la disabilità e riconoscerla come produzione simbolica. Per meglio marcare questo aspetto, al termine disability spesso viene preferito quello di disablement, la condizione di disabilità o, più correttamente, la disabilitazione (D’Alessio, 2013). Il termine disabilitazione – poco presente nel dibattito italiano – mette in risalto la doppia dinamica di “essere disabilitato” e di “disabilitare”; così, parlare di “persone disabilitate” permette di sottolineare “il fatto che le persone con una menomazione (impairment) sono ‘rese disabili’ (disabled) dalla società in cui vivono e non nascono con una disabilità (in quanto la disabilità non ha nulla a che fare con la persona)” (Medeghini & Valtellina, 2006, p. 43). In sintesi, la disabilità non indica più una condizione, ma diviene il prodotto di un processo di disabilitazione.
In un’ottica intersezionale le politiche sulla disabilità sono intrecciate ad altre politiche escludenti (si pensi al razzismo, al sessismo, alla transfobia o al classismo), approfondite in più occasioni dai Disability Studies (Goodley, Lawthom, Liddiard, & Runswick-Cole, 2019) per restituire complessità al discorso sulla disabilità. Tra questi approfondimenti sono presenti anche quelli riguardanti l’incarcerazione (Ben-Moshe, Chapman, & Carey 2014), sviluppati a partire dalle analogie presenti nella storia della disabilità e in quella dell’incarcerazione (Ben-Moshe, 2013; Ben-Moshe, Chapman, & Carey, 2014) nei contesti statunitense e canadese. Queste analisi seguono le intuizioni di Foucault (2008) sul carcere e sulla sua funzione di disciplinare i corpi, rendendoli docili e controllabili.
La criminologia critica si è occupata a lungo degli effetti della detenzione; di seguito vogliamo sottolineare gli studi che possano essere correlati al processo di disabilitazione sociale.
3 Rileggendo gli effetti della detenzione
Vediamo brevemente le analisi sociologiche sugli effetti della detenzione, sintetizzate già da diversi studiosi (Vianello, 2012; Vianello & Sbraccia, 2010). Goffman (1974) spiega come la personalità delle persone private della libertà sia sistematicamente mortificato dall’arbitrarietà presente nelle carceri, essendo sottoposto a cambiamenti radicali, generando “una carriera composta dai cambiamenti progressivi che avvengono nelle credenze che si hanno su sé stessi e sugli altri che sono per loro significativi” (p. 24).
Nelle diverse umiliazioni che le persone imprigionate subiscono abitualmente, c’è spesso un principio che giustifica e nasconde la punizione aggiuntiva al di là della privazione della libertà per legittimarla davanti al mondo esterno, aumentando il senso di ingiustizia per gli interni. Così, le persone private della libertà sono soggette a regole, spesso assurde, presumibilmente adottate per la “sicurezza” delle carceri, come vediamo, ad esempio, quando lo Stato si assume la responsabilità della vita delle persone private della libertà, costringendo a nutrirsi anche quelle che rifiutano di mangiare, come sottolinea Goffman (1974, p. 48).
A questa situazione si aggiunge il processo di deculturazione del soggetto incarcerato “che lo rende temporaneamente incapace di affrontare alcuni aspetti della sua vita quotidiana” (Goffman, 1974, p. 23) e lo stigma che provoca una “accoglienza fredda nel mondo esterno” (Goffman, 1974, p. 69), generando un processo di “esclusione” semi-permanente dal mercato del lavoro (e quindi dalla società legale), e, talvolta, una “inclusione” nell’ambiente criminale, più “accogliente” per i liberati: “il soggiorno in carcere li orienta alle loro future occupazioni e alla comunità nazionale del sottomondo, che da quel momento in poi sarà il loro ambiente” (Goffman, 1974, p. 107).
Secondo Foucault, il carcere non si integra nella società perché l’“educazione” fornita è più che altro finalizzata all’integrazione nell’ambiente criminale:
La prigione non smette di formare delinquenti. Li produce con il tipo di esistenza che fa condurre ai detenuti: che rimangano isolati nelle celle, o che venga loro imposto un lavoro inutile, che non servirà a nulla, non è comunque “pensare all’uomo nella società; è creare un’esistenza contro natura inutile e pericolosa”; vogliamo che la prigione educhi i detenuti, ma un sistema educativo diretto all’uomo può ragionevolmente avere come obiettivo di agire contro il desiderio della natura? (Foucault, 1987, p. 222).
Il carcere forma e “favorisce l’organizzazione di un’associazione di delinquenti, in solidarietà tra loro, gerarchica, pronta per tutti le future complicità […] dove c’è una prigione, c’è un’associazione … tanti altri club antisociali” (Foucault, 1987, p. 222).
Nasce così una nuova forma di oggettificazione della soggettività, “i delinquenti”, definiti come coloro che attraversano questi processi di costruzione, e una nuova disciplina che si costituisce su questo nuovo potere del sapere: la criminologia, che legittima la privazione della libertà. Si costruiscono teorie che vedono il criminale come un alieno, come un essere non umano, essendo il condannato visto come “un altro popolo nella stesso popolo” (Foucault, 1987, p. 212), iniziando il processo di separazione dalle classi popolari attraverso un gruppo umano visto come non umano, portatore di tutti i mali e causa di violenza nella società. La disumanizzazione contribuisce a generare una forma di disabilitazione che colpisce tutti, sia le persone precedentemente disabili sia quelle che diventano disabili a seguito dell’incarcerazione.
In questo contesto, le persone imprigionate si incontrano e solidificano i rapporti tra loro attraverso la rabbia, si sommano e formano la “delinquenza”, definita come “un tipo specifico, una forma di illegalità politicamente ed economicamente meno pericolosa, forse anche utilizzabile” (Foucault, 1987, p. 230). La bassa pericolosità – per il mantenimento del sistema – di questa delinquenza è dovuta alla sua specializzazione in facili rapine, furti, appropriazione indebita, spaccio di droga e altre cose da emarginati, che la rendono isolata in mezzo a una popolazione anch’essa povera che, affetta dalle sue azioni, diventa ostile. Questa situazione rappresenta un ulteriore elemento della disabilitazione sociale. Fenomeni come la prigionalizzazione (Clemmer, 1940), come tendenza a condividere sentimenti e valori con il gruppo di persone privata di libertà, e la deculturazione (Goffman, 1974), come perdita di competenze necessarie nella vita esterna, sono spesso riscontrati nelle realtà carcerarie. Le influenze negative sulla capacità di ritorno alla convivenza sociale sono dovute anche a fenomeni molto diffusi nelle carceri, come l’inattività, la socializzazione forzata, la rottura dei legami familiari e la mancanza di rapporti tra carcere e società. Non è raro che alle persone detenute venga offerta una formazione professionale che non incontra molta utilità nel mercato esterno, dimostrando la mancanza di un progetto personale e di accompagnamento.
Anche se volontari e operatori cercano di offrire educazione, formazione professionale, lavoro, istruzione e attività ricreative per aiutare la popolazione carceraria, essi si trovano di fronte ad una cronica carenza di personale per l’attuazione dei piani. Così, l’esclusione sociale pregressa delle persone detenute si incontra con una seconda esclusione causata dalla permanenza in prigione che aumenta ulteriormente la distanza con il mercato del lavoro formale, generando così un circuito di criminalità-prigione-crimine. Anche in questo contesto, la disabilità sociale presente nella società esterna viene ulteriormente rinforzata da un secondo processo di disabilitazione.
Vediamo che non ci troviamo di fronte a una esperienza nuova: per quanto riguarda gli obiettivi che legittimano la sua esistenza nella società, il carcere “fallisce” fin dalla sua nascita, come si può vedere nella ricerca genealogica di Foucault (1987). Fin dalla sua creazione, il carcere già possedeva i problemi che Goffman analizzerà poi in profondità: “tutti gli svantaggi del carcere sono noti, ed è noto per essere pericoloso se non inutile” (Foucault, 1987, p. 195).
Le riforme – sempre dibattute, ma difficilmente realizzate – nascono insieme al carcere, legittimandone la precaria esistenza: “dobbiamo anche ricordare che il movimento per riformare le carceri, per controllarne il funzionamento, non è un fenomeno tardivo. La ‘riforma’ del carcere è più o meno contemporanea al carcere stesso” (Foucault, 1987, p. 197). Questi progetti di riforma, che si ripetono quasi ossessivamente nella storia, sembrano cambiare qualcosa, ma falliscono puntualmente, come se lo stesso meccanismo di riforma facesse parte del funzionamento del carcere, legittimando l’istituzione. Anni dopo le analisi di Foucault, vari sistemi applicati finora non sono riusciti ad affrontare le riforme e sono in qualche modo tornati a utilizzare le vecchie forme disciplinari repressive, mantenendo talvolta discorsi umanitari.
Le istituzioni totali (Goffman, 1974) possono manifestarsi in gradi variabili di totalità. Ad esempio, è possibile notare l’introduzione di prigioni senza presenza di forze di polizia in Brasile, vedi Grossi (2020, 2021). Goffman (1974, p. 77), definisce il carcere come un’istituzione totale:2
Un’istituzione totale può essere definita come un luogo di residenza e di lavoro dove un gran numero di persone con situazioni simili, separate dalla società più ampia per un considerevole periodo di tempo, conducono una vita chiusa e formalmente gestita. Le prigioni ne sono un chiaro esempio (Goffman, 1974, p. 11).
Gli obbiettivi che legittimano il carcere sono: incapacitazione, retribuzione, intimidazione e riforma. Tuttavia, questi obiettivi che legittimano l’uso del carcere sono molto diversi dai veri effetti che esso ha, e sembra ancora assolutamente contemporaneo quello evidenziato da Goffman (1974, p. 77), secondo il quale “è generalmente riconosciuto che le istituzioni totali sono spesso lontane dai loro obiettivi ufficiali”.
Questo “fallimento” permanente è reso ancora più evidente con il sovraffollamento delle carceri, aggravato dall’incarceramento di massa. Il sovraffollamento, quindi, rende anche visibile l’abbandono dell’obiettivo del reinserimento sociale a favore della costruzione di un regno dell’austerità e della sicurezza, che rende impossibile il “reinserimento” delle persone private della libertà nella società e trasforma in “marketing burocratico” i programmi di “trattamento”. Così, il sovraffollamento relega chiaramente la prigione ad una funzione esclusiva di “deposito degli indesiderabili” (Wacquant, 2011, p. 127). In tal modo, la struttura carceraria stessa produce un ambiente che induce una disabilitazione sociale degli individui che vi sono reclusi, non garantendo le opportunità necessarie per condurre una vita dignitosa e favorire lo sviluppo personale.
La prigione si inserisce nel sistema come una vera e propria fabbrica di povertà, impoverendo i già poveri, generando un processo di “emarginazione secondaria” (Baratta, 1990) che si applica, nella grande maggioranza, a persone vittime di un processo di emarginazione primaria nella società. Si può quindi affermare che la prigione contribuisce alla generazione di un processo di disabilitazione sociale secondaria, esacerbando la disabilitazione già esistente nella società esterna e creando le condizioni per una successiva disabilitazione durante e dopo la detenzione.
Vediamo infatti che l’incarceramento può causare la perdita del lavoro, dell’alloggio, la sospensione degli aiuti sociali e l’indebolimento dei rapporti familiari, al punto da far cadere in miseria anche l’intera famiglia; in questo senso vediamo che “il carcere esporta la sua povertà, destabilizzando continuamente le famiglie e i quartieri sottoposti al suo tropismo” (Wacquant, 2011, p. 153).
Si instaura così un circolo vizioso: l’incremento del tasso di incarcerazione contribuisce all’aggravamento della disabilitazione e della disuguaglianza nella società, complicando il reinserimento degli ex detenuti nel tessuto sociale e favorendo il rischio di sviluppare percorsi criminali per coloro che sono già esclusi, marginalizzati e disabilitati. Così, le politiche penali, teoricamente pensate per combattere la violenza e il crimine nella società, finiscono per favorirla.
Nell’era dei tagli alla spesa pubblica impressiona, oltre al costo umano e sociale, il costo economico nella costruzione dello Stato penale in paesi come gli Stati Uniti. Anche per quella parte di società interessata solo nella riduzione del costo dei servizi pubblici, dobbiamo menzionare che l’intera industria del controllo ha un costo molto elevato in un momento in cui stiamo assistendo a un taglio della spesa pubblica, portando Wacquant (2011, p. 96) ad affermare che gli Stati Uniti “hanno fatto la scelta di costruire case di detenzione e istituti penali piuttosto che ospedali, asili e scuole”.
Assistiamo così all’espansione sempre più evidente dell’“arcipelago carcerario”, già evidenziata da Foucault: all’interno del carcere vengono messi alla prova i dispositivi di potere e le tecniche carcerarie che si diffondono nella società. L’esistenza del carcere legittima e sostiene le alternative penali, rimanendo l’ombra minacciosa sempre presente che garantisce il rispetto delle alternative. Famiglia, esercito, industria, scuola e magistratura usano i dispositivi del potere per “normalizzare”, per forzare l’uniformità dei corpi, fino a quando sembra naturale, “normale”, il potere di punire, “siamo nella società dell’insegnante-giudice, il medico-giudice, l’educatore-giudice, l’assistente sociale-giudice; tutti fanno l’universalità del regno normativo” (Foucault, 1987, p. 250).
In questo “fallimento generale” denunciato nelle ricerche, gli obiettivi espliciti del carcere sono sempre più difficili da difendere. In questo modo si nota una tendenza a modificare gli obiettivi storicamente dichiarati dal carcere nella società contemporanea: il sistema, attraverso una sorta di difesa organizzativa burocratica, altera i vecchi obiettivi e si dà nuovi obiettivi, che gli si addicono meglio e che può raggiungere.
In specifici contesti storici, le autorità inglesi, per esempio, hanno rinunciato al concetto di riabilitazione. Pertanto, anche quando la riabilitazione può essere considerata come una prospettiva auspicabile, si evita che essa diventi un criterio di valutazione delle prestazioni del sistema carcerario. In questo senso, la detenzione dei “criminali” in carcere viene considerata sufficiente per punire e proteggere la società (Garland, 1999, p. 70). Si genera così una disabilitazione permanente nella vita delle persone rinchiuse, lasciandole prive degli strumenti necessari per reintegrarsi successivamente nella società. La rinuncia alla riabilitazione comporta l’abbandono della possibilità di mitigare gli effetti disabilitanti della detenzione carceraria.
Vediamo, quindi, come la responsabilità della “reintegrazione”, piuttosto che essere un compito per la società nel suo complesso, divenga sempre più pensata come compito delle persone private della libertà. Ciò accade nello stesso momento però in cui non si forniscono i servizi che garantirebbero un aiuto nel realizzare questo arduo obiettivo (Decembrotto, 2020), e accusandoli le stesse persone di non volersi “recuperare” in caso di fallimento. Le persone private della loro libertà sono, ad esempio, chiamate “clienti” nelle carceri scozzesi, per indicare che pur avendo accesso a ciò che il carcere può offrire, devono agire e assumersi le proprie responsabilità (Garland, 1999, p. 70). Di conseguenza, si attribuisce agli individui la responsabilità delle disabilità sociali generate dalla detenzione carceraria e dalla mancanza di politiche adeguate di reintegrazione. Tale attribuzione di colpa individuale per il fallimento personale contribuisce ulteriormente agli effetti disabilitanti.
L’ambiguità è un segno caratteristico dei discorsi sulle politiche criminali, sia storicamente (Foucault, 1987) che nella società contemporanea (Garland, 1999). Dietro le idee di terapia, reintegrazione, risocializzazione, rieducazione, la punizione è sempre presente e parte fondamentale: si assiste a periodi in cui è più nascosta e altri in cui è esplicitamente dichiarata, fino alla costruzione di un vero populismo penale, che vede nella punizione la panacea, la soluzione miracolosa al disagio sociale, che si propone di fornire maggiore sicurezza in una società in cui l’insicurezza sociale aumenta sempre di più (Wacquant, 2011). Alla punizione si sommano gli effetti di disabilitazione sociale esaminati. Se da un lato emergono tentativi di riforma che sembrano voler migliorare le condizioni delle persone private della libertà e facilitarne il recupero e ridurne gli effetti di disabilitazione, dall’altro lato persiste un’esplicita rinuncia alla responsabilità di tale recupero da parte delle autorità pubbliche. Questo accade mentre guadagnano terreno narrazioni volte unicamente all’inasprimento delle pene, con l’intento proclamato di arginare il problema della criminalità nella società.
Pur avendo registrato progressi nel discorso sulle garanzie dei diritti e nell’ambito legislativo in specifici contesti nazionali e periodi storici, tali avanzamenti rimangono insufficienti per alterare in modo sostanziale la vita degli individui detenuti. Il carcere continua a svolgere il ruolo di contenitore degli emarginati, senza aver subito modifiche significative nel suo quadro operativo, perpetuando dunque la sua funzione nociva. Inoltre, il carcere aggrava la disabilitazione di coloro che sono già disabilitati nella società esterna, intensificando i processi di disabilitazione.
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Si tratta di un documento con valore legale, rilasciato da soggetti individuati per legge (L. 104/92), che attesta la presenza di una compromissione nel grado di partecipazione sociale della persona (handicap) tale da determinare uno svantaggio sociale e il diritto da parte di questa a richiedere misure compensative (agevolazioni) previste dalla normativa. La Legge 104/92, Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, all’art. 4 (Accertamento dell’handicap) prevede che “gli accertamenti relativi alla minorazione, alle difficoltà, alla necessità dell’intervento assistenziale permanente e alla capacità complessiva individuale residua, di cui all’articolo 3, sono effettuati dalle unità sanitarie locali mediante le commissioni mediche […], che sono integrate da un operatore sociale e da un esperto nei casi da esaminare, in servizio presso le unità sanitarie locali”.↩︎
Le istituzioni totali (Goffman, 1974) possono manifestarsi in gradi variabili di totalità. Ad esempio, è possibile notare l’introduzione di prigioni senza presenza di forze di polizia in Brasile (vedi Grossi, 2020, 2021).↩︎