Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education. Vol.28 n.69 (2024), 5–20
ISSN 1825-8670

Persone “difficili”, educazione difficile. In dialogo con il contributo di Piero Bertolini nel lavoro educativo della giustizia

Alessandra AugelliUniversità Cattolica del Sacro Cuore (Italy)

Ricercatrice in Pedagogia generale e sociale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, Sede di Piacenza. Per 15 anni ha lavorato come insegnante Cpia 5 di Milano nelle sedi carcerarie di San Vittore e dell’IPM “C. Beccaria”. Svolge da diversi anni formazione rivolta a diverse figure educative, tra cui funzionari giuridico-pedagogici ed educatori nell’ambito del disagio adolescenziale.

Mario SchermiUniversità degli Studi di Messina (Italy)

Formatore della Direzione Generale della Formazione, Ministero della Giustizia. Professore a contratto di Pedagogia generale e sociale, di Metodologia della ricerca pedagogica, di Deontologia pedagogica, di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso le Università di Messina, Catania, Chieti e Bergamo.

Pubblicato: 2024-08-08

“Difficult” People, Difficult Education: In Dialogue with Piero Bertolini’s Contribution to the Educational Work of Justice

Abstract

The contribution resumes the conversation with work of Piero Bertolini – educator, pedagogist, director of the Institute for Observation and Preventive Custody “C. Beccaria” in Milan (1958-1968) – in relation to old and new deviances. In the footsteps of his experiences and reflections, we try to investigate the re-educational paths of “difficult” subjects, outside and inside prison, grappling with the fundamental pedagogical question (what is the desired and legitimate margin of educational intervention?), at one of the most critical junctures for the subject in formation (in the conflict that he is experiencing with the world, with the other and with himself?). Can there be an educational orientation of punishment in the penal experience? How to curb the risk that educating intent on punishing profoundly mutates its meaning, to the point of transfiguring itself into violence? How to interpret that obstinacy to seek and to trigger growth in the difficult situations? What directions of meaning indicated by Bertolini need to be taken up, known and actualized in the care of difficult subjects? The hypothesis is that there is a margin for educating in punishment: it is the responsibility of those who pedagogically interpret criminal events to seize and cultivate it.

Il contributo riprende la conversazione con l’opera di Piero Bertolini – educatore, pedagogista, direttore dell’Istituto di osservazione e di custodia preventiva “C. Beccaria” di Milano (1958-1968) – nel vivo delle urgenze educative contemporanee segnate da vecchie e nuove devianze. Sulle orme delle sue esperienze e riflessioni si tenta di indagare con spirito critico i percorsi rieducativi dei soggetti “difficili”, fuori e dentro al carcere, alle prese con la questione pedagogica fondamentale (qual è il margine auspicato e legittimo dell’intervenire educativo?), in uno dei frangenti più critici per il soggetto in formazione (nel conflitto che il soggetto in crescita sta vivendo con il mondo, con l’altro e con sé stesso?). Nell’esperienza penale può esserci un orientamento educativo del punire? In che modo arginare il rischio che l’educare intento a punire muti profondamente il proprio senso, fino a trasfigurarsi in manipolazione, in violenza? Come interpretare quell’ostinazione a ricercare, a inaugurare, a innescare crescita, anche nelle situazioni più difficili? Quali direzioni di senso indicate da Bertolini necessitano di essere riprese, conosciute ed attualizzate nella cura dei soggetti difficili? L’ipotesi è che ci sia un margine per educare nella pena: è  responsabilità di coloro che interpretano pedagogicamente le vicende penali, coglierlo e coltivarlo.

Keywords: Prison; Education; Social Recovery; Meaning of Punishment; Intentionality.

L’articolo è frutto di una elaborazione condivisa. I paragrafi 1 e 4 sono di Alessandra Augelli, i paragrafi 2 e 3 sono di Mario Schermi.

“Dietro ogni fatto c’è un diario,
dietro ogni azione una biografia,
dietro ogni comportamento una visione del mondo.
È in queste narrazioni spesso silenziose e ancora più spesso
inascoltate che vanno individuati gli indizi
per un progetto educativo che, partendo da queste storie,
riesca ad andare oltre esse”.

(P. Bertolini)

1 Ragazzi “difficili”: il senso, l’attualità, il fenomeno

Nel 1968, dopo una decennale esperienza come direttore dell’Istituto Penitenziario Minorile “C. Beccaria”, Piero Bertolini scrive Per una pedagogia del ragazzo difficile,1 testo corposo e illuminante, che traccia direzioni di senso educative fondamentali sia per l’interpretazione dei fenomeni di devianza e delinquenza minorile sia per il recupero educativo dei ragazzi e dei loro percorsi di vita.

Ribadendo la necessità del presidio della pedagogia in un ambito così complesso dove si incrociano prospettive disciplinari diverse, Bertolini sottolinea proprio come la maggior parte delle persone che vivono traiettorie di vita “irregolari”, “trae origine, per ciò che concerne i propri disturbi e le proprie difficoltà, da evidenti insufficienze o carenze educative, rientrando dunque pienamente nella competenza della pedagogia” (Bertolini, 1968, p. 7). Sceglie, dunque, di adottare il termine “difficile” per indicare quell’insieme di ragazzi, di soggetti, il cui percorso esistenziale è stato ostacolato, affaticato, impedito nel suo sviluppo da condizioni sociali e/o familiari non favorevoli.

L’obiettivo è di creare “un’estensione diversa”, evitando di suddividere in categorie troppo ristrette e rigide i soggetti che vivono qualche ostacolo nel loro percorso evolutivo, evitando anche, come vedremo, forme di “etichettamento” dei soggetti sulla base di un loro specifico comportamento.

Questa attenzione, a nostro avviso estremamente attuale, è espressione di un’alta intenzionalità educativa: soltanto non “chiudendo” attraverso le parole i soggetti ad un destino in qualche modo segnato da queste definizioni che diventano identitarie si potrà restituire possibilità ai soggetti stessi.

I “ragazzi difficili” sono tutti coloro nei quali si verifica una “mancata o ritardata formazione dell’io” che è all’origine di comportamenti antisociali e amorali. Fin dalle origini della sua riflessione Bertolini tiene a precisare che lo sguardo non è sulla quantità di questi comportamenti, ma sulla qualità, ovvero sull’intenzionalità, sulle sfumature e distorsioni di senso di cui si fanno espressione (Bertolini, 1968, p. 12). Si tratta, allora, in questa prospettiva di non cedere alla tentazione di tratteggiare un ritratto definitivo dei soggetti e di valutare come la difficoltà vissute da queste persone siano legate a circostanze date e a modelli storicamente e culturalmente variabili (Bertolini & Caronia, 2015, p. 45). Fermarsi soltanto all’analisi del comportamento manifesto rischia di mettere sullo sfondo e nascondere la specificità del soggetto che lo ha prodotto: “se i comportamenti antisociali possono stare in una classificazione definitiva ed esaustiva, i soggetti che li compiono no” (Bertolini & Caronia, 2015, pp. 46). Questa scelta di sottrarsi ad ogni forma di etichettamento che transita inevitabilmente dal comportamento alla persona che lo ha messo in atto è una opzione educativa di fondo che permette di dar spazio alle potenzialità evolutive del soggetto che emergono solo all’interno di una lettura complessa della situazione.

Chi sono, dunque, per Bertolini i “ragazzi difficili”? Oggi sarebbe ancora possibile delinearne i tratti attraverso gli stessi criteri?

Osserviamo come le forme di difficoltà oggi espresse si differenzino, seppur non nelle linee di fondo, dalle aree individuate da Bertolini: egli, infatti, esclude fin dall’inizio dalla “categoria” di “ragazzi difficili” tutti quei soggetti il cui comportamento irregolare o anormale sia l’effetto di una vera e propria malattia psico-mentale, poco importa se già strutturata o in via di strutturazione” (Bertolini, 1968, p. 12). Se in passato il numero di ragazzi e ragazze con bisogno di cura di tipo psichiatrico poteva essere più basso e, quindi, preso in carico dai servizi preposti, oggi tale necessità si intreccia con forme di dipendenza, di abuso di sostanze psicotrope, disturbi psichiatrici di varia entità, non sempre isolabili (Maggiolini, 2023).

Il confine del disagio psichico è molto più labile che in passato. Negli Istituti penitenziari minorili “negli ultimi anni si è registrato un incremento di ragazzi affetti da disagio psichico e disturbi comportamentali, spesso gestiti solo con la somministrazione di terapie farmacologiche. La maggior parte dei ragazzi con disagio psichico, disturbi comportamentali o con problemi legati all’abuso di psicofarmaci sono di origine straniera. Si tratta spesso di minori stranieri non accompagnati,2 in situazioni di profonda marginalità. Casi di disagio psichico, di disturbi comportamentali e di abuso di psicofarmaci, danno vita di frequente ad eventi autolesionistici”.3 Molti di questi disturbi sono legati ai traumi del viaggio affrontato, molte volte in solitudine, a forme di violenza subite, a estrema precarietà nell’accoglienza sul territorio: l’approdo ai servizi della giustizia è per loro altamente probabile e si fanno necessarie competenze specifiche e figure di supporto (pensiamo all’etnopsichiatria e all’incremento del lavoro di alfabetizzazione linguistica, culturale, emotiva). I minori stranieri – tra cui maggiormente quelli che giungono in assenza di reti familiari o amicali – pagano più pesantemente il ricorso a misure alternative: “se nel 2022 gli stranieri sono stati il 22% dei ragazzi complessivamente avuti in carico dai servizi della giustizia minorile, sono stati invece il 38,7% dei collocamenti in comunità, fino ad arrivare a essere il 51,2% degli ingressi in carcere. Più la misura è contenitiva, maggiore è la percentuale dei ragazzi stranieri”.4

Persone prese in carico al sistema della giustizia minorile, anno 2022; Antigone. Fonte: nostra elaborazione su dati DGMC
 

I ragazzi stranieri, poco o per nulla contemplati nei tempi dell’analisi bertoliniana per evidenti connotazioni storiche,5 oggi risultano invece soggetti a cui destinare molte delle attenzioni educative proprie del lavoro della giustizia: per loro i gradi di “difficoltà” nel percorso potrebbero essere differenti, la tipologia e il numero di ostacoli che incontrano sul percorso potrebbero essere variegati; tra gli stessi minori stranieri esistono ragazzi che sono approdati in Italia di recente in solitudine e con vuoti interiori e traumi enormi, avendo conosciuto la clandestinità e le traversie del viaggio, ma anche giovani di seconda generazione che vivono l’ambivalenza identitaria e che trovano nelle baby gang con forte connotazione culturale il senso di appartenenza tanto ricercata (Santerini, 2017, p. 112-113)6 che abitano gli spazi della giustizia hanno traiettorie di vita e, dunque, esigenze e prospettive di senso molto diverse.

Tra i soggetti che Bertolini annovera tra i “difficili” ci sono i ragazzi cosiddetti “a rischio”, ovvero che vivono carenze di ordine materiale e/o relazionale, che hanno vissuto esperienze di rifiuto e di abbandono, disgregazione familiare, figure di riferimento poco adeguate e che, abitando in contesti ambientali caratterizzate da forme di criminalità rischiano di incappare facilmente in comportamenti illegali. “È in risposta a condizioni di vita inadeguate che questi ragazzi esprimono disadattamento, ossia si discostano dalle forme comunitarie e di partecipazione ledendo sé stessi, i legami, i contesti in cui vivono” (Bertolini, 1968, p. 12). Il fenomeno individuato da Bertolini è evidentemente ancora fortemente attuale se si considera il forte legame tra forme di povertà materiale, culturale ed educativa e rischio di devianza e ulteriore marginalità (Finetti, 2023). Chi vive ai confini del welfare e subisce l’incremento del costo della vita e la crescita del divario sociale tra poveri e benestanti, sperimenta un senso di frustrazione – e potremmo dire di implicita ribellione interiore – che favorisce l’insorgere di condotte devianti, le quali vengono alimentate dalla consapevolezza di avere meno di altri senza che vi sia un’effettiva ragione di fondo”.7 Ciò si comprende anche dai numeri dal rapporto Antigone in relazione all’analisi delle tipologie di reati: “nel 2023 il 55,2% del totale dei reati a carico di tutti coloro che sono entrati in IPM è contro il patrimonio; il 63,9% se si guarda ai soli stranieri, e addirittura il 70,2% se si guarda alle sole donne. Tra i reati contro il patrimonio il più ricorrente è la rapina, che pesa per il 30,5, seguito dal furto con il 15,1%. I reati contro la persona sono il 22,7%”.8

Una tale analisi non ha alcuna finalità di tipo giustificativo, ma ci aiuta necessariamente a collocare i fenomeni all’interno di uno scenario educativo complesso che non può non contemplare interventi più ampi relativi alla garanzia di diritti di base e di attenzione socio-educativa verso quei contesti. “Tutti questi soggetti – ricorda Bertolini – non essendo ancora dei veri e propri irregolari della condotta sono tuttavia da considerare sottoposti a condizioni educative negative e pertanto non adeguate alle necessità della loro personale formazione: sono ragazzi che soffrono di limitazioni materiali (miseria, insicurezza economica, ecc…) estremamente gravi o sono ragazzi costretti a vivere in ambienti negativi sia per la loro intrinseca immoralità sia per la loro fondamentale incapacità di svolgere una sufficiente azione educativa” (Bertolini, 1968, p. 13). In questo caso queste difficoltà educative possono generare facilmente condotte aggressive e comportamenti egoistici e di sfiducia nel mondo e negli altri.

Infine, i “ragazzi difficili” sono tutti quei soggetti che in età evolutiva hanno infranto le regole del codice penale e quindi sono bollati come “delinquenti”. In questo caso “la scelta dell’atto antisociale dichiarato è solo l’indicazione di un più accentuato stato di tensione interiore o di una più grave forma di immaturità; per qualcuno di loro i comportamenti delittuosi rappresentano un meo e forse il solo a loro disposizione per soddisfare i bisogni profondi che essi hanno in comune con tutti gli altri ragazzi e che per deficienze educative del loro ambiente non possono altrimenti soddisfare o compensare: bisogno di considerazione, di auto-affermazione, d’avventura, di esperienze nuove, ecc…” (Bertolini, 1968, p. 15).9 Per loro vi è, dunque, l’esperienza e il vissuto dell’arresto e dell’iter processuale che contribuisce a “definirli” ovvero a caratterizzare maggiormente e in maniera meno perentoria la loro posizione.

La prospettiva bertoliniana, fortemente orientata a considerare la soggettività delle persone e a valutare i loro comportamenti come espressione di processi complessi di costruzione identitaria più difficoltosi in ambienti poveri e diseducanti,10 allontana, chiaramente dalla considerazione di forme di cattiveria e di malvagità da punire a cui invece sono sempre più sottoposti queste persone nel sistema attuale. Guardando, infatti, ai dati notiamo che “all’inizio del 2024 sono circa 500 i detenuti nelle carceri minorili italiane. Sono oltre dieci anni che non si raggiungeva una simile cifra. I ragazzi in IPM in misura cautelare erano 340 nel gennaio 2024, mentre erano 243 un anno prima, segno evidente degli effetti del Decreto Caivano. La crescita delle presenze negli ultimi 12 mesi è fatta quasi interamente di ragazze e ragazzi in misura cautelare. Altro effetto del decreto è la notevole crescita degli ingressi in IPM per violazione della legge sugli stupefacenti, con un aumento del 37,4% in un solo anno”.11

Il sistema di inasprimento delle pene e il ricorso al carcere anche in un momento di accertamento e di indagine va certamente ad acuire il fenomeno dell’etichettamento e “definizione” di un processo di sé in un paradigma da cui è difficile uscire: non possiamo non considerare che molte delle misure cautelari esercitate in carcere sono poi, come si è già notato, vissute da minori stranieri, spesso privi di un’opportuna rete di supporto anche all’uscita dal percorso penitenziario, per cui il rischio di segnare negativamente e stabilmente la loro vita è elevatissimo.

I “ragazzi difficili” richiamano ancora oggi, come diceva Bertolini, domande di senso molto forti all’interno della società: “quale altro significato può avere tutto ciò se non di sollecitare la stessa società a rivedere e riconsiderare criticamente i propri orientamenti e le proprie strutture di base?” (Bertolini, 1968, p. 21).

Si tratta, allora, di leggere i comportamenti e le azioni dei ragazzi difficili come espressione, seppur distorta, di un desiderio di incidere in modo personale nella realtà sociale e comunitaria contro le forme di disuguaglianza percepite e subite; dice, a tal proposito Tolomelli: “Il deviante è senz’altro una sfida educativa perché se è vero che è sempre il bersaglio di un’ingiustizia, è altrettanto vero che compito di un processo educativo pedagogicamente fondato è di dare a questo conatus di ribellione una direzione di senso e un orizzonte di cambiamento costruttivo” (Tolomelli, 2022, p. 34).

Non possiamo come pedagogisti ed educatori – ma anche come semplici cittadini – accettare che il

“fenomeno «ragazzo difficile» sia concepito come semplice dato di fatto, inevitabile, scontato, ovvio e trasversale a tutte le comunità: siamo chiamati, invece, ad incontrarlo e esplorarlo come realtà vivente, in modo da consentire l’apertura di una tematica pedagogica capace di provvedere ad una efficace azione di trattamento e di recupero” (Bertolini, 1968, p. 23).

2 L’educazione difficile

I ragazzi difficili portano la loro domanda sulle soglie del lavoro dell’educare con una cogenza che interpella le forme del riconoscimento (sempre più articolate e in trasformazione), le soluzioni dell’intervento (sempre più in affanno…) e l’etica di una responsabilità pedagogica (sempre più posticcia e derubricata). Certo, si potrebbe opportunamente argomentare, lo scenario appena tratteggiato, induce a confrontarsi con un presente del crescere, portatore delle sue peculiari difficoltà, ma non va trascurata la sfida che in ogni tempo il lavoro stesso dell’educare porta nel vivo della formazione delle persone e delle comunità.

Ci si intenda: la stessa urgenza pedagogica chiede di riconoscere nell’educare l’intenzione di inaugurare in un certo senso ciò che, altrimenti, sarebbe destinato ad avvenire per altri versi. L’educare, nel suo stesso (in)sorgere, è chiamato a distogliere, a spostare, a turbare… ad alterare. L’educare è – da sempre – in cerca di “altro”, avendone una certa prefigurazione, ma anche, coltivandone una qualche sorpresa (fammi un po’ vedere come te la cavi…).

Tralasciando, per il momento, le circostanze più favorevoli, in cui l’intervento dell’educare è atteso (prof. mi faccia capire…), è possibile affermare che quasi non si dà educare che non incontri qualche resistenza, che non si confronti con le novità, che non preveda qualche intrusione, che non comporti una qualche inquietudine. L’urgenza nell’alterare – compresa in ogni educare – non si accontenta di ciò che c’è, di ciò che accade… ma muove (per come può, con discrezione) verso altro, pur non avendone un’anticipazione sicura, incontestabile, certificata.

Insomma, non c’è agire educativo che non comprenda un certo grado di difficoltà.

E, tuttavia, tocca riconoscere che, talvolta, l’educare si fa ancor più difficile! Questa ulteriore difficoltà, che supera le ordinarie difficoltà con cui l’educare giocoforza deve confrontarsi, disegna un particolare agire educativo… Non si tratta, però, di un educare “speciale” (nonostante, talvolta, sia pressoché impossibile segnarne il confine). Mentre quest’ultimo, per l’appunto, si “specializza”, individuando questioni specifiche, per le quali appronta risposte mirate, ritenute generalmente efficaci ed efficienti (per come riescono ad esserlo, le risposte affidate alle scienze umane), l’educare difficile si connota per la complessità delle questioni che prova ad affrontare, per l’architettura metodologica di riferimento, ogni volta opportunamente declinata,12 per l’arditezza delle soluzioni che è chiamato ad esplorare e per l’esiguità dei successi da capitalizzare. Più nel dettaglio, è possibile affermare che l’educare prende a farsi difficile:

  • quando è chiamato a riattraversare criticamente i propri valori di riferimento;

  • quando sono oltremodo discutibili i margini di legittimità del proprio intervenire (con quale autorità…?);

  • quando in situazione, sa ben poco cosa fare (a quali metodi, strumenti, tecniche appellarsi?), e, tuttavia, alla fine, sembra che riesca a fare la cosa più opportuna…;

  • quando è chiamato a ricorrere a “forzature”, nel tentativo di vincere resistenze, rimuovere ostacoli, curvare le inerzie… (non sarà una passeggiata…);

  • quando esigui saranno i riscontri su cui misurare il rendimento pedagogico (sarà, infine, cresciuto?).

L’educare difficile è generalmente rintracciabile in tutte quelle vicende nelle quali la crescita delle persone è fortemente messa in pericolo o, per altri versi, è dirottata, incapsulata, annichilita… in itinerari di “discrescita” (Schermi, 2024, pp. 146-147), ovvero in cammini che le visioni e le responsabilità pedagogiche stimano essere incapaci di inaugurare esperienze di umanità soddisfacenti; ovvero, incapaci di rispondere alle attese dell’essere e dell’avvenire migliori,13 nelle relazione che ciascuno ha con sé, con l’altro e con il mondo. Il crescere, alla luce del credo pedagogico frequentato, in quei frangenti, in quei paraggi, appare in pericolo. In ciò è innanzitutto ingaggiato l’educare e l’educare difficile in particolare.

Si tenti un maggiore dettaglio. Il crescere è in pericolo:

  • nelle situazioni di “disagio”, quando condizioni materiali, sociali, culturali ne ostacolano l’incedere, ne indeboliscono le risorse, ne fiaccano le speranze;

  • nelle situazioni di “povertà”, quando, nei contesti, appaiono esigue le occasioni, improprie le opportunità, distratte le attenzioni;

  • nelle situazioni di “smarrimento”, quando presso sé e nei dintorni (sulle linee degli orizzonti) non sono rintracciabili, disponibili, edificabili forme in cui far avvenire la vita umana.

Avendo cura a non esasperare il margine definitorio (semmai, recuperandone quello indicativo), si riconosca, altresì, come, talvolta, il crescere superi anche la soglia del pericolo, presentandosi con i tratti della discrescita. Il crescere in discrescita è fortemente condizionato, pregiudicato, depotenziato, impossibilitato a promettere una vita migliore. Accade così quando la vicenda del crescere attraversa esperienze di disperazione (che tutti gli appigli per una vita migliore sembrano essere venuti meno); o quando attraversa esperienze di dipendenza (che non sembrano essere rimaste disponibili per sé parti di sé); o, ancora, quando attraversa esperienze di possessione (che il soggetto stesso sembra farsi artefice di una vita peggiore).14

Nell’arco che trattiene crescite in pericolo e discrescite è massimamente riconoscibile il cimento dell’educare difficile. Il quale, dal canto suo, ora si industria, si ingegna, si dimena… alla ricerca di risposte possibili, utili a fronteggiare le difficoltà e a mutarle in occasioni di crescita; ora, si ritrae, si deprime, dilegua… riconoscendo le proprie difficoltà, sì da trascurare le proprie prerogative, dubitare dei propri metodi, diffidare circa la “bontà” della propria proposta.

Com’è nella presunzione di molti e, altresì, com’è nella esperienza di molti di coloro che vi hanno a che fare, “educare nella pena” è, senza troppi distinguo (ma anche con qualche diffidenza), annoverabile tra le pratiche dell’educare difficile.

3 La pena, tra i luoghi dell’educazione difficile

La pena disegna il perimetro di una condizione sociale, psicologica e materiale a cui è sottoposto colui che si sarebbe reso responsabile di un danno, ad opera di un potere (morale, giudiziario, relazionale…) che stabilisce l’entità della sofferenza compresa nella pena e amministra le modalità attraverso cui dovrà essere sopportata.

Il cammino della giustizia ha imbastito, nel segno della pena, diversi “sensi” del penare, diverse ragioni che giustificherebbero la messa in sofferenza del trasgressore, che, nei diversi tempi e luoghi, ne hanno definito le soluzioni di risposta via via stimate come le più opportune: il senso retributivo, il senso educativo e il senso riparativo. Sensi, che comunque, appaiono tutt’altro che definiti e condivisi e intorno a cui il dibattito appare tutt’altro che esaurito.15 Qui, evidentemente, si privilegerà il senso educativo.

Pertanto, tra gli altri, ci sarebbe una intenzione educativa anche nella pena. Si dirà: va da sé, da sempre l’educazione ricorre alle punizioni per correggere, indurre un ripensamento, forzare un cambiamento e da qualche secolo anche il lavoro della giustizia si è assunto il compito di educare, nel margine del proprio intervenire. Sì, ma si dirà anche: ritenere che le punizioni riescano ad educare è solo un mito opportunamente “agghindato” dalle pedagogie dominanti per disciplinare le irregolarità, impedire il dissenso, fiaccare le resistenze e, per quanto lastricato da buone intenzioni, il penare nei percorsi giudiziari si risolve quasi esclusivamente in esperienze retributive, a loro volta, esclusivamente orientate alla “difesa sociale” (Vianello, 2017).

Ma è poi così vero che le punizioni non comprendano alcuna speranza pedagogica? E se, invece, la comprendessero, quali indicazioni educative è possibile condividere, a fronte di crescite in pericolo e di discrescite conclamate? Nonostante alcune comuni buone intenzioni e gli orientamenti culturali, normativi (costituzionali!) è possibile ricacciare il punire nelle retrovie di un agire ben poco meditato, intento perlopiù a contenere e vendicare?

Innanzitutto si distingua: c’è un educare che punisce e c’è un educare che interviene in situazioni punitive. Nel primo caso è l’educare che, nell’esercizio del proprio lavoro (nel merito degli interventi, nell’allestimento delle situazioni, nel presidio delle condizioni…), definisce regole, quindi si prende la briga di predisporre risposte sanzionatorie in caso di trasgressione (ti richiamo, perché hai tolto la parola al tuo compagno); nel secondo caso, l’educare, per così dire, si “intromette” nel punire di altri e del punire in altro senso, per far fruttare l’esperienza punitiva in termini educativi (ti sei beccato l’ennesima multa, proviamo a capire perché…). Nel caso del lavoro della giustizia la faccenda si fa più complicata, perché, come detto, ormai da diverso tempo (in Italia, innanzitutto dal varo della Costituzione e poi dalle legislazioni che hanno interessato l’ambito penale) gli interventi giudiziari, tra l’altro, sono chiamati a tendere alla educazione delle persone responsabili di reato. E ciò con maggiore evidenza in ambito minorile.16 Ciò significa che ogni azione in ambito penale e, tanto più, nell’amministrazione delle pene, è chiamata ad interpretare una attesa di crescita, rivolta alle persone responsabili di delitto.

Educare nella pena, investe sulla possibilità di trasformare la trasgressione della norma, il conflitto con la comunità, il danno arrecato alle vittime, in occasione di crescita. Educare nella pena, rifugge dalla semplice prospettiva di piegare all’obbedienza e di produrre correzione:17 educare ha in cura la crescita dell’altro. E, né l’obbedienza e né la correzione comprendono l’altro, avendo a cuore solo “lo stesso”! In questo senso… “ogni pratica rieducativa che si limiti ad allontanare il ragazzo dalla sua vita senza che ciò sia accompagnato dalla proposta di nuovi, possibili modi di stare al mondo, rischia di mancare il bersaglio. Un intervento rieducativo che si esaurisca nel sostituire ad una vita ‘ricca’ di difficoltà una vita ‘povera’ di esperienze, una vita ristretta entro gli angusti confini di regole negative e normative, rischia di ottenere solo una condotta socialmente sopportabile unita, nella migliore delle ipotesi, ad un certo impegno nel settore della formazione o del lavoro. Un tale genere di intervento, fondato esclusivamente su pratiche di restrizione dell’esperienza e su norme che ripetono quelle stabilite dalla società come il minimo indispensabile perché un individuo non le rechi più danno, può forse modificare il comportamento (ma per quanto tempo?), non educare l’individuo” (Bertolini, 2015, p. 132).

Educare nella pena chiede di fare i conti con tre questioni irriducibili:

  • La situazione di cattività, ovvero come contenere, ridurre le “incidenze negative” della condizione penale e, per altro verso, come cogliere, sfruttare le “incidenze positive”, che pure, sembra di scorgere?

  • Il reato, ovvero, come provvedere alla crescita passando per la frattura che la trasgressione ha prodotto con le norme (con i loro precetti), con la comunità e con la vittima?

  • La devianza, ovvero che ruolo, che senso, che valore ha la vicenda penale nel cammino biografico del soggetto responsabile di delitto?

3.1 La cattività

Circa la questione della cattività…, a proposito delle “incidenze negative”, si riconosca come l’educare non possa trascurare le difficili situazioni e condizioni in cui si chiama ad intervenire. A partire dalle esperienze in area penale interna, è possibile distribuire queste incidenze su almeno tre dimensioni: una psicologica, una strutturale e una ambientale.

  • Dimensione psicologica. L’impatto con la vicenda penale e con la pena, in particolare, di per sé produce, più o meno intenzionalmente, una certa sofferenza e generalmente genera nel soggetto uno stato di prostrazione e di crisi.18 L’interruzione del quotidiano, l’allontanamento dagli affetti, gli impedimenti… non di rado incidono sulle condizioni emotive del soggetto ristretto, provocando rabbia, scoramento, rassegnazione, mestizia, abbandono, impotenza, colpa…

  • Dimensione strutturale. L’organizzazione penitenziaria – con un’evidenza non arginabile nell’esecuzione penale interna – appare quasi esclusivamente predisposta a garantire ordine e disciplina e risulta indolente verso le singolarità che ospita e a cui si rivolge, semmai, per annullare le differenze e trascurare le particolarità. A ciò si aggiunga che, generalmente, i contesti della pena, per ragioni che qui è impossibile prendere in esame nella loro ampiezza, appaiono brutti, sgradevoli, inospitali… (interazioni fredde, muri scrostati, ferro un po’ ovunque, scarsa igiene…) quasi a voler aggiungere sofferenza a sofferenza.

  • Dimensione ambientale. L’intervento penale – con un’evidenza difficilmente arginabile nell’esecuzione penale interna – produce separazione, allontanamento, al limite, sradicamento; quasi a voler erigere un confine a tutela della parte “buona”, contro una parte “cattiva” e mettendo, di fatto, in pericolo qualunque strategia di reinserimento. Per un verso, quello interno, si produce un mondo separato, ristretto, forzato, confinato, chiuso, regolato da subculture, prigionizzante;19 dall’altro, si ipostatizza un mondo esterno estraneo, distante, nemico, inospitale, respingente… a cui non si appartiene o a cui non si appartiene più.

La cattività penale, però, accanto alle evidenti incidenze negative, comprende alcune “incidenze positive” che, per quanto comunque sopportate, come dirette conseguenze penali, potrebbero risultare molto preziose per il lavoro educativo. Per citare solo le più evidenti: l’interruzione, l’allontanamento, un tempo vuoto.

  • L’avvio della vicenda penale – con maggiore evidenza per le vicende dell’esecuzione penale interna – di fatto comporta una interruzione (più o meno brusca) con le dinamiche che fino a quel punto, nella trama di quella biografia, avevano segnato il corso della vita. Un corso, non di rado, vissuto come uno scorrere pressoché “inarrestabile”, incastrato nelle dinamiche e nei ritmi dell’ordinario avvicendamento dei fatti; pressoché “immutabile” determinato da leggi incontestabili (ordinarie, familiari, morali…); pressoché “insormontabile”, mirato su destini prescritti, considerati dai più senza vie d’uscita. Bene, l’interruzione della vicenda penale, forse anche un po’ paradossalmente, talvolta, potrebbe coincidere con l’inizio di un cammino di liberazione.20

  • La vicenda penale costringe ad un allontanamento21 dal mondo in cui, presumibilmente, si è formata la determinazione delittuosa, il percorso di devianza. È in quella distanza che appare possibile guadagnare prospettive inaudite in cui il solito, l’ordinario, il normale possono assumere ulteriori sensi e ulteriori significati. È qui, in questo frangente che può innescarsi sorprendentemente l’abbrivio di una nuova nascita, presso cui l’educare può lavorare per il cambiamento, “attraverso un calibrato allontanamento dal pensare-come-il-solito, un discorso di secondo grado focalizzato sul contributo attivo e sulla responsabilità di ciascun soggetto nella costruzione del proprio discorso sul mondo” (Bertolini & Caronia, 2015, p. 73).

  • Interruzione, allontanamento… aprono, innanzitutto, ad un tempo nuovo… e, prima ancora, “vuoto”. Un tempo non riempito dalla solite routine, non popolato dalle solite figure, non dedicato alle solite faccende. Il tempo della pena è innanzitutto un tempo vuoto, un tempo in grado di ospitare qualcosa anche per la prima volta. Ci si ritrova in un vuoto terrificante… ma anche possibilitante; in un transito rischioso, sospeso nel vuoto… ma anche – soprattutto se accompagnati – in un’officina in cui poter decostruire e ricostruire, facilitati proprio dallo smarrimento, dalla confusione, dalla vertigine. “Nel vuoto nato dalla destrutturazione dei modelli consueti, si inserisce infatti il modello di intenzionalità incarnato dall’educatore cui il ragazzo tenderà ad aderire nella misura in cui avrà sviluppato nei confronti dell’educatore sentimenti di stima, di ammirazione e soprattutto un trasporto affettivo” (Bertolini & Caronia, 2015, p. 165).

3.2 Il segno del reato

Il reato, visto nella distanza oggettivante di uno sguardo naturalistico o positivistico (o, per altri versi, sul filo positivo del diritto), è un fatto come la pioggia, il cibarsi, il difendersi… ma, visto nella prossimità soggettivante di uno sguardo fenomenologico, ecco che – il medesimo reato – si muta in “segno”, compreso nella trama biografica e storica delle soggettività coinvolte. È questo il reato che importa all’educare. Ed è questo il reato che importa al lavoro della giustizia, intento ad interpretare una certa responsabilità pedagogica.22 Il reato è l’evento scatenante che incrina la relazione sociale, minaccia l’autonomia del soggetto… ma, anche, apre lasciando emergere esistenze in pericolo, conflitti, discrescite.

Così, circa la questione del reato, appena oltre il consolidamento della relazione educativa e avendo la premura di trattenere tra parentesi i giudizi, il lavoro dell’educare (…nel lavoro della giustizia) è ingaggiato a richiamarlo, a convocarlo, a riconsiderarlo, in quanto avvenimento “grave” che coinvolge storie e ambienti. Per certi versi, è impegnato a restituirlo al suo autore, ma stavolta non giudiziariamente, non per misurarne l’entità rispetto ad una norma e deciderne il corrispettivo sanzionatorio; piuttosto, per non fuggirlo, per riconoscerlo, per assumerlo responsabilmente e perché quel fatto, quel reato possa dire ciò che aveva da dire, nella sua commissione (De Leo, 1998). È così che il reato, ben lungi dall’essere il chiodo a cui appendere l’intera biografia del soggetto e dall’essere l’etichetta dentro cui rinchiudere la sua identità, può rivelarsi una chiave d’accesso… Per altri versi, l’educare è, quindi, sollecitato a promuovere letture del reato che superino (senza negarlo) quel comportamento la cui legalità è misurata in punta di diritto, e che di per sé non costituirebbe “una condizione pedagogicamente abbastanza saliente” (Bertolini & Caronia, 2015, p. 42), e lo restituiscano alla comprensione dell’uno e degli altri, perché nel suo frangente possano rivelarsi i sensi e i significati in gioco, se ne possa saggiare la salienza nelle crescite “difficili”.

3.3 Devianze e normalità

L’incidente del reato, allora, diviene la via d’accesso per mettere in questione il cammino di crescita del soggetto responsabile di ingiustizia; un cammino che, nell’inciampo del reato, potrebbe indicare un percorso di devianza. Il reato, per così dire, sfuma, mentre il questionare pedagogico prende in carico la vicenda dell’altro, nel vivo costruttivo e interazionista che ne segna il verso e che consente di rintracciarne – per come possibile – il senso. Del resto “il comportamento deviante, si tratti di un reato sancito dal codice penale o di un atto più genericamente antisociale, è sempre parte di un tutto complesso e originale: il soggetto” (Bertolini & Caronia, 2015 p. 60).

Circa la questione della devianza, l’intervento educativo è chiamato a riattraversare le maglie di una biografia per lasciare emergere i profili del sé in formazione, “la maschera del cattivo” (Scaparro & Roi, 1992). Si tratta, innanzitutto, di un’impresa conoscitiva tutt’altro che a portata di mano.

Il fatto è che l’individuazione di precise catene di eventi che condurrebbero ad una condizione di devianza – catene la cui interruzione eviterebbe lo scorrere di tale condizione – è sempre estremamente problematica e segnata da incertezze. In campo educativo non si danno concatenazioni di eventi a priori definibili come cause di un certo comportamento: i percorsi attraverso cui alcuni minori giungono ad una condizione di disagio sociale o psicologico si rivelano irriducibili ad un modello di rischio costruito su criteri sufficientemente discriminanti da permettere previsioni sostenibili (Bertolini & Caronia, 2015, p. 39).

È così che, nell’interpretazione fenomenologica, Bertolini e Caronia pongono al centro dei fenomeni di marginalità e di devianza la categoria della intenzionalità. “I ragazzi non sono così, ma diventano così. E quindi possono anche imparare ad essere diversi. Il compito dell’educazione è dare loro delle possibilità, accendere il desiderio di cambiare: a condizione però che si consideri la loro resistenza e si faccia leva sulle loro motivazioni (Palmieri, 2015, p. 22).

3.4 In particolare, l’Istituto Penale Minorile

Che cosa realizza un Istituto Penale Minorile, spesso nel linguaggio corrente, chiamato carcere? Cosa fa il carcere? Si potrebbe dire: separa dal resto e concentra spazi e tempi per interventi mirati e intensivi volti a promuovere cambiamento nei percorsi di devianza. Un po’ come accade con l’ospedale: la malattia (come la devianza) viene separata (perché non danneggi ulteriormente e ulteriormente non si danneggi), e su questa vengono operati interventi mirati di cura… Dal canto suo il carcere (come l’ospedale) offre un luogo riparato e strumenti e competenze ad hoc, per contenere e per la realizzazione degli interventi. Ora, senza insistere troppo con il riferimento all’ambito sanitario (a sua volta pericoloso…), si riconosca come la somiglianza tra queste due organizzazioni è riscontrabile solo nella definizione accurata, razionale, disciplinare, protocollata… dell’azione del separare, mentre si segnala un evidente distanza nella definizione delle azioni di cura: in carcere ci si affida a progettazioni educative personalizzate poco considerate, consistenti perlopiù in attività standardizzate (istruzione…) e affidate alla cura di altri… non immediatamente vincolati ad un mandato organizzativo e istituzionale e la stessa organizzazione del carcere generalmente non sembra poggiare su progettazioni di istituto, mirate su obiettivi educativi condivisi e operazionalizzati.

Certo, il carcere è un luogo “difficile” (è senz’altro più facile trattare la malattia!) e “ambiguo”, poiché inscritto in una storia, in una tradizione della giustizia intenta perlopiù a retribuire e a rassicurare la comunità sociale. Attenderne un suo più “promettente utilizzo” è possibile solo appellandosi ad un suo più attento ripensamento e una sua più attenta interpretazione, in linea con la cultura della giustizia e con le norme che in questi ultimi decenni ne hanno ridisegnato ruoli, funzioni e prospettive. Detto altrimenti, è possibile solo se ci si emancipa da facili semplificazioni, ma anche da comprensibili e, tuttavia, fuorvianti attestazioni. Per intenderci: è come se il carcere, e forse, purtroppo, anche l’Istituto penale minorile, riuscisse a fare bene solo il suo vecchio mestiere di separare, segregare, contenere la devianza, mantenendo la connotazione di “parentesi negativa”, che occorre limitare il più possibile, investendo solo sul “fuori”, sul “dopo”, poiché nel (frat)tempo del “penare” ci sarebbe poco da fare. È così che si riscontra una certa enfasi: nel “rapido inserimento sociale”, trascurando il tempo che occorrerebbe riservare all’intervento educativo; nella “immediata fuoriuscita dal circuito penale”, trascurando le possibilità di un possibile contenimento generativo (nel senso dell’holding di Winnicott); nell’impegno nelle “attività” (istruttive…), trascurando la produttività che avrebbero anche le soste riflessive (conversative, narrative, solitarie, in coppia, in gruppo…); nella “territorialità dell’esecuzione”, trascurando le scoperte eventualmente prodotte dagli spiazzamenti (cognitivi, emotivi, interpretativi…); nel mantenimento dei legami affettivi, significativi, trascurando il valore degli altri ulteriori possibili incontri trasformativi e riparativi (innanzitutto con gli Operatori della giustizia, con le vittime…). Fatte salve tutte le buone ragioni (etichettamento, emulazioni, carriere criminali, radicalizzazioni) che accompagno le enfasi accennate, occorre riconoscere che non può, parimenti, essere sottaciuta la “possibilità” di crescita contenuta nell’esperienza dell’IPM, pena il suo stesso precipitare in semplice (e atroce) luogo di segregazione.

Per un po’ di tempo, proprio gli IPM hanno rappresentato la “speranza” che fosse possibile una via penitenziaria all’educare, considerata la quasi impraticabilità di una simile prospettiva nelle carceri per adulti. Per un po’ di tempo… – visto che delle carceri non si riesce a fare a meno – gli IPM hanno tentato di interpretare concretamente i mandati costituzionali e gli imperativi etici, per un punire in grado di superare, finalmente, l’angusto e sbrigativo margine del retribuire.

4 Direzioni di senso: dentro e fuori dal carcere

L’esperienza diretta di Piero Bertolini con il mondo della pena e la cura23 del soggetto difficile l’aveva portato a rielaborare una cornice di senso teorica e metodologica molto raffinata ed originale, sia in merito alle motivazioni delle difficoltà espresse dai soggetti che intercettavano in modo diretto o indiretto il circuito penale, sia in merito alla progettualità educativa possibile.

Ritenendo che gran parte dell’irregolarità del comportamento dipendesse da una perdita o da una distorsione dell’intenzionalità (Bertolini, 1968, pp. 46-58), ovvero dalla difficoltà di far agire la “coscienza” come quell’organo che permette di dare significato alla realtà e quindi anche a posizionarsi coerentemente nel mondo e con gli altri, delinea i punti focali del percorso rieducativo del/la ragazzo/a difficile. Affrontando anche questioni legate anche all’imputabilità e alle condizioni minime perché una persona difficile possa appropriarsi in maniera responsabile e piena di ciò che ha fatto e vive,24 Bertolini delinea orientamenti di senso e rifonda il significato della “rieducazione” dei soggetti difficili: si tratta, a suo avviso, non tanto di cancellare gli atti irregolari, quanto piuttosto di rimuovere i motivi che hanno condotto il ragazzo difficile ad assumere quelle stesse condotte irregolari (Bertolini, 1968, p. 83). Obiettivo fondamentale dunque del processo rieducativo è “una profonda trasformazione dell’intima vita di un soggetto, del suo modo di intendere sé stesso, gli altri e le cose, del suo modo di mettersi in relazione con queste realtà e di procedere quindi nella scelta dei suoi atteggiamenti e delle sue condotte” (Ibidem, p. 85).

Chi lavora quotidianamente con i soggetti in condizioni di difficoltà sa quanto queste finalità siano percepite come estremamente alte e complesse da raggiungersi: la visione del mondo di un soggetto che ha sedimentato alcuni significati a partire dalle esperienze vissute pare difficile da incrinarsi; se pensiamo poi che in un contesto penitenziario visioni similari si incontrano, dialogano tra di loro e tendono a rafforzarsi l’impresa si prospetta ancora più ardua. La severità dell’esperienza di pena potrebbe stare all’interno di quella visione come convalida del proprio essere “difficile”, sbagliato, fuori e come consolidamento di un’immagine di sé tendente alla cattiveria e incapace di fare qualcosa di buono per sé stessi, per gli altri e per il mondo.

Si tratta, allora, secondo Bertolini di favorire un cambiamento della visione del mondo della persona difficile attraverso la possibilità di accedere ad esperienze di segno diverso: se da un lato, infatti, il soggetto “va messo nelle condizioni migliori per esercitare liberamente la sua capacità di intenzionare, (…) sottraendolo ai pesanti condizionamenti che sono all’origine del suo costituirsi, dall’altro va aiutato col fargli fare esperienze nuove, capaci di stimolare nella giusta direzione la sua attività coscienziale ed insieme esperienze che lo conducano di fronte alla constatazione della necessità di rivedere i propri convincimenti e le proprie linee direttrici” (Bertolini, 1968, p. 86).

Al centro di questa direzione di senso ancora così preziosa nel lavoro educativo della giustizia è la consapevolezza che si può cambiare “idea” se si cambia “esperienza”, ovvero se si amplia il ventaglio di esperienze di modo tale da ritrovare in esse nuovi significati: è qui il principio ispiratore di ogni scelta e prassi nei percorsi di cura dentro e fuori le carceri; possono esistere, infatti, diverse proposte esperienziali, di tipo lavorativo, laboratoriale, scolastico, ecc… nelle carceri e nei progetti di penale esterna, ma a volte queste attività rischiano di essere disposte e prospettate ai soggetti difficili sulla base di ciò che è disponibile e al riempimento di spazi e tempi che altrimenti resterebbero vuoti. Non di rado si verifica una frammentarietà di esperienze sporadiche o di corto raggio non del tutto vagliate in sintonia con la specificità dei soggetti coinvolti. Che l’esperienza sia trasformativa, sia contesto pratico dove vagliare altre ipotesi di significato, altre possibilità esistenziali: può essere una direzione di senso, un’attenzione costante da nutrire nei confronti dei soggetti difficili.

In modo particolare, Bertolini, denotando questa cura come dilatazione25 del campo di esperienza26 dei soggetti difficili, ricorda due modi concreti per creare la disomogeneità, la decostruzione e la diversificazione degli incontri del soggetto col mondo: l’educazione al bello e l’educazione al difficile (Bertolini & Caronia, 2015, pp. 135-146). Si tratta di accompagnare i soggetti a risvegliare la sensorialità e partendo da esperienze dapprima semplici e poi via via più complesse arrivare a percepire sia la bellezza naturale sia la bellezza creata dalla persona nel rapporto col mondo: il contatto con la natura27 potrà portare ad assumere nei confronti del bello un atteggiamento attivo (Bertolini, 1968, p. 146) e di poterne non solo godere passivamente, ma anche ricercarlo e ricrearlo nel proprio contesto. Il ragazzo stesso potrà essere “più avvertito della possibilità di riscontrare e di registrare «del bello» un po’ dovunque (anche nelle piccole realtà quotidiane) e della validità che ha per ciascun individuo il contributo che ognuno può e sa dare per rendere «più bello» ciò che è personale e comunitario (ibidem, p. 147).28 Le attività educative incentrate sulle dimensioni estetiche oggi nei contesti del lavoro della giustizia sono moltissime e diversificate: pensiamo alla musica, alla scrittura, all’arte, al teatro, ecc… così come anche la partecipazione ai progetti di cura e di rifacimento di ambienti comuni o di spazi di quartiere. In ciascuno di essi il soggetto in difficoltà può cogliere una possibilità concreta di vedere la realtà da altri punti di vista e di trasformarla. D’altro canto il percorso rieducativo intende rafforzare l’educazione all’impegno e alla responsabilità: si esplicita, in questo senso, la valenza del lavoro e della scuola (Lizzola, Brena, & Ghidini, 2017) all’interno del percorso rieducativo del soggetto difficile: sebbene, infatti, il soggetto possa essere attratto da queste proposte per un mero motivo strumentale, dice Bertolini, nell’esperienza concreta è messa a disposizione la possibilità di sperimentare quanto la costanza e la dedizione quotidiana porti poi ad esiti tangibili di realizzazione. Il lavoro e la crescita culturale sono forme di valorizzazione del soggetto, di autogratificazione, ma al contempo anche forme di restituzione e di contributo concreto offerto dal soggetto alla comunità. Sappiamo quanto il lavoro sia desiderato, ambito e riconosciuto come fonte di valore nel lavoro educativo della giustizia, ma quanto anche a volte scarseggi di prospettive e di possibilità concrete, rischiando di diventare anche un questo caso un mero palliativo o una forma di svilimento del soggetto.29

Gli orientamenti di senso delineati possono, attraverso quello che Bertolini chiama “il linguaggio delle cose concrete”, fornire ai soggetti difficili altre chiavi di lettura di sé, dell’essere-con-gli-altri e dell’essere-nel-mondo e far maturare dall’interno una nuova versione delle cose. Solo così il soggetto potrà prendere le distanze da ciò che è avvenuto nel passato: quando fa nuove esperienze, quando sperimenta concretamente altre forme di esistenza, dapprima impensate, potrà mettere in discussione il passato e ripensarlo. “Il significato della rieducazione è essenzialmente quello di essere una trasformazione attiva frutto non tanto di una sistematica negazione del passato, quanto di una rinnovata proiezione sul futuro” (Bertolini & Caronia, 2015, p. 93).

Viene ribaltata in tal modo la prospettiva secondo la quale il processo rieducativo parta dalla presa di distanza dal proprio passato: il sistema stesso della pena e del pentimento si focalizza attorno al reato come elemento di rottura di un legame comunitario da consapevolizzare, rivedere, riparare. Pur tenendo valido questo passaggio, Bertolini fa notare come a questo processo più profondamente e più radicalmente si giunge quando il soggetto intuisce e vede uno spiraglio rispetto ad un futuro nuovo. È la sollecitazione concreta che viene dal futuro, la speranza di opportunità migliori a costituire una spinta importante per la revisione del proprio passato e l’assunzione della pena come esperienza di riscatto.

5 Riflessioni conclusive: il lavoro dell’educare, nel lavoro della giustizia

Per come possibile, qui si è tentato di mettere in riflessione alcuni snodi che interpellano l’urgenza di assumere la questione educativa entro il margine del lavoro della giustizia. Su questo crinale e su questa frontiera, crediamo, siano in gioco alcune delle ragioni più profonde che muovono l’educare e alcune delle giustificazioni cruciali che danno ragione del potere della giustizia.

In una stagione contemporanea, perlopiù “triste”, segnata da smarrimenti e scoramenti, con operatori e servizi alle prese con compiti e responsabilità percepiti come “sempre più improbabili e, al limite, impossibili”, in cui le spinte trasformatrici e riformatrici degli ultimi decenni del secolo scorso (a cui pure sono appartenuti l’opera e il pensiero di Piero Bertolini), appaiono sbiadirsi e tracimare in un inarrestabile esaurimento, ci si scopre sempre più in imbarazzo, impreparati, in difficoltà.

Nella curvatura del “difficile”, forse, proprio il lavoro dell’educare, nel lavoro della giustizia, può impegnarsi a costruire soluzioni ardite ed esigenti, in grado di rimettere al centro del servizio pubblico la “cura” degli uni per gli altri, anche e soprattutto quando gli “altri” sono più difficili e più in difficoltà. È in questo frangente che torna a far capolino quel senso dell’educare che trascende ogni apprendimento particolare, per intestarsi il compito irrimediabilmente più difficile: far accadere la crescita e rendere la vita migliore per ciascuno e per gli uni con gli altri. In questo senso, il lavoro dell’educare e il lavoro della giustizia hanno lunghi tratti di cammino da fare insieme.

La riflessione pedagogica può continuare a dare un contributo prezioso in questi contesti in cui la difficoltà si fa più stringente e acutizzata, sia nel rimotivare e rifondare scelte interne ai contesti penitenziari sia nell’ampliare la maglia dell’interventi educativi al di fuori, nella/e comunità, nei percorsi alternativi e di messa alla prova, nel tessuto sociale sotto forma di prevenzione del disagio e della povertà educativa.

Va, inoltre, incentivato il lavoro formativo di quanti operano nel campo della giustizia, attraverso percorsi congiunti e non settoriali, creando spazi non solo di mero apprendimento e di crescita delle competenze, ma luoghi di confronto, di incontro e contaminazione di prospettive e linguaggi per maturare direzioni di senso comuni e condivise, in contesti di reciproco ascolto e di valorizzazione dei saperi, senza preclusioni e pregiudizi: “ad armi pari”, come amava dire Bertolini. In tal senso non ci si può sottrarre dal fornire contributi e letture prettamente pedagogiche delle scelte giuridiche e legislative che incidono fortemente nelle strutture e nei sistemi organizzativi della giustizia.

Infine tutte le figure che svolgono in modo più o meno esplicito il lavoro educativo nella giustizia necessitano fortemente di forme di supporto e accompagnamento: la supervisione pedagogica, il coordinamento delle aree, i tavoli di concertazione (Mancaniello, 2017) devono essere dei presidi stabili dove sviluppare riflessività sull’agire, lasciar emergere le matasse complesse del contatto con la difficoltà, stenderle, sciogliere i nodi dei vissuti e delle implicazioni inevitabili che ciascuna persona porta con sé, far abitare le domande di senso che più o meno prepotentemente ed esplicitamente attanagliano chi entra in contatto con i percorsi spesso tortuosi della giustizia.

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  1. Il testo sarà ripreso successivamente da Piero Bertolini e Letizia Caronia e uscirà nel 1995 edito da La Nuova Italia col titolo: Ragazzi difficili. Pedagogia interpretativa e linee di intervento. Nel 2016 questo testo, ormai considerato un “classico” della letteratura pedagogica, viene rieditato da FrancoAngeli, a cura di P. Barone e C. Palmieri.↩︎

  2. Al 31 dicembre 2023, risultano presenti in Italia 23.226 minori stranieri non accompagnati. Il dato si conferma in crescita rispetto ai periodi precedenti: i MSNA presenti a fine 2023 sono 2.300 minori in più, rispetto a quelli presenti al 30 giugno 2023 e 3mila unità in più rispetto alle presenze del 31 dicembre 2022. I minori stranieri non accompagnati presenti al 31 dicembre 2023 sono in prevalenza di genere maschile (88,4%). Le minori di genere femminile sono 2.684 e rappresentano l’11,6% del totale.↩︎

  3. Antigone. Diciannovesimo rapporto sulle condizioni di detenzione dei minori al 15 marzo 2023. https://www.rapportoantigone.it/diciannovesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/minori/↩︎

  4. Antigone. Diciannovesimo rapporto sulle condizioni di detenzione dei minori al 15 marzo 2023. https://www.rapportoantigone.it/diciannovesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/minori/↩︎

  5. Bertolini fa riferimento a giovani che potevano aver vissuto la migrazione interna dal sud al nord Italia e che comunque si ritrovavano in un contesto difficile, dove rischiavano di patire forme di disuguaglianza e di emarginazione (Bertolini, 1968, pp. 19-20). Si veda anche Bertolini, 1964, pp. 34-51.↩︎

  6. Nel rapporto Antigone viene accennato anche al fenomeno della “maranza”: “termine di recente introduzione usato, come spiega l’Accademia della Crusca, ‘per identificare un certo tipo di ragazzi (meno frequentemente ragazze) accomunati dagli stessi stili d’abbigliamento (ad es. abiti griffati, perlopiù contraffatti), gli stessi gusti musicali (come la trap), e un linguaggio e un atteggiamento talvolta grezzi o volgari’. Questi elementi possono e devono essere tenuti in considerazione, ma nell’ambito di una valutazione di più ampio respiro, che indaghi il disagio giovanile guardando alle condizioni familiari, economiche e sociali dei giovanissimi che entrano nei circuiti penali”. Antigone. Diciannovesimo rapporto sulle condizioni di detenzione dei minori al 15 marzo 2023. https://www.rapportoantigone.it/diciannovesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/minori/↩︎

  7. Antigone. Diciannovesimo rapporto sulle condizioni di detenzione dei minori al 15 marzo 2023. https://www.rapportoantigone.it/diciannovesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/minori/↩︎

  8. Ibidem.↩︎

  9. Lo stesso Bertolini chiarirà nel lavoro successivo – Ragazzi difficili – che la scelta del comportamento sociale esprime una difficoltà più profonda della costruzione di sé e un modo per soddisfare – in modo distorto – bisogni propri della fase adolescenziale: partecipazione, indipendenza, sicurezza, autostima, popolarità.↩︎

  10. Sottolinea Bertolini come non esistano cause esclusive che caratterizzano le difficoltà di questi ragazzi, ma sempre delle “con-cause” (Ibidem, p. 18).↩︎

  11. Antigone. Diciannovesimo rapporto sulle condizioni di detenzione dei minori al 15 marzo 2023. https://www.rapportoantigone.it/diciannovesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/minori/↩︎

  12. “Per metodologia dell’educazione si deve intendere l’elaborazione critica di un complesso organizzato di mezzi educativi rigorosamente specificato nelle sue articolazioni strutturali…” (Massa, 2003, p.73), ovvero, “l’insieme delle scelte specifiche che un operatore compie (…) che tengono conto della situazione concreta […] e dello stile personale con cui egli mette in atto la sua professionalità (Bertolini & Caronia, 2005, p. 236).↩︎

  13. Ser mais, parafrasando Paulo Freire (Freire, 2004, p. 17)↩︎

  14. Una cosa difficile… come “liberare gli schiavi che si sentono liberi” (Rodari, 1979, p. 31)↩︎

  15. In proposito si rinvia al saggio di Umberto Curi (2019).↩︎

  16. I riferimenti normativi coprono soprattutto l’arco che va dal DPR 448/88 fino al D.Lgs. 2/10/2018, n. 121.↩︎

  17. “Le critiche, o la paura di essere puniti possono trattenerci dal compiere il male, ma non ci inducono a desiderare di fare il bene” (Bettelheim, 1987, p. 148).↩︎

  18. Il ragazzo che ha a che fare, a vario titolo, con la giustizia si trova indubbiamente in una situazione di “difficoltà” del tutto peculiare: aldilà del tipo di risposta che l’apparato giudiziario stabilisce nei suoi confronti, il solo fatto di incorrere nell’arresto e di attraversare l’iter è che questo comporta costituiscono esperienze cui è socialmente attribuito un significato profondamente degradante (Bertolini & Caronia, 2015, p. 42). In questi casi l’educatore deve far fronte non solo ad una sedimentazione di vissuti e di abitudini dipendente da pregresse condizioni sociali, psicologiche e informative ma anche alla ricaduta sul ragazzo della drammatica esperienza dell’arresto e della carcerazione (Bertolini & Caronia, 2015, p. 119)↩︎

  19. A proposito degli adattamenti costringenti Clemmer ricorre alla definizione del fenomeno della “prigionizzazione” (Clemmer, 2004, p. 211)↩︎

  20. Adriana Faranda, ex-terrorista delle Brigate rosse, che attivamente partecipò al piano di rapimento e uccisione di Aldo Moro, in più occasioni ha confessato: “il carcere è stato quasi una liberazione” [https://www.ilgiorno.it/bergamo/cronaca/adriana-faranda-aldo-moro-9ddc4e2f].↩︎

  21. Il passaggio a nuove forme di vita quotidiana costituisce un evidente momento di discontinuità con il passato. Da un punto di vista pedagogico è necessario cogliere utilizzare il valore simbolico di questa innovazione fattuale. L’allontanamento dal consueto, il ritrovarsi in nuove forme di organizzazione spaziale, temporale o anche solo relazionale della propria esistenza quotidiana possono essere assunti come figure simboliche di un distanziamento dal passato. Le trasformazioni dovrebbero essere presentate al ragazzo non come costrizioni gratuite ma, fin dall’inizio, come situazioni dotate di un preciso significato, quello di essere delle soglie verso un nuovo universo di relazioni possibili tra sé e il mondo (Bertolini & Caronia, 2015, p. 117).↩︎

  22. Solo per citare il dispositivo normativo più recente, così l’art. 2 del D.leg. 121/2018: L’esecuzione della pena detentiva e delle misure penali di comunità deve favorire i programmi di giustizia riparativa di cui al decreto legislativo attuativo della legge 27 settembre 2021, n. 134. Tende altresì a favorire la responsabilizzazione, l’educazione e il pieno sviluppo psico-fisico del minorenne, la preparazione alla vita libera, l’inclusione sociale e a prevenire la commissione di ulteriori reati, anche mediante il ricorso ai percorsi di istruzione, di formazione professionale, di istruzione e formazione professionale, di educazione alla cittadinanza attiva e responsabile, e ad attività di utilità sociale, culturali, sportive e di tempo libero.↩︎

  23. In ambito penitenziario si parla più frequentemente di “trattamento” per indicare la serie di pratiche progettate e scelte per/con i soggetti difficili allo scopo rieducativo e reintegrativo in comunità. Ad esso preferiamo il termine “cura” per ampliare il significato in merito anche alla cornice pedagogica che tiene insieme dimensione teoretica e dimensione prassica. Cfr. Mortari, 2006; Lizzola, 2018; Palmieri, 2006.↩︎

  24. “Poiché essere personalità è un continuo farsi, mai potendosi ritenere concluso il processo di soggettivizzazione e di consapevolizzazione, appare necessario indicare un limite, ovviamente minimo, sia per qualità sia per quantità, entro il quale il soggetto possa essere considerato una persona. Tale limite in linguaggio pedagogico rappresenterà il termine dell’età evolutiva oltre il quale l’individuo potrà realizzarsi bene o male, meglio o peggio, ma sarà in ogni caso giudicato un adulto. (…) tale limite debba ritenersi valido quando si realizzano due condizioni fondamentali: la prima, che tutte le varie disposizioni corporali e psico-affettive del soggetto abbiano trovato una completa estrinsecazione e che pertanto quest’ultimo sia in grado di esercitare tutte le facoltà sensoriali e intellettuali; la seconda, che lo stesso soggetto abbia saputo raggiungere la capacità di usare consapevolmente quelle facoltà e abbia raggiunto un sufficiente grado di autodeterminazione specie in relazione alla vita sociale” (Bertolini, 1968, p. 64).↩︎

  25. Ci piace notare come l’Autore utilizza un termine che è propriamente usato nel processo della “nascita”, la dilatazione di un tessuto grazie al quale poter venire al mondo: si tratta, evidentemente, qui di una rinascita, di un ingresso rinnovato nella comunità, attraverso movimenti anche irregolari, fatti di contrazioni e di aperture necessarie.↩︎

  26. “Pensiamo che l’autentica opera rieducativa debba fondarsi piuttosto su uno sforzo di dilatazione del campo d’esperienza esistenziale del ragazzo difficile, vuoi da un punto di vista quantitativo vuoi da uno qualitativa, nella convinzione che solo così possa essere messo in grado di rivedere liberamente il proprio orientamento personale o di conquistarselo al di fuori di imposizioni esteriori e quindi spiritualmente non valide” (Bertolini, 1968, pp. 141-142)↩︎

  27. Ricordiamo a tal proposito che Piero Bertolini fu uno degli antesignani di proposte educative quali uscite in montagna, campeggi nei boschi, ecc… la cui cura fu molto probabilmente ereditata dalle sue esperienze nello scoutismo.↩︎

  28. Precisa l’Autore a tal proposito denotando tutta la sua attenzione fortemente radicata nella realtà: “non si creda che si voglia insistere su una forma di pedagogia «dagli occhi bendati», una pedagogia cioè che si forzi di nascondere all’educando gli aspetti negativi della vita: essa risulterebbe in realtà, oltrechè assurda in quanto lascerebbe il ragazzo sprovvisto di fronte alla complessità umana, impossibile, rivolgendosi a soggetti che hanno già direttamente sperimentato il male, il dolore, il brutto, il negativo…” (Bertolini, 1968, p. 147).↩︎

  29. Per approfondimenti si veda AA.VV. (2023).↩︎