Ci sono libri che si leggono tutto d’un fiato e altri che devi gustare lentamente. Il volume di Ivo Lizzola appartiene alla seconda categoria: fin dal titolo e già nella premessa si dichiara l’esigenza di affrontare il tema complesso dell’educazione nel tempo presente mediante l’immagine del viaggio (in tutte le sue declinazioni di cammino, esodo, nomadismo, attendamento, soglia); questo aspetto si ritrova anche nella scrittura, che si fa, man mano che si legge, sempre più errante. Per questo motivo, talvolta è necessario fermarsi, sostare nei pensieri, fare un passo indietro, spingersi coraggiosamente avanti. In ogni caso, mai ci si sente soli, si ha sempre la percezione di un accompagnamento accorto e non invadente.
In tempo d’esodo è una lettura coinvolgente, tuttavia difficile da recensire, perché, come afferma lo stesso autore, ci si può affidare soltanto ad un “sapere del camminare”, che non procede per evidenze e verità assolute, ma si costruisce tra metodo ed esperienza, guidati dalla lettura di quanti hanno già percorso sentieri irti e poco battuti: tra gli altri, Maria Zambrano, Simone Weil, Julia Kristeva.
È un libro sul tempo “del disorientamento, dell’incertezza, del timore” (p. 7), che sta attraversando tutta l’umanità e che si manifesta con i tratti del conflitto, delle difficili relazioni tra diversi, di mancati incontri intergenerazionali. Una condizione che espone e confonde, perché “nell’estrema vicinanza la diversità ci prova” (p. 8). Siamo insieme e separati.
Eppure, se li si riesce a cogliere, “ci sono [anche] imprevisti respiri, e sospensioni meravigliate, c’è l’amore, e ciò che resta nel cuore (non solo nella mente); e c’è il gioco di squadra e la bellezza delle intese. C’è il sogno di ‘pellegrini erranti’” (p. 31). Il cammino può regalare sprazzi di meraviglia, stupendosi “per come la vita cerchi vita” (p. 9).
Per questo motivo, se il lettore è portato, come nel mio caso, a trovare una narrazione più ampia che organizzi il libro che sta leggendo, allora i suoi molteplici fili, a mio avviso, possono essere legati insieme dall’idea dell’amore. Questo è un libro sull’amore pedagogico e educativo, sulla sua generatività, anche se in molte forme diverse (personale, comunitaria, politica), e sulla sua mancanza. Il libro è diviso in tre parti e in ognuna di esse Lizzola esamina le relazioni, i legami e la socialità, la convivenza negli spazi educativi come la città, la scuola, le associazioni e la coabitazione in una realtà globale, ma rimane forte il richiamo a tenere intrecciati l’amore del sapere con il sapere dell’amore (p. 121). Quell’amore che “è una risposta possibile a un vero incontro di individualità essenziali” (De Monticelli, 2003, p. 175).
Nella prima parte del volume si affronta la sfida di trovare nuovi cammini e nuovi incontri nel tempo d’esodo, quello in cui si percepisce la rottura con un ordine definito e lo spaesamento nei confronti di ciò che ancora non si conosce e nemmeno si riesce ad immaginare. Se da un lato, avanza la paura e il desiderio di arretrare, di aggrapparsi al mito del passato glorioso, di difendersi dall’esposizione a ciò che è diverso, perimetrandosi ed alzando mura difensive (sia fisiche che mentali o simboliche), d’altro canto, il tempo in uscita è anche offerta di novità, opportunità per ripensare il significato e il senso di questo nostro essere posti l’uno accanto all’altro, di questa necessaria costruzione di vicinanze, di là dell’elemento fisico e geografico.
L’altro interpella, sollecita, preme. “Non possiamo più nascondercelo. La questione della verità, del rapporto con la vita, del rapporto tra popoli e tra generazioni si sta rivelando con forza penetrante al centro del nostro esistere e della vita comune […] Rischiamo di perdere l’altro” (p. 24). Riecheggiano le parole di Emmanuel Mounier quando, nella crisi del passaggio d’epoca dei primi del Novecento, spingeva la persona a liberarsi da un’esistenza alienata, che è “la desolazione dell’uomo senza dimensione interiore, incapace di incontri” (1949, p. 95). Così, Lizzola propone un salto di coscienza, una capacità di attivazione personale per il bene comune, facendo rinascere e rigemmare prossimità (p. 28), legami e cure laddove nulla è più dato per scontato. Il dono entra nella grammatica delle relazioni solo se costantemente alimentato. La rivoluzione è possibile solo attraverso una conversione interiore (μετανοεῖτε, cambiate il cuore del vostro cuore), in cui si purificano i valori e si torna a nutrire reciprocamente la vita personale e quella sociale: “La persona esiste solo verso l’altro. […] Il Tu e quindi il Noi, precedono l’Io o per lo meno l’accompagnano” (Mounier, 1952, p. 34).
La seconda parte del volume, quindi, si apre con la proposta di “Tessere trame di vita comune”, parlando soprattutto agli educatori, chiamati in primo luogo ad animare la speranza attraverso la cura degli affidamenti, le vicinanze fraterne e l’accompagnamento verso visioni di orizzonti possibili (p. 63). La comunità non è perciò qualcosa di già dato, di costituito una volta per tutte, è un modo di relazionarsi, di stare con gli altri, come direbbe la poetessa Alda Merini, è avere la carne a contatto con la carne del mondo (ultimo verso della poesia Semplicità). Un mondo che abitiamo e che ci abita: questo scambio può soffocarci se non alimentiamo una continua riflessione tra la fedeltà all’esistente e la visione al futuro.
Nelle pagine centrali del testo, infatti, l’autore ci accompagna nei luoghi dell’educativo che il nostro tempo ha reso ancora più fragili dopo le fratture delle aumentate disuguaglianze e l’acuirsi dei conflitti: la periferia rivista come nuovo centro in cui provare a far incontrare la cura e la giustizia; la scuola come luogo di attendamenti in cui coltivare la domanda e curare il futuro dei più giovani; la disabilità come luogo di progettazione che osa e che scopre non solo il limite ma anche le risorse dell’umano e del territorio di vita; il carcere e la grande scommessa di forme inedite di riconciliazione e perdono. In tutte queste realtà educative emerge che “la danza tra forza e fragilità si gioca nell’incontro, nell’accoglienza, nelle pratiche, nelle strategie: ha luogo in ogni operatore, come in ogni persona coinvolta nell’azione di cura ed educativa, e in ogni riunione d’équipe, nei gruppi di progetto, come negli scambi tra chi opera, le famiglie e la rete di prossimità delle persone accolte” (p. 95).
Inoltre, sfidante è la proposta di mettere in comune le vulnerabilità personali e sociali, sperimentando esperienze di soglia, quali luoghi di incontro e riconciliazione reciproca dove “la comunità si genera continuamente e prende forma” (p. 102); sono esperienze di passaggio, ma anche di accompagnamento per anticipare nuovi modi di stare insieme, di ritrovarsi e di riconoscerci. Rifacendosi a Paul Ricoeur, infatti, “il riconoscimento è una struttura del sé riflettente sul movimento che porta la stima di sé verso la sollecitudine e questa verso la giustizia. Il riconoscimento introduce la diade e la pluralità nella costituzione stessa del sé” (1993, p. 407).
La terza parte del libro si sviluppa, infine, nella relazione tra generare e generazioni, inoltre, si offrono percorsi di conciliazione e di incontro educativo tra le età della vita, partendo dall’esserci, che è già un’attestazione di fiducia nella vita nascente. L’adulto è poi chiamato a impegnarsi nell’accompagnare i più giovani a non perdere il senso della meraviglia e dell’aperto che caratterizza chi ha accolto con fiducia una promessa di futuro: come esorta Maria Zambrano, tra le generazioni occorre riaprire la domanda meravigliata, quella che ci espone all’altro, che ci ri-guarda, ovvero che ricambia il nostro sguardo e in questo modo ci permette di trovarci nella nostra comune umanità in ricerca. Allo stesso tempo, il riguardo è una fonte di interesse vero, autentico, profondo, che si pone al confine tra la sensibilità, l’emotività e l’etica, capace di senso di giustizia e responsabilità per l’altro.
Per questo motivo, si propone di vegliare su alcuni elementi critici dell’educazione tra le generazioni: la violenza in relazione con la pace, costruendo spazi per ripulire il pensiero e promuovendo pratiche non-violente trasformative (Manara, 2003); la parola in rapporto con i tanti silenzi indifferenti e complici degli adulti che non riescono ad essere testimoni di una vita degna di essere vissuta, laddove le parole potrebbero invece diventare la casa in cui ritrovarsi e rendere possibile l’“immaginazione tra il visibile e l’invisibile” (p. 147) e divenire evento educativo per quanti non hanno o hanno perso la possibilità di esprimersi e affermarsi nella loro unicità e originalità; in ultimo, una riflessione sulla capacità di leadership e speranza, nella quale si rilegge la figura dell’educatore in relazione alla sua autorità generativa.
Il tempo d’esodo è quindi tempo per vivere slegami nei confronti di ciò che ci siamo abituati a considerare la normalità, ma è anche tempo per costruire nuovi radicamenti, è un momento che può essere generativo, seppur di una fecondità diversa: non è la stagione dei rami fioriti o dei frutti gustosi, ma la stagione della radice, “nella quale si entra e si rimane in penombra, però di questo c’è bisogno perché da lì si peschi altra linfa, con rilanci fecondi” (p. 163).
È in questo contesto che l’intuizione di Lizzola appare così significativa, poiché individua nella condizione esodica della post-modernità non soltanto il punto di rottura con il passato e la crisi del già costituito, ma trova nello snodo un possibile punto di rigemmazione. Uno spazio-compiti, un carcere, una scuola di periferia possono offrire, secondo l’autore, una prospettiva per valutare la possibilità di raggiungere quel senso di prossimità e di comunità che è oggi la sfida più urgente che tutti noi dobbiamo affrontare. Vengono alla mente le parole di un altro pedagogista che ha scritto di erranza educativa e ha vissuto la sua vita alla ricerca di spazi di incontro reciproco: Giuseppe Vico, il quale nella sua opera più biografica, Raccontami del filo d’erba, afferma che “l’educatore, come i profeti, prende le distanze, scompare, […] prima che sia raggiunta la terra promessa, ma lascia segni della sua testimonianza vissuta alla luce di ideali e di valori” (2011, p. 32). Così, chi resta “fa memoria, si sofferma e prende nutrimento per le altre avventure della vita”, rendendosi cosciente che l’educazione è sempre “una presa d’atto sul fatto che non c’è amore senza rinascita” (Ibidem).
Riferimenti bibliografici
De Monticelli, R. (2003). L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire. Milano: Garzanti.
Manara, F. (Ed.) (2003). La nonviolenza si impara. Bergamo: CELSB.
Mounier, E. (1952). Il personalismo, Milano: Garzanti. (Original work published 1946).
Mounier, E. (1949). Rivoluzione personalista e comunitaria. Milano: Edizioni di Comunità. (Original work published 1935).
Ricoeur, P. (1993). Sé come un altro. Milano: Jaca Book. (Original work published 1990).
Vico, G. (2011). Parlami del filo d’erba. Roma: Albatros.