1 Introduzione
Il modello di sviluppo neoliberista, basato sullo sfruttamento illimitato delle risorse umane e non umane, ci mette di fronte a sfide particolarmente salienti in relazione ai temi della transizione ecologica e sociale.1 A questo proposito, la sfida imposta da questo modello è sostenuta, sul piano politico, economico e sociale a livello globale, dall’Agenda 2030 sottoscritta il 25 settembre 2015 dai 193 Paesi membri delle Nazioni Unite e approvata dall’Assemblea Generale dell’ONU, finalizzata a promuovere uno sviluppo sostenibile. Tra i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals - SDGs) e i 169 traguardi enunciati viene fortemente sottolineata la dimensione valoriale legata alla tutela dei più importanti diritti umani2 e in grado di supportare, tra gli altri:
obiettivi e traguardi universali, trasformativi e incentrati sulle persone. […] nel raggiungere lo sviluppo sostenibile nelle sue tre dimensioni – economica, sociale e ambientale – in maniera equilibrata e interconnessa. […] proteggere i diritti umani e promuovere l’uguaglianza di genere e l’emancipazione delle donne e delle ragazze; di assicurare la salvaguardia duratura del pianeta e delle sue risorse naturali. (Immaginando) un mondo universalmente alfabetizzato. Un mondo con accesso equo e universale a un’educazione di qualità a tutti i livelli (ONU, 2015, p. 3).
Come messo in evidenza, tra le grandi azioni proposte, all’interno del documento viene sottolineata anche l’importanza del ruolo critico dell’educazione per lo sviluppo di società più eque e democratiche, segnalando gli ambiti nei quali intervenire per assicurare la sostenibilità economica, sociale e ambientale del modello di sviluppo della società occidentale.
In linea con questa riflessione, in questo contributo si vogliono prendere in considerazione i Goals 4 (un’istruzione di qualità, equa e inclusiva) e 5 (raggiungere la parità di genere) dell’Agenda 2030 con l’intento di problematizzare le questioni poste al centro di questi obiettivi. Sebbene questi ultimi siano tra loro interconnessi, tuttavia manca un chiaro riferimento ad un approccio sistemico che permetta di comprendere come il degrado ambientale, le disuguaglianze di genere, economiche e sociali e l’educazione rappresentino aspetti correlati di un’unica problematica: la non sostenibilità delle premesse e delle strutture alla base della società di cui facciamo parte (Bateson, 1972/1977, 1979/1984; Kopnina, 2020).
2 Mettere in discussione il modello dominante
L’orizzonte cui si vuole tendere con questa riflessione, è quello di riconsiderare il significato di “sviluppo sostenibile” all’interno di un paradigma ecologico – ovvero più orientato allo studio delle funzioni di relazione dei sistemi viventi e degli ambienti in cui essi vivono, che alla qualità economica di tali ambienti – capace di mettere in discussione il modello economico neoliberista ed abbracciare un modello di economia che sappia risignificare l’ecologia quale “modo di pensare le cose come interdipendenti, ma all’interno di una precisa gerarchia dove la buona salute dell’ambiente naturale costituisce la base biologica dell’esistenza di ogni forma di vita, compresa quella umana” (Cacciari, 2020, p. 132). La sostenibilità e lo sviluppo sostenibile sono spesso utilizzati in modo interscambiabile, nonostante le loro differenze concettuali. In riferimento alle definizioni dell’UNESCO (2015) la sostenibilità è meglio descritta come un obiettivo a lungo termine, come il raggiungimento di un mondo più sostenibile; mentre lo sviluppo sostenibile, come suggerisce il termine, si riferisce ai molti processi e percorsi per raggiungere lo sviluppo o il progresso, in modo sostenibile. In linea con questa riflessione, quello che si osserva è che i presupposti che sono alla base dell’Agenda 2030 sembrano sposarsi più con il modello neoliberista, orientato alla produzione di capitale, piuttosto che alla sua decostruzione o alla sua messa in discussione.3 Non solo, questo modello ha trovato terreno fertile anche nella cultura patriarcale (De Vita, 2022) contribuendo alla reiterazione di norme socio-culturali attraverso le quali le soggettività vengono costruite, “sfruttate” e regolate (quando non ignorate), favorendo la cristallizzazione di modelli di società fondati sulla produzione di disuguaglianze. In accordo con Bookchin,
la questione sociale della disuguaglianza e dell’oppressione va [dunque] al di là dello sfruttamento inteso in senso puramente economico e tocca le forme culturali del dominio presenti nella famiglia, tra le generazioni e i sessi, tra i gruppi di diversa etnia, in seno alle istituzioni politiche, sociali ed economiche, e cosa ancora più importante nel modo in cui percepiamo la realtà nel suo complesso, ivi compresa la natura e le forme di vita non umane (2021, pp. 42, 43).
In questo modo, di fatto, si continuano a riprodurre disuguaglianze, a moltiplicare povertà e insostenibilità – economica, sociale, culturale – e relegare la marginalità (hooks, 1984/2020) delle persone più vulnerabili (ovvero quelle a cui gli SDGs si rivolgono) verso confinamenti sempre più pericolosi e solitari. Di fronte a questo scenario, ci si domanda se non si stiano disattendendo le premesse, seppur nobili, alla base della sfida posta dall’ONU. La risposta secondo molti autori, e anche da parte di chi scrive, va proprio in questa direzione (Guattari & La Cecla, 2019; Cacciari, 2020).
3 I Goals 4 e 5 dell’Agenda 2030: lacune e ambivalenze
A partire dalle considerazioni appena offerte, in questo paragrafo si rifletterà attorno alle specificità dei Goals 4 e 5 dell’Agenda 2030 con l’intento di evidenziare alcuni elementi di contraddittorietà e “i chiari e gli scuri” che emergono dalla loro analisi. Il Goal 4 si propone di “fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti” (p. 17). Questo obiettivo si articola in una serie di punti che mirano a garantire ad ogni studentessa (bambina e ragazza) sia il completamento dell’educazione prescolare (primaria e secondaria), sia l’acquisizione di competenze specifiche (tecniche e professionali) in grado di promuovere lo sviluppo sostenibile tramite un’educazione che consideri vari aspetti, tra cui, stili di vita sostenibili, diritti umani, parità di genere, cultura pacifica e non violenta, cittadinanza globale, diversità culturali. Oltre a questo, viene fatto riferimento sia al potenziamento delle strutture e degli spazi dell’istruzione con l’obiettivo di corrispondere sempre meglio ai bisogni di tutte le persone, soprattutto quelle più vulnerabili; sia all’aumento del numero di insegnanti qualificati. Ciò che emerge, dunque, è che ciascun soggetto possa (e debba) essere messo nelle condizioni di poter acquisire sia un livello minimo di istruzione uguale per tutti, sia le competenze utili per promuovere uno sviluppo sostenibile. Tuttavia, alla base di queste premesse ci si domanda quale sia – o dovrebbe essere – l’obiettivo dell’istruzione in relazione al concetto di sviluppo sostenibile e se non sia necessario considerare questi obiettivi sociali in una forma più ampia. A tal proposito, Kopnina (2020) evidenzia che, quando lo sviluppo sostenibile è applicato al concetto di istruzione, spesso emergono contraddizioni. Infatti, buona parte della letteratura fa notare che le priorità dettate dalle istanze economiche e sociali vengono spesso insegnate a scapito di quelle ecologiche (Bonnett, 2007; Nocella, 2007; Fien, 2010; Kahn, 2010; Kopnina 2014a, 2014b, 2015a, 2015b, 2020), poiché i discorsi e le retoriche che ruotano attorno allo sviluppo sostenibile sono essenzialmente antropocentrici e incentrati sulla crescita economica che considera l’ambiente come un bene da possedere e sfruttare per soddisfare desideri e bisogni umani (Bonnet, 2007). Secondo questa logica, anche l’istruzione risponderebbe alle istanze del modello neoliberista che, come si è già fatto notare, sarebbe incapace di mettere in discussione sia i privilegi sia l’insostenibilità delle proprie premesse. Per comprendere tale problematica, non solo è possibile smascherare tali contraddizioni facendo riferimento alle istanze economiche ma, d’accordo con Bookchin (1989/2021), è importante riconsiderare le questioni sociali che spiegano le dinamiche di potere (comando/obbedienza) che regolano lo sviluppo sostenibile. Tali dinamiche, infatti, non hanno unicamente motivazioni economiche ma anche personali, sociali, storiche, politiche. Affermare questo, significa sottolineare non solo l’esigenza di una riforma sociale ma di una vera e propria ricostruzione radicale della società.
Seguendo questa linea interpretativa, il bisogno sociale di immaginare il cambiamento e le strade per perseguirlo attribuiscono all’educazione un preciso mandato di cittadinanza. In tal senso, immaginando l’educazione come un’opportunità per decostruire i paradigmi dominanti e decolonizzare il sapere (hooks, 2010/2023; Borghi, 2020), si potrebbero incoraggiare gli studenti “a diventare cittadini globali creativi e responsabili che riflettono criticamente sulle idee di sviluppo sostenibile e sui valori che ne sono alla base” (Kopnina, 2020, p. 3), senza che questi ultimi vengano letti e interpretati nei termini di una premessa indiscutibile.
Una riflessione critica simile a quella appena introdotta può essere declinata anche attorno ai principi del Goal 5, il quale si propone di “raggiungere l’uguaglianza di genere ed emancipare tutte le donne e le ragazze”. Tra gli obiettivi specifici, vengono descritti una serie di target che mirano a porre fine ad ogni tipo di discriminazione, violenza e abuso (fisica, sessuale, psicologica, economica etc.) nei confronti di donne e ragazze e a garantire un accesso universale alla salute sessuale e riproduttiva e ai diritti connessi in ambito riproduttivo. Non solo, riconoscendo uno spazio alla piena ed effettiva partecipazione femminile nei processi decisionali a tutti i livelli (in ambito politico, economico e della vita pubblica), così come la distribuzione ineguale del lavoro di cura cercando possibili risposte nelle politiche di welfare, viene reso evidente quanto l’oppressione delle donne sia caratterizzata da profonde disparità di potere rendendo tangibile, in questo modo, la matrice culturale e istituzionale della discriminazione verso le donne. Le soluzioni proposte nei 9 target mirano, dunque, a sostenere l’empowerment delle donne sia ad un livello micro (il piano individuale), sia ad un livello macro (il piano politico-istituzionale). Come messo in luce da Razavi (2016), nonostante la corposità della proposta e dello spazio che viene dato alla parità di genere come obiettivo a sé stante, su questo punto gli SDGs sono relativamente silenziosi sulle politiche necessarie per raggiungere gli obiettivi desiderati e i traguardi stabiliti nell’Agenda. Inoltre, seppur si faccia riferimento alla parità di genere, mettendo al centro la discriminazione delle donne e delle bambine, gli SDGs sono altrettanto vaghi e silenti sulla nozione di identità (di genere, sessuale etc.). Questo aspetto è particolarmente problematico poiché il costrutto di genere dovrebbe essere considerato al di fuori del tradizionale binarismo (maschile/femminile) basato sull’essenzialismo delle sue premesse. Infatti, se si considera la parità di genere, o meglio l’equità, come un orizzonte cui tendere, è doveroso fare riferimento alle nozioni di differenza e di identità, necessarie per ampliare lo spettro entro cui considerare le questioni relative al genere. In questo modo verrebbe considerata, anziché elusa, sia l’importanza della materialità dei corpi, sia della nozione di intersezionalità (Crenshaw, 1989), che consentirebbe, ad esempio, di enfatizzare e rendere evidente la presenza di multiple e interrelate forme di discriminazione. A questo proposito, nel documento non vi è alcuna menzione alla discriminazione vissuta delle persone appartenenti alla comunità LGBTQIA+, sebbene sia considerata l’importanza di garantire “un accesso universale ai servizi di assistenza sanitaria sessuale e riproduttiva (a tutti), inclusa la pianificazione familiare, l’informazione, l’educazione e l’integrazione della salute riproduttiva nelle strategie e nei programmi nazionali”4 (ONU, 2015, p. 16).
A chi ci si riferisce quando si vogliono garantire in maniera universale questi diritti? In che modo, poi, dovrebbe essere possibile implementare un’educazione di questo tipo se non si considerano e valorizzano le differenze di cui ogni persona è portatrice? Menzionare alcune soggettività a discapito di altre significa disconoscere ed escludere la complessità e la comprensione sistemica della realtà, con il rischio di evadere risposte importanti in merito all’opportunità di accesso ai principali servizi di tutela, salute e cura, quando le soggettività in campo rappresentano minoranze, ad esempio nel caso di donne e bambini migranti o di persone appartenenti alla comunità LGBTQIA+ (Fox, Griffin, & Pachankis 2020; Martorano & Prearo, 2020).
4 Verso un modello che decostruisce e connette: pensiero ecologico e cittadinanza intima
Partendo, dunque, dai focus dichiarati nel documento e dalle criticità appena evidenziate si è voluto far dialogare le dimensioni espresse in questi due obiettivi all’interno di un quadro più ampio e sistemico, capace di mettere in discussione le premesse del modello economico dominante, quello neoliberista, per orientarsi verso un orizzonte che veda nelle connessioni una zona in cui sostare e dalla quale ripartire. Infatti, la mancanza: a) di un approccio sistemico ed ecologico che tenga davvero in dialogo questi obiettivi – sociali e politici – riferiti all’educazione; b) di un riferimento alle nozioni di identità,5 differenza, intersezionalità; c) la scarsa puntualità di un linguaggio che, spesso, rimanda a un riduzionismo dei significati (es. parità di genere/istruzione) piuttosto che una valorizzazione delle differenze, porta la nostra riflessione a comprendere quali possibili framework possano sostenere e destrutturare i paradigmi che sostengono i presupposti dell’Agenda 2030 evidenziati. In altre parole, ci domandiamo: come può la riflessione pedagogica far luce su questi aspetti? Ovvero, come può contribuire a una comprensione sistemica della realtà, promuovendo al contempo un cambiamento di paradigma che amplifichi le voci delle persone ai margini? (Monroe, Plate, Oxarart, Bowers, & Chaves, 2019).
Possibili risposte ci vengono fornite sia dall’approccio sistemico-ecologico di Gregory Bateson (1977/1984), sia dal concetto di cittadinanza intima delineato da Ken Plummer (1995; 2001), così come dall’approccio intersezionale (hooks, 1984/2020; Crenshaw, 1989; Collins, 1990).
Il primo paradigma cui facciamo riferimento è quello del pensiero ecologico proposto da Gregory Bateson. La società occidentale - afferma l’autore - è impegnata in una descrizione della realtà che deriva da una serie di premesse epistemiche “obsolete” (a partire, ad esempio, dal dualismo cartesiano) che condizionano pensieri e azioni a livello individuale e strutturale. Fin dalla primissima infanzia, tali premesse entrano a far parte di un bagaglio strumentale attraverso cui osserviamo e conosciamo il mondo, allenando lo sguardo a esplorare la cosa in sé piuttosto che le relazioni tra le cose (il cosa piuttosto che il come). Per questo retaggio, di fronte a situazioni di crisi e di conflitto, la tendenza è quella di circoscrivere l’attenzione sul problema, ignorandone i confini, le sfumature, le maglie e le relazioni con il contesto. Tale concentrazione impedisce di considerare la totalità della mappa in cui il fenomeno è inserito, facendo perdere quello sguardo sistemico che potrebbe aiutare a non rimanere incagliati nelle maglie di una crisi e, soprattutto, a cristallizzare lo status quo, cercando di rispondere a quella crisi con le stesse logiche che l’hanno generata (es. rispondere alla crisi ecologica con le logiche del capitalismo).
In merito alla crisi ambientale, Bateson ammoniva la società occidentale, ricordando il legame indissolubile tra natura e cultura. Secondo l’autore, la natura non rappresenta qualcosa di diverso e di estraneo, o, peggio ancora, un semplice scenario che fa da sfondo al mondo degli umani; la natura è in noi e noi siamo parte della natura: in questo passaggio è inscritto il carico di responsabilità che ciascun abitante della terra deve assumersi, ancor più se in possesso di una tecnica progredita, affinché la terra e i suoi abitanti possano (soprav)vivere. E, benché il passaggio per attuare (“per rendere abituale”) un’altra maniera di pensare – propriamente quella ecologica – non sia facile, tuttavia si rende necessario ed urgente. A questo proposito, Bateson suggeriva che:
Quando si restringe la propria epistemologia e si agisce sulla base della premessa: “Ciò che interessa me sono io, o la mia organizzazione, o la mia specie”, si escludono dalla considerazione altri anelli della struttura: si decide di volersi sbarazzare dei sottoprodotti della vita umana e si decide che il lago Erie sarà un buon posto per scaricarveli; si dimentica però che il sistema ecomentale chiamato lago Erie è una parte del nostro più ampio sistema ecomentale e che se il lago Erie viene spinto alla follia, la sua follia viene incorporata nel più vasto sistema del nostro pensiero e della nostra esperienza (1972/1977, p. 572).
L’invito che suggeriva l’autore è quello di allargare il raggio dei nostri pensieri (e delle nostre azioni) fino a comprendere più anelli possibili della struttura organismo-più-ambiente. Infatti, nel rapporto tra esseri umani, non umani, ambiente e sviluppo tecnologico, altre dovrebbero essere le logiche che possono predominare; altra dovrebbe essere la possibilità di pensar-si, ossia, come ecosistemi in relazione più ampi e misteriosi di quanto le coscienze possano controllare e prevedere. Ed è chiaro che questo è un compito che spetta alla nostra specie.
Accanto alla cornice fornita da Bateson e al monito, richiesto proprio a noi esseri umani, di immaginare logiche relazionali ecosistemiche, si vuole ora introdurre il concetto di intimate citizenship (cittadinanza intima) proposto da Plummer (1995) con l’intento di dare spessore sia alla nozione di cittadinanza, sia a quella di intimità per comprendere come un certo tipo di diritti (civili, politici e sociali) siano stati concepiti a partire da una determinata idea di soggetto cui riferirsi (maschio, bianco, cisgenere, eterosessuale, abile) escludendo, di fatto, tutte le altre soggettività “non conformi”. Come suggerito da Costa (2005), la nozione di cittadinanza ha storicamente tracciato dei confini tra chi era considerato cittadino di uno Stato e chi no e, di conseguenza, tra chi poteva godere di determinati diritti e chi no. Questa divisione tra un “dentro” e un “fuori” non solo indica lo spazio geografico entro cui quei confini verrebbero definiti, ma anche un’idea specifica di cittadino alla quale aderire, normata da valori costruiti e condivisi a livello sociale e culturale (Gusmano & Selmi, 2023). In relazione a ciò e come messo in luce dallo stesso Plummer (2003), questo processo di definizione dei confini si è portato con sé elementi di esclusione sulla base di determinate caratteristiche identitarie – quali, ad esempio, l’appartenenza di classe, di genere, etnica, religiosa, l’identità sessuale e determinate forme di disabilità. Queste caratteristiche, che si strutturano come degli assi di appartenenza, intersecandosi gerarchicamente tra di loro possono dare luogo a forme di disuguaglianza o accesso differenziato proprio al godimento di determinati diritti di cittadinanza.6 Non stupisce, dunque, che la ricerca sociale abbia cercato modalità differenti per estendere o “aggettivare” il concetto di cittadinanza con l’obiettivo di arginare le questioni legate all’esclusione di determinate categorie di persone dai più fondamentali diritti, quali quelli legati al riconoscimento dello status di cittadino (Grilli & Parisi, 2024).
Oltre al concetto di cittadinanza che, come si è mostrato, è stato costruito sulla base di una “presunta” universalità, vi è quello di intimità anch’esso costruito sulla base di un preciso modello di relazione cui fare riferimento, ovvero quello eterosessuale, spesso sancito dal vincolo matrimoniale e di tipo monogamico. In relazione a ciò e per immaginare spazi più ampi entro cui collocare l’intimità, Gusmano e Selmi – sulla scia della definizione della sociologa Lynn Jamienson (2011) – la concepiscono “sia come una stretta connessione tra le persone (definendo quindi la qualità della relazione) che come processo di costruzione di questa qualità” (2023, p. 20). Se è quindi la qualità della relazione ad essere presa in considerazione, proseguono le autrici, allora dovrebbe essere considerata come uno stato – materiale, affettivo, fisico e incarnato – che può essere presente o meno e, soprattutto, che si costruisce e si trasforma (ibidem). Questo “fare” le relazioni d’intimità lascia, dunque, alle persone più spazio e possibilità di negoziare le pratiche ad esse connesse, rendendole da un lato porose al cambiamento, e perciò trasformative, dall’altro mobilitando e mettendo al centro il corpo quale elemento materiale in grado di rendere evidente la dimensione incarnata dell’esperienza intima. A questo proposito, Plummer, rifacendosi a e ampliando il concetto di sexual citizenship7 (cittadinanza sessuale), cerca di risignificare il discorso intorno ai corpi e alle identità che lo incarnano, all’interno di una cornice più ampia che tiene insieme sia le questioni più strettamente individuali sia quelle globali (Scarcelli, 2020). Infatti, per Plummer la cittadinanza intima è un “concetto sensibilizzante che si propone di analizzare una pluralità di discorsi pubblici e di storie su come vivere la vita personale […] suggerendo modi appropriati di vivere la vita con gli altri e di favorire la civilizzazione delle relazioni” (2001, p. 238). In questo senso, la cittadinanza intima si configura come uno spazio che abbraccia l’intera sfera della vita delle persone e che si collega inevitabilmente con quella dei diritti. Come suggerito da Grilli e Parisi (2024), la cittadinanza intima:
richiama la dimensione politica della sfera privata, che è tanto più evidente nel contesto delle sessualità non normative, delle nuove forme della genitorialità, in parte connesse con l’affermarsi di pratiche riproduttive trasformate dalle tecnologie […]. Nell’idea di Plummer la CI identifica l’avanzare di ‘nuovi cittadini’ che affermano la loro presenza sulla sfera pubblica a partire dalle lotte per i diritti che nascono dalla sfera privata (p. 51).
Questa forma di intendere la cittadinanza permette di rivedere criticamente e riflettere sulla separazione storica tra sfera privata (o intima) e pubblica dell’esistenza delle persone in quanto verrebbe privilegiata una concezione di cittadinanza capace di supportare una visione delle “connessioni” piuttosto che delle “disgiunzioni”. Un terreno di ibridazione e rivendicazione entro cui le istanze della vita privata si fanno promotrici di un cambiamento capace di coinvolgere ed arrivare anche a quelle della vita pubblica, entro cui le relazioni, di qualsiasi natura esse siano, possano agire come zone di “frontiera per costruire spazi di appartenenza e prossimità” (ivi, p. 52).
Infine, la prospettiva intersezionale (Crenshaw, 1989, 1991; Collins, 1990) permette di considerare come talune caratteristiche ascritte, quali l’etnia, il genere, l’identità sessuale, la provenienza geografica, lo stato sociale, la religione, l’età, la disabilità etc., possano situarsi come fattori di svantaggio (o privilegio) a seconda di come questi assi identitari sono tra loro combinati dando vita a complesse gerarchie tali da avere un impatto nell’esperienza quotidiana delle persone. A questo proposito, la letteratura (hooks, 1984/2020; Choo & Ferree 2010; Cho, Crenshaw, & McCall, 2013; Collins, 2015) mette in evidenza come appartenere a determinate categorie sociali o esperire la compresenza di più assi di svantaggio, possa esporre le persone a forme di discriminazione e produrre processi di esclusione sociale e materiale, talvolta segnati da forme di violenza e abuso, più o meno evidenti. Questa prospettiva è particolarmente utile per leggere la complessità dell’esperienza umana (McCall, 2005) all’interno della quale i diversi piani dell’esperienza possono interagire tra loro innescando forme di disuguaglianza tali da favorire, o sfavorire, determinate posizioni rispetto ad altre (Bonvini & Demozzi, 2024).
5 Quali approcci possibili? La proposta dell’Educazione Sessuale Olistica (Comprehensive Sexuality Education)
In forma conclusiva, alla luce delle specificità dei riferimenti teorici appena considerati, si vuole provare a rivalutare le lacune emerse, e precedentemente messe in luce, all’interno dei Goals 4 e 5 con l’obiettivo di: a) riconoscere e decostruire i paradigmi che li sostengono; b) individuare il contributo della pedagogia al fine di ampliare la riflessione educativa, politica, ecologica attorno agli obiettivi di sviluppo sostenibile; c) individuare una possibile proposta operativa in grado di sostenere un approccio educativo di tipo sistemico in risposta alle lacune individuate nei due Goals considerati.
Per quanto riguarda i limiti degli SDGs, nel Goal 4 si è individuato il rischio che l’istruzione e i modelli educativi di riferimento facciano da cassa di risonanza a quelli economici, sociali e culturali dominanti, a scapito di proposte ecologiche capaci di mettere in discussione pratiche e posizionamenti neoliberali e in grado di dare senso alla dimensione relazionale tra le cose. Dall’altro lato, nel Goal 5, si è messa in evidenza l’esclusione del concetto di identità come veicolo di discriminazione ed esclusione delle differenze e dell’alterità in un’ottica intersezionale, venendo così meno alla comprensione di come i possibili assi di discriminazione (o privilegio) possano funzionare e condizionare le esperienze di ciascuna persona nella vita quotidiana.
Per individuare il contributo che la riflessione pedagogica può apportare e affinché possa cercare di colmare le lacune appena evidenziate, si rimanda agli autori presi in considerazione nelle righe precedenti. Infatti, secondo Bateson, se l’ecologia è la scienza della relazione, l’educazione dovrebbe mirare alla costruzione di dispositivi di pensiero in grado di dialogare con il mondo complesso delle connessioni, delle relazioni, dei legami di cui i soggetti fanno inestricabilmente parte, poiché “sviluppare un approccio ecologico significa superare non solo il principio della primarietà della logica del separare, ma anche quello del costruire gerarchie, perché in natura esse non esistono: ci sono solo reti dentro altre reti in continuo movimento” (Mortari, 2001, p. 38).
In questo modo, Bateson scommette sulla possibilità di formarci al “pensiero della relazione”, affinché ci aiuti a:
danzare le nostre interazioni quotidiane in forme meno degradanti, meno aggressive, meno distruttive. in forme maggiormente rispettose di noi stessi, degli altri, dei contesti sociali e naturali che abitiamo. Che ci consentano di riconoscere e coltivare la nostra creaturale sensibilità alla struttura che connette (Manghi, 2004, p. 71).
Oltre a ciò, tra gli ambiti su cui l’educazione è chiamata a schierarsi ed intervenire, di particolare interesse per il nostro discorso, risulta essere quello della cittadinanza – richiamata dalla specifica nozione delineata da Plummer – poiché crocevia di diritti individuali e collettivi, ma al contempo luogo in cui si giocano le principali disparità nonché forme di oppressione, violenza e abuso che, sempre di più, sono connesse agli effetti dei cambiamenti climatici (ad esempio, le migrazioni climatiche) (Bertolini, 2003; Tarozzi, 2015; Tarozzi & Torres, 2016).
A partire dai riferimenti teorici e dalle riflessioni fornite, si vuole proporre la Comprehensive Sexuality Education (CSE) (UNESCO, 2018) quale pratica educativa nonviolenta8 – pedagogicamente fondata – in grado di affrontare la complessità imposta dalle sfide delineate nel documento e dai propositi emersi nei Goal presi in considerazione (4 e 5). Come già ribadito, di fronte a una crisi sistemica possiamo tentare di rispondere con un approccio sistemico, che questo tipo di educazione sembra suggerire.
6 La CSE come strumento per promuovere cittadinanza, equità di genere e transizione ecologica
Da tempo, a livello internazionale, viene messa in evidenza l’importanza di inserire l’educazione sessuale, affettiva e di genere sia all’interno che all’esterno delle mura scolastiche. Sono molteplici, infatti, gli studi che suggeriscono come questo tipo di educazione sia un importante strumento sotto molti punti di vista. In primis, è utile per promuovere aspetti positivi legati al corpo, alla sessualità e più in generale volti a promuovere il benessere nelle persone, fin dalla prima infanzia, su più piani (emotivo, cognitivo, fisico) (Goldfarb & Lieberman, 2021). Successivamente, per la sua funzione di prevenzione contro le maggiori forme di violenza e abuso (Sosa-Rubi, Saavedra-Avendano, Piras, Van Buren, & Bautista-Arredondo, 2017; Burgio, 2020; López-Orozco, López-Caudana, & Ponce, 2022) anche nell’infanzia (Walsh, Zwi, Woolfenden, & Shlonsky, 2018); infine come dispositivo per scardinare visioni stereotipiche legate al genere e alla sessualità che se non decostruite contribuirebbero a rinforzare dinamiche e processi di esclusione e disuguaglianza in grado di rendere complesse e sofferte le esperienze di vita delle persone, in particolare di quelle più emarginate (Demozzi & Bonvini, 2024; Demozzi & Ghigi, 2024).
In relazione a ciò, nel 2018 l’UNESCO pubblica una seconda versione dell’International technical guidance on sexuality education (prima ediz. 2009) con l’obiettivo di aggiornare e ribadire l’importanza di promuovere delle linee guida sull’educazione sessuale inserendola all’interno di un quadro di diritti umani e uguaglianza di genere, con lo scopo di favorire un tipo di apprendimento più sistemico e strutturato riguardo alla sfera sessuale e relazionale delle persone in una forma positiva, volta, cioè, a considerare gli interessi delle persone giovani (e non solo) nel modo migliore possibile. Inoltre, sulla base di questi obiettivi, il documento fornisce una nuova definizione di educazione sessuale – la Comprehensive Sexuality Education (CSE) – che potremmo definire di tipo olistico poiché in grado di tenere insieme più dimensioni e livelli rispondendo ai presupposti di una pratica educativa di tipo sistemico, poiché concepita come:
un processo basato su un curriculum di insegnamento e apprendimento sugli aspetti cognitivi, emotivi, fisici e sociali della sessualità. [La CSE] mira a fornire a bambini e giovani le conoscenze, le competenze, gli atteggiamenti e i valori che li aiuteranno a: realizzare la propria salute, benessere e dignità; sviluppare relazioni sociali e sessuali rispettose; considerare come le proprie scelte influenzino il proprio benessere e quello degli altri; e comprendere e garantire la protezione dei propri diritti per tutta la vita (UNESCO, 2018, p. 16).
Quanto definito dall’Unesco offre la possibilità di far emergere la dimensione sistemico-ecologica che sta alla base della riflessione di questo contributo. Infatti, dichiarando in prima istanza il valore educativo di questa proposta viene messa al centro la possibilità di considerare questo approccio da una prospettiva critica, che consideri salienti i processi di (auto)determinazione e (auto)riflessività in relazione alla propria sessualità, per promuovere comunità (anche educanti) più eque. Come messo in luce da Ubbiali (2023), ogni proposta educativa dovrebbe farsi carico dell’idea che ogni scelta possa situarsi come la possibilità, offerta ad ogni persona, di dirigere i propri comportamenti (e anche i propri desideri) a partire dall’acquisizione di competenze relative ai propri comportamenti sessuali e/o alle relazioni interpersonali, in una modalità che non sia connotata, a prescindere, in maniera deterministica ma dettata da una capacità di agire (agency) a disposizione di tutti e tutte. In questa maniera, le pratiche relative alla CSE sarebbero inserite all’interno di una dimensione pedagogica della cura (Mortari, 2015) in grado di offrire quello spazio di promozione del progetto di vita valido per tutte le soggettività, specie per quelle più marginalizzate, in un’ottica capace di aprirsi alla valorizzazione delle differenze (Bonvini & Demozzi, 2024). In questo contesto, l’aspetto critico fondamentale della CSE che si vuole evidenziare riguarda la messa in discussione delle norme sociali e dei modelli predominanti in materia di sessualità ed educazione sessuale, con l’obiettivo di porre al centro le relazioni di potere e riflettere sulle disparità ad esse associate, in cui la corporeità può assumere un ruolo centrale (Jones, 2011).
Inoltre, si mira a promuovere una proposta educativa, rappresentata dalla CSE, capace di decostruire le strutture e i modelli del pensiero patriarcale e neoliberista.
D’altronde, sono proprio le questioni legate al genere, alla sessualità e al corpo ad essere intrinsecamente connesse ad altre, più ampie, di importanza sociale quali la parità di genere, i diritti delle persone LGBTQIA+ e l’empowerment di tutte e tutti (Demozzi & Bonvini, 2024, p. 86).
In questo modo e in virtù della complessità appena sottolineata, negli ultimi dieci anni e in momenti diversi, negli Stati membri si è cercato di riconsiderare il costrutto di intimità all’interno dell’arena della cittadinanza, al fine di promuovere nuovi modi di ‘fare’ e ‘stare’ nelle relazioni, sia con noi stessi che con gli altri. Inoltre, promuovendo, la problematizzazione delle relazioni di dominio e delle gerarchie che ancora supportano l’organizzazione sociale, la CSE genera i presupposti di un’educazione in grado di abbracciare le sfide della sostenibilità secondo una prospettiva sistemica e non antropocentrica.
7 Conclusioni
In sintesi, in questo articolo si è sostenuto che i Goals 4 e 5 dell’Agenda 2030 sono insufficienti e riescono a rispondere soltanto parzialmente alle sfide poste dalla crisi ecologica e sociale. Si è poi sottolineato che tale parzialità deriva dai paradigmi neoliberali che sostengono gli obiettivi in materia di istruzione, educazione e parità di genere. Si è suggerito che tale approccio impedisce di rispondere in maniera sistemica alle opportunità di accesso ai principali servizi di tutela, salute e cura, specialmente quando le soggettività coinvolte rappresentano minoranze. Questo mette in luce l’esigenza di riconsiderare le nozioni di identità ed educazione come punto di partenza fondamentale per interrogare l’Agenda 2030 e smascherarne limiti e lacune.
Tuttavia, questo suggerimento si scontra con diverse questioni. Innanzitutto, emerge l’esigenza di individuare un nuovo framework attraverso cui leggere e decostruire i paradigmi dominanti a sostegno degli obiettivi dell’agenda 2030. Per provare a rispondere a questa esigenza, riconoscendo il ruolo dell’educazione nella promozione della diversità e nella creazione di opportunità per tutti, si è affermato che una visione ecologicamente sensibile dovrebbe intrecciare le discussioni sulla cittadinanza e sull’ambiente con quelle sulle questioni di genere (Bateson, 1972/1979). In particolare, si è fatto riferimento ai concetti di cittadinanza intima e sessuale (Plummer, 2001; Gusmano & Selmi, 2023) per affrontare la complessità della sfida ecologica da un punto di vista sistemico e intersezionale.
Infine, a partire dai riferimenti teorici e dalle riflessioni fornite, si è voluto accogliere la sfida di individuare nuove traiettorie e strade pedagogiche che possano contribuire a una comprensione sistemica della realtà, promuovendo la Comprehensive Sexuality Education (CSE) (UNESCO, 2018) quale pratica educativa – pedagogicamente fondata – in grado di affrontare la complessità imposta dalle sfide delineate nel documento e dai propositi emersi nei Goals 4 e 5.
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Esclusivamente per ragioni di scorrevolezza, in questo testo, a volte, si è deciso di rinunciare all’uso contemporaneo del femminile e del maschile, e sempre dell’asterisco o della ə, nella consapevolezza, tuttavia, dell’importanza di un riconoscimento pubblico delle soggettività e delle esperienze femminili e non binarie. Il criterio che ha guidato la maggior parte delle scelte linguistiche è stata la volontà di cercare un equilibrio tra due necessità: la chiarezza, da un lato, e il fornire una rappresentazione che non escludesse, dall’altro.↩︎
Per tutelare i più basilari diritti umani, nel documento si sostiene con determinazione la volontà di: porre fine alla povertà e alla fame, assicurando a tutte le persone una piena realizzazione del proprio potenziale con dignità ed uguaglianza; a porre fine alle guerre promuovendo società pacifiche, libere dalla paura e dalla violenza; a proteggere il Pianeta dal degrado, attraverso modalità di consumo e produzione consapevoli, in grado di gestire le risorse naturali in maniera sostenibile e adottando misure urgenti riguardo il cambiamento climatico, in grado di soddisfare i bisogni delle generazioni presenti e di quelle future (ONU, 2015).↩︎
A questo proposito, nel punto 27 (p. 8) dell’Agenda viene dichiarato che si cercherà di “costruire importanti fondamenta economiche” per tutti i Paesi coinvolti, attraverso “una crescita economica sostenibile, duratura ed inclusiva” (ibidem) che si argomenta essere essenziale per la prosperità. Tuttavia, le soluzioni proposte per raggiungere questo obiettivo – condividere la ricchezza e affrontare la disparità di reddito; lavorare per costruire economie dinamiche, sostenibili, innovative e incentrate sulle persone; promuovere in particolare l’assunzione di giovani impiegati; legittimare la posizione economica delle donne; tendere affinché il lavoro sia decoroso per tutti – eludono la consapevolezza che il modello dominante entro cui si muovono, quello neoliberista, sia in netta contraddizione con questi desiderata.↩︎
Si fa notare che il riferimento è all’interno del Goal 3, nello specifico al 3.7, relativo alla garanzia di “assicurare la salute e il benessere per tutti e per tutte le età” (p. 16). Il fatto che il riferimento all’importanza di considerare la salute sessuale e riproduttiva un punto saliente – tale da favorire anche la sua dimensione educativa – all’interno di un obiettivo che ha un focus prevalentemente sanitario, suggerisce un approccio di base orientato alla prevenzione (ad esempio delle infezioni sessualmente trasmissibili e delle gravidanze indesiderate) piuttosto che alla promozione del benessere sessuale. A questo proposito, molta letteratura così come molti documenti internazionali (Goldfarb & Lieberman, 2020; UNESCO, 2018) sono concordi nel ritenere efficace un approccio alla sessualità di tipo “olistico” ossia centrato su una molteplicità di aspetti che abbracciano più ambiti della vita che comprendono: il sesso, le identità e i ruoli di genere, l’orientamento sessuale, l’erotismo, il piacere, l’intimità, la riproduzione, la salute sessuale etc. (UNESCO, 2018). Per la consultazione dell’intero documento, si veda “The Sustainable Development Goals Report 2019”. Consultato il 23 luglio 2024 https://unstats.un.org/sdgs/report/2019/The-Sustainable-Development-Goals-Report-2019.pdf 23/07/2024.↩︎
Le ricerche e le riflessioni teoriche della pedagogia rivolgono da sempre un’attenzione particolare ai temi dell’identità, con una particolare attenzione ai concetti che la argomentano nei termini di differenza e pluralità (hooks 1984/2020; Dallari, 1990; Giusti, 1996; Gee, 2001; Genovese, 2003; Burgio 2015).↩︎
Si fa notare che sul concetto di cittadinanza, anche Bertolini (2003) metteva in luce i rischi che questo costrutto aveva in relazione ai processi di globalizzazione. Nello specifico, l’autore suggeriva che non fosse possibile “evitare di misurarsi con i rischi della globalizzazione nel bene e nel male. […] Nel male, in quanto, […], la maggior parte degli abitanti del pianeta, sentendosi esclusa da un’autentica cittadinanza planetaria o avendo tutti i motivi per giustificare la convinzione che si tratti di un’ulteriore ‘trappola’ messa a punto da chi detiene il potere autentico (ovviamente economico), può essere spinta – come di fatto sta avvenendo sempre più spesso – a chiudersi in un ‘piccolo’ sempre più piccolo, fondato sui diritti primari del sangue e del territorio (p. 141).↩︎
Il concetto di cittadinanza intima ha origine da quello di cittadinanza sessuale o personale che ha avuto una sua cornice teorica, come sottolineato dallo stesso Plummer dallo sviluppo in area femminista di teorizzazioni su tale costrutto (Evans, 1993; Weeks, 1998; Bell & Binnie 2000). Questa riflessione sui diritti di cittadinanza legati al tema della sessualità, va rintracciata sulla scorta di quei movimenti sociali che portarono all’emersione di precise istanze relative alle politiche sessuali che rivendicavano una maggiore visibilità e giustizia sociale verso queste tematiche (Scarcelli, 2020). Come messo in luce da Richardson (1998) fino alla fine degli anni Novanta poca importanza era stata data al concetto di cittadinanza in relazione a quello di genere e sessualità, invisibilizzando ed escludendo, in questo modo, una parte di cittadini dalle politiche e da precisi diritti di cittadinanza.↩︎
Si fa notare che l’uso del termine nonviolenza si riferisce ai presupposti portati avanti dai movimenti nonviolenti che preferiscono usare questa declinazione del termine, non tanto per sottolineare l’assenza di violenza quanto, piuttosto, per riferirsi ad un preciso orientamento filosofico e politico dedicato a questo ambito di studi. Anche in campo pedagogico sono maturate questo tipo di riflessioni portate avanti, per esempio, da Danilo Dolci (1973) e Aldo Capitini (1962).↩︎