1 Introduzione
Siamo tutti familiari con un certo modo di pensare al nesso fra meraviglia, infanzia e filosofia: la meraviglia, come sostenevano Platone e Aristotele,1 è all’origine della filosofia; i bambini e le bambine, diversamente dagli adulti, sono più esposti alla meraviglia; di conseguenza, l’infanzia è anche il tempo privilegiato per provare quel tipo di meraviglia che è connaturato alla filosofia.
Per sapere se vi è del vero in questo modo di pensare bisogna perlomeno chiedersi in che cosa consista la meraviglia, se i bambini siano davvero più esposti ad essa rispetto agli adulti, e se e in che senso la meraviglia possa dirsi all’origine del filosofare. Senza pretendere di voler qui rispondere in maniera esaustiva a tutte e tre le domande, vorrei tuttavia articolare e in parte difendere una teoria che risponde a queste tre domande (soffermandomi in particolar modo sulla prima e la seconda), e fornire in tal modo un’interpretazione del tanto celebrato, ma raramente rigorosamente investigato,2 nesso fra meraviglia, infanzia e filosofia.
La struttura dell’articolo è la seguente. Nel §2 discuto un resoconto di quel tipo particolare di sorpresa che proviamo quando le nostre aspettative sono frustrate. Sostengo che sebbene sia lecito pensare che i bambini siano effettivamente più predisposti rispetto agli adulti a provare sorpresa di fronte alle cose che li circonda, questo tipo di sorpresa va distinta dalla meraviglia, e dunque non ci aiuta a comprendere in profondità il nesso che abbiamo la tendenza a stabilire fra infanzia e meraviglia. Nei paragrafi §3 e §4 prendo in esame la teoria di Wittgenstein sull’origine della meraviglia per offrire un resoconto del tipo di meraviglia che verosimilmente contraddistingue l’esperienza dell’infanzia. Secondo tale concezione, nella meraviglia le cose sono colte nella loro nuda e miracolosa esistenza, come qualcosa che, in ultimo, è in linea di principio inspiegabile e, perciò, degno di stupore e meraviglia. Nel §5 noto come per Heidegger, fra gli altri, proprio la meraviglia di fronte al mistero dell’esistenza sia il pathos privilegiato del filosofare. Nel §6 sostengo, sulla scia di Heidegger, ma anche di Sartre, Scheler, Hadot, Coleridge e Pessoa, che lo stesso miracolo – l’esistenza di ciò che esiste – può sia essere vissuto nel pathos della meraviglia, sia secondo tonalità emotive a prima vista più problematiche, quali l’angoscia, la nausea, il senso di assurdo e il terrore. La menzione degli aspetti più “cupi” dello stupore di fronte all’esistenza consente di problematizzare il nesso tra infanzia, meraviglia e filosofia, e suggerisce profonde questioni filosofiche e pedagogiche sulle quali mi soffermo brevemente nella conclusione.
2 Sorpresa e infanzia
Per introdurci all’indagine circa il nesso fra meraviglia e infanzia è utile partire da una breve disamina della sorpresa. Quest’ultima, infatti, sembra essere connaturata all’emozione della meraviglia. Quando proviamo meraviglia dinanzi al cielo stellato possiamo anche dire che c’è qualcosa nel cielo stellato che ci sorprende o, ugualmente, che ci stupisce. La sorpresa e lo stupore, poi, si colorano di quella tonalità emotiva particolare che eventualmente chiamiamo meraviglia. Se è vero che la sorpresa gioca un ruolo essenziale nella meraviglia,3 allora forse analizzando la natura della sorpresa potremo imparare qualcosa sul presunto nesso privilegiato fra meraviglia (e filosofia) e infanzia.
In che cosa consiste, dunque, la sorpresa? Come e perché proviamo sorpresa? Senza pretendere qui di coprire tutte le voci del dibattito più o meno recente sul fenomeno della sorpresa,4 possiamo prendere in considerazione una delle teorie più note e discusse: la teoria, cioè, che intende la sorpresa come reazione ad un evento che è giudicato essere difforme dalle nostre aspettative.
Questa teoria è supportata da casi del tutto ordinari come i seguenti. Esco di casa e vado in tutta calma a prendere l’autobus. Al mio arrivo alla fermata l’autobus è già lì, parcheggiato accanto alla banchina, ben due minuti prima dell’orario previsto per la sua partenza! Sono sorpreso! È chiaro che sono sorpreso perché non mi aspettavo di trovarlo già lì. E non mi aspettavo ciò perché ho la credenza, formatasi dopo ripetute esperienze, che l’autobus sia sempre in ritardo. La sorpresa nasce dunque nel momento in cui credo che le cose stiano in un modo difforme dalle mie aspettative. Nelle parole che usa Dennett per riassumere il cuore di questa concezione della sorpresa: “La sorpresa è possibile solo quando contraddice le nostre credenze” (Dennett, 2001, p. 982, traduzione mia). Con le seguenti parole, Davidson articola, in un passo spesso citato, la teoria della sorpresa che emerge quando si prendono casi come quello appena descritto come casi paradigmatici di sorpresa.
Supponiamo che io creda di avere una moneta in tasca. Svuoto la tasca e non trovo nessuna moneta. Sono sorpreso. È chiaro che non potrei essere sorpreso […] se non avessi delle credenze. […] Ma la sorpresa comporta un ulteriore passo. Non basta che io creda che ci sia una moneta in tasca e che, dopo averla svuotata, non abbia più questa convinzione. La sorpresa richiede che io sia consapevole di un contrasto tra ciò che credevo e ciò che vengo a credere. Tale consapevolezza, tuttavia, è una credenza su una credenza: se sono sorpreso, allora, tra le altre cose, arrivo a credere che la mia credenza originaria fosse falsa (Davidson 1982, p. 326, traduzione mia).
Dunque, secondo la teoria appena abbozzata,5 sono almeno tre le condizioni necessarie affinché si provi sorpresa: bisogna credere che il mondo sia in un certo modo (credo che ci siano delle monete nella mia tasca); bisogna poi credere che le cose stiano diversamente (credo che, in realtà, non ci siano affatto delle monete nella mia tasca); e devo anche credere che la mia credenza iniziale (la credenza che vi siano delle monete nella mia tasca) sia in realtà falsa, devo cioè avere una credenza a proposito delle mie credenze (altrimenti detta, una credenza di secondo grado).
Ora, ammesso e non concesso che tale teoria, opportunamente articolata e precisata, possa rendere conto di molti casi in cui proviamo sorpresa, la domanda che ci interessa in questo contesto è se e fino a che punto tale teoria ci aiuti a comprendere il tipo di meraviglia e stupore che crediamo contraddistinguere l’infanzia (e l’impulso al filosofare). A mio avviso, se intendiamo lo stupore dell’infanzia come un’emozione cagionata dal riconoscimento di una mancata corrispondenza fra credenze e realtà, allora perdiamo di vista il tipo di meraviglia e stupore che davvero ci interessa. Vediamo perché.
Cominciamo con ciò che la teoria sembra essere effettivamente in grado di spiegare. Indubbiamente, le bambine e i bambini vengono con il tempo a formare una sempre più fitta e articolata rete di credenze a proposito del mondo. Dal momento che tali credenze non sono ancora state plasmate e corrette da ripetuti incontri con l’esperienza – diversamente, quindi, dal caso degli adulti – è ragionevole pensare che per tale ragione essi possano essere più esposti rispetto agli adulti al tipo di sorpresa che dipende dalla scoperta che vi è una differenza fra la realtà e cosa pensavano di essa. Così, mentre un adulto sa che esistono mele di diversi colori, un bambino potrebbe averne viste sempre e solo di verdi, e perciò si sorprende quando scopre che, in verità, ci sono anche mele rosse (gialle, marroni, di plastica, ecc!). Se si aggiunge che, in un certo senso, è proprio dell’atteggiamento filosofico una certa disposizione a sorprendersi per come il mondo è – e a voler dunque cercare di capire perché il mondo è come è e non come ci aspettavamo che fosse – allora vi è un senso in cui possiamo già intravedere che è vero che l’infanzia rappresenta un momento filosofico privilegiato. I bambini si sorprendono più spesso e tale sorpresa li spinge ad interrogarsi sulla realtà per comprenderla.
Tuttavia, è chiaro che non è questo il tipo di sorpresa e dunque di meraviglia che abbiamo innanzitutto in mente quando guardiamo all’infanzia come all’ambito in cui la meraviglia (e in particolare la meraviglia della filosofia) ha più spazio per essere vissuta. Il tipo di meraviglia che abbiamo in mente sembra essere in un qualche modo – che preciseremo con l’aiuto di Wittgenstein – indipendente da quelle che sono le nostre credenze sul mondo. Si può provare meraviglia di fronte a un tramonto, a un cielo stellato, al rosso di una mela, al volto sorridente di uno sconosciuto, senza che questi eventi meraviglino poiché ritenuti difformi da credenze pregresse. Quando un bambino – o un adulto – resta incantato e meravigliato di fronte al volo di un uccello, come se si trattasse di un miracolo mai visto (sebbene possa essere in un certo senso un’esperienza del tutto familiare), non vi sono credenze sui volatili, sul movimento, sul volo, o simili che vengono frustrate dall’esperienza. Eppure, vi è qualcosa che suscita stupore meravigliato. Per fissare la mente sul tipo di meraviglia che qui ci interessa – e che non è riconducibile alla (seppur importante e feconda) sorpresa ordinaria cagionata dalla riconosciuta frustrazione di credenze pregresse – possiamo tenere dinanzi a noi nel corso della ricerca la poesia “La fiera dei miracoli” di Szymborska.
Un miracolo comune:
l’accadere di molti miracoli comuni.
Un miracolo normale:
l’abbaiare di cani invisibili
nel silenzio della notte.
Un miracolo fra tanti:
una piccola nuvola svolazzante,
che riesce a nascondere una grande pesante luna.
Più miracoli in uno:
un ontano riflesso sull’acqua
e che sia girato da destra a sinistra,
e che cresca con la chioma in giù,
e non raggiunga affatto il fondo
benché l’acqua sia poco profonda.
Un miracolo all’ordine del giorno:
venti abbastanza deboli e moderati,
impetuosi durante le tempeste.
Un miracolo alla buona:
le mucche sono mucche.
Un altro non peggiore:
proprio questo frutteto
proprio da questo nocciolo.
Un miracolo senza frac nero e cilindro:
bianchi colombi che si alzano in volo.
Un miracolo – e come chiamarlo altrimenti:
oggi il sole è sorto alle 3,14
e tramonterà alle 20.01.
Un miracolo che non stupisce quanto dovrebbe:
la mano ha in verità meno di sei dita,
però più di quattro.
Un miracolo, basta guardarsi intorno:
il mondo onnipresente.
Un miracolo supplementare, come ogni cosa:
l’inimmaginabile
è immaginabile.(Szymborska, 2009, pp. 302-303)
Meravigliarsi per il sorgere e il tramontare del sole non dipende dalla frustrazione di credenze pregresse (tutti noi sappiamo che il sole sorge e tramonta e sappiamo che non potrà che farlo ad un orario preciso). Lo stesso vale per la meraviglia di fronte a qualcosa di arcinoto come il fatto che la mano abbia cinque dita. Ma allora perché il sorgere e il tramontare del sole ci può suscitare stupore? Cosa c’è di miracoloso nel fatto che la mano abbia meno di sei dita ma più di quattro? Cosa può esserci di meraviglioso in un frutteto e in un nocciolo, o nel fatto che le mucche siano proprio mucche? Dal momento che queste sono cose e fatti del tutto ordinari, possiamo estendere la domanda chiedendoci: come è possibile in generale vedere ogni cosa e ogni evento come miracolosi? Come è possibile vedere il mondo come un miracolo? Per rispondere a queste domande – e avvicinarci così alla comprensione del tipo di meraviglia che sembra essere connaturato tanto all’infanzia quanto agli albori del filosofare – possiamo volgere la nostra attenzione alle riflessioni di Wittgenstein sulla meraviglia e sul miracoloso.
3 Wittgenstein sullo stupore
Per Wittgenstein possiamo vedere il mondo come un miracolo - e quindi come qualcosa tale da poter suscitare meraviglia - quando lo vediamo nella sua misteriosa, inspiegabile esistenza. In altre parole, riprendendo gli esempi della poesia di Szymborska, è un miracolo che la mano abbia cinque dite semplicemente perché esiste e perché esiste proprio così e non altrimenti (perché non quattro, o sei!?), così come è un miracolo che le mucche siano proprio mucche perché invece che niente, esistono proprio mucche. Che esista qualcosa – il mondo – invece che niente, è un mistero assoluto: un evento, cioè, senza spiegazione possibile. E che ciò che esiste, il mondo, esista proprio così e non altrimenti è, a sua volta, un miracolo assoluto. È questo senso di meraviglia che, forse, è più spesso vivo e palpitante nello sguardo dell’infanzia, ed è questo senso di meraviglia a costituire, per Heidegger, il pathos privilegiato della filosofia. Lo stesso vale per Scheler, secondo il quale il fatto che invece che nulla vi sia qualcosa – io, noi, mondo! – è la fonte del più intenso e originario stupore filosofico (Scheler, 1970, pp. 206-210 e Scheler, 1972, pp. 220-222). Vediamo ora nel dettaglio come arrivare a queste conclusioni seguendo i ragionamenti di Wittgenstein.
Nella Conferenza sull’etica, Wittgenstein intende illustrare ai suoi uditori che cosa rappresentino per lui l’ambito del valore o del bene assoluto, l’ambito che più propriamente compete a ciò che chiamiamo “etica”. Per fare ciò, dopo aver svolto un’analisi dei modi in cui usiamo parole come “valore”, “buono”, “giusto”, “importante” – e cioè le parole che normalmente usiamo per compiere giudizi di valore – Wittgenstein abbandona il terreno della semplice analisi del linguaggio per spostarsi sul terreno dell’esperienza. Per indicare ciò che ha in mente quando pensa al valore assoluto, menziona tre esperienze, la prima delle quali è un’esperienza di meraviglia.
Credo che il modo migliore di descriverla sia dire che, quando io ho questa esperienza, mi meraviglio per l’esistenza del mondo, e sono allora indotto a usare frasi come ‘Quanto è straordinario che ogni cosa esista’, oppure ‘Quanto è straordinario che il mondo esista’ (Wittgenstein 1992, pp. 12-13).6
Poco dopo chiarisce come il tipo di meraviglia che gli suscita l’esistenza del mondo non possa essere ridotto all’ordinaria meraviglia (nella forma di sorpresa) che proviamo quando una situazione disattende le nostre aspettative.7 Meravigliarsi per l’esistenza del mondo non è come “meravigliarsi per le dimensioni di un cane più grosso di qualsiasi cane mai visto, o per qualcosa di straordinario, nel senso comune del termine” (Wittgenstein, 1992, p. 13). Lo stesso vale non solo per l’esistenza del mondo, ma anche per l’esistenza dei suoi dettagli – o, più rigorosamente, per l’esistenza dei singoli enti. Talvolta ci meravigliamo nel vedere il cielo azzurro invece che coperto di nubi in un modo che rientra nei casi di sorpresa sopra discussi: prima del pisolino pomeridiano il cielo minacciava tempesta, poco dopo, quando mi sono svegliato e sono uscito di casa, mi sorprendo nel vedere che in realtà il cielo è blu terso! Diverso invece è il caso in cui rimaniamo incantati e meravigliati dal cielo “comunque esso sia” (Wittgenstein, 1992, p. 14) – anche se il cielo è di fatto azzurro, non ci meravigliamo poiché è azzurro invece che coperto di nubi; ci meravigliamo semplicemente perché è.
Per chiarire ulteriormente questo tipo particolare di meraviglia, Wittgenstein sostiene che l’esperienza di meraviglia per l’esistenza del mondo può anche essere descritta come l’esperienza di vedere l’esistenza del mondo come un miracolo.8 Nota che ci sono due sensi in cui un evento o fatto può dirsi miracoloso. È utile citare l’intero passo poiché illustra chiaramente un punto essenziale per avvicinarci alla comprensione della meraviglia che riteniamo abiti il tempo dell’infanzia.
Permettemi di considerare, ancora una volta, la nostra prima esperienza del meravigliarsi per l’esistenza del mondo e di descriverla in modo un po’ diverso. Sappiamo tutti cosa si direbbe un miracolo nella vita normale. è ovviamente solo un evento di cui non abbiamo ancora mai visto l’uguale. Supponiamo ora che un evento simile si verifichi. Supponiamo che a uno di voi cresca improvvisamente una testa di leone e cominci a ruggire. Sarebbe certamente una cosa straordinaria davvero. Ora, una volta rimessici dalla sorpresa, la prima cosa che suggerirei, sarebbe di chiamare un dottore e di fargli esaminare il caso in modo scientifico, e, se non fosse per non fargli male, vorrei che fosse vivisezionato. Ma dove se ne sarebbe andato il miracolo? è chiaro infatti che se osserviamo le cose in questo modo, tutto quel che c’è di miracoloso sparisce, a meno che intendiamo per ‘miracoloso’ solo ciò che la scienza non ha ancora spiegato, il che vuol dire, di nuovo, che non siamo finora riusciti a raggruppare questo fatto insieme con altri in un sistema scientifico. Questo mostra come sia assurdo dire che ‘la scienza ha provato che non ci sono miracoli’. La verità è che il modo scientifico di guardare un fatto non è il modo di guardarlo come un miracolo. Perché, qualsiasi fatto voi possiate immaginare, non è miracoloso in se stesso, nel senso assoluto del termine. Vediamo ora, quindi, di aver usato la parola ‘miracolo’ in senso relativo e in senso assoluto. E ora descriverò l’esperienza di meravigliarsi per l’esistenza del mondo dicendo: è l’esperienza di vedere il mondo come un miracolo (Wittgenstein, 1992, pp. 16-17).
In questo breve passo troviamo, a mio avviso, una chiave per comprendere il nesso tra meraviglia e infanzia. Wittgenstein distingue fra due modi di guardare il mondo. Il “modo scientifico di guardare un fatto” non è un modo di guardarlo come miracolo. In altre parole, qualsiasi cosa io guardi o consideri, per quanto strana, sorprendente e apparentemente inspiegabile possa apparire, fintanto che la guardo assumendo che vi sia una spiegazione del perché quel fatto è così e non altrimenti allora lo guarderò come qualcosa che non è davvero miracoloso, ma solo temporaneamente inspiegabile per me. Anche un cosiddetto miracolo da parte di Dio, in realtà, da questo punto di vista non è propriamente un miracolo, poiché esiste una spiegazione – è opera di Dio – anche se una spiegazione che menziona una causa trascendente.9 Se guardiamo alle cose in questo modo, non potrà esserci la sospensione incantata della meraviglia. C’è una ragione per cui le mani hanno cinque dita e non sei – dunque, in un certo senso, non c’è nulla di miracoloso in questo fatto. C’è una ragione (anche se potremmo non sapere come articolarla nei suoi dettagli) per cui il sole oggi è sorto alle 3,14 – dunque non vi è nulla di miracoloso in questo fatto. Vi è però un modo di guardare al mondo che, invece, tiene vivo il senso di meraviglia e di miracolo. Se guardo ad un evento come a un miracolo assoluto lo considero come qualcosa che in linea di principio non può avere una spiegazione e se lo guardo in questo modo allora esso è stupefacente poiché, appunto, inspiegabile. In altre parole, è qualcosa di misterioso, e non misterioso in senso relativo – relativamente, cioè, all’estensione della mia conoscenza attuale – ma in senso assoluto, è cioè inspiegabile non a causa dei nostri limiti (attuali o costitutivi che siano), bensì perché si tratta di un evento senza causa, senza ragione, senza fondamento.
4 Stupore e spiegazione
A questo punto può sorgere una domanda: è davvero possibile cogliere ogni cosa come un miracolo (assoluto), oppure solo l’esistenza del tutto può essere vista in questa luce di mistero? A prima vista si potrebbe pensare che solo l’esistenza del mondo possa essere colta come miracolo assoluto. Infatti, se da un lato è possibile articolare le ragioni per cui l’esistenza del tutto non può avere una spiegazione – infatti, ogni supposta spiegazione o causa prima sarebbe a sua volta qualcosa invece che nulla, con ciò rientrando nel tutto la cui esistenza sarebbe supposta spiegare – è pur vero che sembrano esserci spiegazioni del perché le cose e gli eventi sono come sono (e non altrimenti). Possiamo figurarci una spiegazione scientifica del perché le mani abbiano cinque dita, del perché il sole sorga e tramonti, ecc. Ma allora, se è vero, come dice Wittgenstein, che qualcosa è degno di essere visto come miracoloso solo se è visto come in linea di principio inspiegabile, e se è vero che tutti gli eventi (tranne l’evento degli eventi, e cioè l’esistenza del mondo) sembrano essere in linea di principio spiegabili, come fare a meravigliarsi di un tramonto? Non dovremmo forse “crescere” e vedere ogni cosa sempre con sguardo “scientifico”, cioè con lo sguardo di chi sa che in fondo c’è una ragione per ogni cosa?
Anche su questo punto Wittgenstein è abbastanza esplicito. Vi è un lungo passo scritto nel 1930 (Wittgenstein, 1980, pp. 25-26) – e cioè nello stesso periodo in cui tiene la Conferenza sull’etica – nel quale, criticando uno studio del filosofo francese Ernest Renan, traccia una distinzione fra due tipi di stupore, quello che può provare “il primitivo”, cioè colui che non ha ancora trovato una spiegazione ai fenomeni grazie all’indagine scientifica, e un tipo di stupore che può essere tanto comune ai primitivi quanto ai “moderni”, agli uomini e alle donne di scienza, e ossia a coloro che suppongono di possedere (o di poter in linea di principio possedere) delle solide spiegazioni per tutti i fenomeni. Questa distinzione è importante per i nostri scopi, perché ci permette di vedere, per analogia, due modi diversi di pensare al rapporto tra bambino (l’equivalente del primitivo) e adulto (l’equivalente del moderno).
Consideriamo un evento particolare – che è l’esempio di Wittgenstein – e cioè un fulmine. L’uomo primitivo non sa come e perché accade, e perciò di fronte ad esso può provare un certo tipo di stupore. D’altra parte, invece, l’uomo moderno, sapendo tutto dei fulmini (o, più precisamente, sapendo che qualcuno, un qualche scienziato in un qualche dipartimento di una qualche università, sa tutto dei fulmini) non prova precisamente quel tipo di stupore che proviene da tale relativa ignoranza. Questo è certamente un modo di vedere in che senso l’esperienza dell’infanzia può essere più esposta alla meraviglia rispetto all’esperienza dell’adulto: il bambino sa meno e perciò si meraviglia più spesso (è quanto abbiamo visto sopra nella discussione sulla sorpresa e dunque la meraviglia del primitivo non è altro che la comune sorpresa). L’errore a questo punto consiste nel ritenere che questo stupore, quello cioè relativo alla nostra ignoranza (quel tipo di stupore che ci mostra gli eventi come miracoli relativi) sia l’unica forma di stupore. Vi è infatti un tipo di stupore – quello che ci abita quando vediamo ogni evento come un miracolo assoluto – che può sopravvivere anche quando tutti i fenomeni sono stati ricondotti ad una lettura scientifica del mondo. Scrive Wittgenstein:
[…] è un errore pensare che la spiegazione scientifica possa abolire lo stupore.
Come se il fulmine oggi fosse diventato più comune o meno degno di suscitare stupore di duemila anni fa. Per stupirsi, l’uomo – e forse i popoli – deve risvegliarsi. La scienza è un mezzo per addormentarlo di nuovo (Wittgenstein, 1980, pp. 25-26).
Nelle Note sul Ramo d’oro di Frazer troviamo ribadita la stessa idea:
Come poteva il fuoco o la somiglianza del fuoco con il sole non impressionare lo spirito umano al suo risveglio? Ma non ‘perché non è in grado di spiegarselo’ (l’ottusa superstizione della nostra epoca): forse che la cosa diventa meno impressionante dopo una “spiegazione”? (Wittgenstein, 2000, p. 25).
Le cose rimangono ugualmente impressionanti e meravigliose anche quando sono spiegate proprio perché in ultimo nulla ha una spiegazione – né il fatto che il mondo esista, né il come del mondo, ossia come il mondo è fatto (ci sono fulmini, mucche, mani, noccioli, ossia i miracoli che stupiscono la Szymborska, invece che niente!). Questo tipo di meraviglia non è né del primitivo né del moderno, ma può essere di entrambi, purché vi sia la disposizione a restare nella sospensione incantata della contemplazione meravigliata del miracolo del mondo. Analogamente, questo tipo di meraviglia può essere tanto del bambino quanto dell’adulto.10 Seguendo l’analisi di Wittgenstein, possiamo ipotizzare che una delle ragioni che spiegano perché il bambino è più esposto rispetto all’adulto all’esperienza della meraviglia è il fatto che l’adulto vive come se in linea di principio ogni evento avesse una spiegazione. Il bambino, in altri termini, crescendo e diventando adulto si fa una ragione del perché le cose sono e perché sono così come sono, e così si lascia dominare dal “modo scientifico di guardare” ai fatti del mondo – che è, in altri termini, un modo di guardare agli eventi che assume la validità universale del principio di ragion sufficiente Leibniziano - trascurando in tal modo quella sensibilità, di cui tuttavia tutti noi siamo portatori, che sa cogliere le cose come miracoli assoluti. Che si guardi al mondo in tal modo è, in un certo senso, normale, poiché è connaturata in noi la spinta ad attribuire un senso agli eventi che ci circondano. Su questo punto concorda anche Heidegger, che nelle lezioni sul principio di ragione scrive: “[…] l’intelletto umano in quanto tale, ovunque e ogni qualvolta è in attività, mira subito a scovare il fondamento in base al quale ciò che gli capita di incontrare è così come è” (Heidegger, 1991, p. 15) e questo atteggiamento si fonda sulla presupposizione, visceralmente radicata, che ogni cosa abbia un fondamento o una ragione. Proprio questo modo di guardare, tuttavia, tanto per Wittgenstein quanto per Heidegger, mette a tacere la nostra disponibilità alla meraviglia.
Wittgenstein scrive che “la scienza” è un modo per addormentare la nostra capacità di meravigliarci. Vale la pena leggere un altro passo tratto dal Tractatus in cui chiarisce in che senso la scienza, o meglio una certa concezione di essa, possa mettere a tacere il senso di meraviglia dinanzi all’esistenza.
6.371 Alla base di tutta la moderna concezione del mondo sta l’illusione che le cosiddette ‘leggi naturali’ siano le spiegazioni dei fenomeni naturali.
6.372 Così si fermano di fronte alle leggi naturali come a qualcosa d’inattaccabile, così come gli antichi si fermavano di fronte a Dio e al Fato.
Ed entrambi hanno sia ragione che torto. Tuttavia, gli antichi sono più chiari in quanto riconoscono un termine chiaro, mentre il nuovo sistema ci vuol far credere che sia tutto spiegato.
Qual è il termine nella spiegazione cui fa riferimento Wittgenstein in questo passo? La concezione degli antichi, ponendo in evidenza Dio e il Fato come termini della spiegazione, mostravano chiaramente che non tutto è spiegato, che un termine della spiegazione esiste: nel loro caso, ciò che dovrebbe rappresentare la spiegazione o il fondamento di tutto il resto, ossia Dio e il Fato. Ma è proprio presentando Dio e Fato come termini della spiegazione che la concezione degli antichi mostra più chiaramente come, in realtà, Dio e Fato siano infondati.
Fa parte invece dello spirito della “moderna concezione del mondo” l’illusione che tutto sia spiegabile.11 Poiché secondo tale concezione oltre ai fenomeni naturali non vi è nulla, e poiché si presume che le leggi naturali spieghino tutti i fenomeni naturali, si forma l’illusione che tutto sia stato spiegato o sia in linea di principio spiegabile. Questa illusione, che è forte e salda nell’adulto – in particolare, suggerisce Wittgenstein, nell’adulto che abbraccia tale moderna concezione – è forse assente o meno forte nel bambino, ed è per questo che nel tempo dell’infanzia ci pare di cogliere una disponibilità alla meraviglia che, invece, sentiamo essersi assottigliata se non del tutto assopita nell’esperienza adulta. Wittgenstein vuole dunque proteggerci da tale illusione, illusione che nasconde, addormentandoci, l’ambito di ciò che per lui è più alto e più sacro, l’ambito del valore assoluto, dell’etico e dell’estetico.12 Infatti, scrive: “L’impulso al Mistico viene dalla mancata soddisfazione dei nostri desideri da parte della scienza” (Wittgenstein, 1995, 25 maggio 1915). Da questo punto di vista, dunque, la meraviglia dell’infanzia sarebbe l’espressione ancora viva, non sedata, del nostro impulso verso ciò che vi è di più alto e sacro, e cioè l’impulso alla frequentazione del mistero dell’esistenza.
5 Stupore, filosofia, educazione
Nell’introduzione ad un corso tenuto a Friburgo nel semestre invernale 1937-38, intitolato Domande fondamentali della filosofia, Heidegger asserisce che la filosofia “scaturisce da una suprema tonalità emotiva e permane in essa”; tale suprema tonalità emotiva è quella “che si è aperta di fronte a questa sola straordinaria constatazione: l’ente è e non piuttosto non è” (Heidegger, 1988, p. 9). Che l’ente sia e non non sia è lo stesso evento che, per Wittgenstein, rappresenta il miracolo assoluto in grado di suscitare in noi meraviglia e stupore.13 E per Heidegger, la tonalità emotiva che proviamo dinanzi a tale evento è, come per Wittgenstein, lo stupore. Al nesso tra meraviglia e infanzia, esplorato sin qui, aggiungiamo dunque ora il terzo elemento oggetto di questo studio, e cioè la filosofia, nel suo nesso con la meraviglia. Per Heidegger, lo stupore per l’esistenza è il pathos fondamentale del filosofare14 e, se è vero che proprio tale stupore è più vivo nell’infanzia, allora vi è un senso in cui l’infanzia è un momento di apertura privilegiato per la disposizione d’animo fondamentale della filosofia.
Ricapitoliamo brevemente le osservazioni fatte finora. Seguendo Wittgenstein, abbiamo distinto tra due modi diversi di intendere quel sentire cui, secondo le circostanze, diamo il nome di “sorpresa”, “stupore”, “meraviglia”, così come abbiamo distinto, parallelamente, due modi di intendere quella qualità che contraddistingue le cose e gli eventi che cagionano in noi tale sentire, e cioè, il “misterioso” o “miracoloso”. Da un lato vi è lo stupore relativo, relativo cioè a ciò che sappiamo e ci aspettiamo dalla realtà, il quale è provato di fronte a fatti che sono “miracolosi” solo in un senso relativo, cioè appunto inaspettati data la nostra conoscenza attuale del mondo; dall’altro, vi è uno stupore assoluto che possiamo provare di fronte al semplice essere ed essere-così del mondo e che coglie l’esistenza del mondo e dei suoi dettagli come un miracolo assoluto, ossia come qualcosa che, in un certo senso, è impossibile, poiché in linea di principio inspiegabile, senza causa e senza fondamento. Proprio questo stupore assoluto è, per Heidegger, il pathos privilegiato del filosofare, ciò da cui nasce e in cui permane ogni autentico amore del sapere.
A questo punto ci si può chiedere se e come lo stupore assoluto possa e debba avere un ruolo nell’educazione, in generale, e nell’apprendimento, in particolare. La questione non ha una facile risposta e, come nota (Schinkel, 2020), tra gli altri, è stata raramente posta in maniera diretta. Non intendo qui rispondere a questa domanda, ma perlomeno impostare la discussione e per farlo possiamo rivedere la distinzione tra stupore relativo e assoluto ancora una volta, sotto una diversa formulazione. Un conto è lo stupore che scaturisce dall’ignoranza – e che fa eventualmente nascere la curiosità che spinge all’indagine, persino all’indagine filosofica. Questo è il tipo di stupore che troviamo in Platone ed Aristotele e che ha un ruolo tutto sommato chiaro e decisivo nell’educazione.15 Se lo stupore è il motore della curiosità che porta all’indagine del mondo, allora, nella misura in cui diamo valore alla conoscenza, comprendiamo perché è importante tenere vivo il tipo di stupore che nutre la curiosità (e perché è importante, dal punto di vista strettamente didattico, interrogarci circa i modi per tener vivo tale stupore e curiosità). Ma lo stupore per la nuda esistenza delle cose e del mondo è di un altro tenore. In questo caso, lo stupore che scaturisce dall’apprensione di un mistero, e cioè da qualcosa che si mostra non tanto in una luce che invita all’indagine sulle cause (questa è l’ignoranza) quanto in una luce che porta al silenzio (come quello di Wittgenstein, ma anche di Schelling – si veda su questo Pareyson, 1979). Qui, vi può essere l’esperienza rinviante del fascino che ci attira verso il mistero nella contemplazione, così come l’esperienza respingente del tremendo (mysterium tremendum et fascinans) che ci respinge di fronte a qualcosa di insopportabile alla vista poiché non riconducibile alle maglie del principio di ragion sufficiente. Mentre lo stupore relativo, scaturente dall’ignoranza, scompare, come fa quello Platonico e Aristotelico, allorquando conosciamo le cause dei fenomeni, lo stupore assoluto, scaturente dall’impatto con il mistero, sopravvive anche allorquando ci diamo una ragione del perché dei fenomeni. E a questo punto la domanda da farsi è: qual è il valore di tale stupore assoluto nell’educazione? E assumendo che tenere vivo questo fuoco sacro abbia un valore, come farlo?
6 Non di sola meraviglia
Queste domande diventano ancora più interessanti e complesse se introduciamo un altro aspetto relativo al pathos di fronte all’esistenza. Sin qui abbiamo sottolineato come il mistero dell’esistenza sia in grado di indurre in noi uno stupore che si tinge di incanto e che merita, dunque, di essere chiamato “meraviglia”. Ma sia Heidegger che Wittgenstein, così come molti altri autori (alcuni dei quali leggeremo in questa sezione conclusiva), sostengono che il miracolo dell’esistenza è in grado di suscitare in noi tonalità emotive a prima vista più cupe e, in un certo senso, problematiche. Per cogliere questo aspetto, che ci consente di apprezzare la ricchezza e la varietà emotiva che verosimilmente contraddistingue anche l’emotività dell’infanzia (e che ci consente così di rendere più complesso ogni discorso pedagogico intorno al nesso fra infanzia, meraviglia e filosofia), possiamo leggere altri resoconti del pathos che si risveglia in noi dinanzi al mistero dell’esistenza.
Ne La vita della mente, Arendt discute la tesi tradizionale secondo la quale all’origine del pensiero e della filosofia vi sia la meraviglia. Arendt articola questa risposta in riferimento alle osservazioni classiche di Platone, Aristotele, Leibniz, Kant, Schelling, Heidegger e Sartre. In questo contesto cita anche un brano poco noto di Coleridge, nel quale egli descrive che cosa si prova quando si coglie l’esistenza di qualcosa o del tutto.
Hai mai innalzato la tua mente fino a considerare l’esistenza, in sé e per sé, come puro atto di esistere? Hai mai detto pensosamente a te stesso “è!”, incurante in quel momento se innanzi a te ci fosse un uomo, un fiore o un granello di sabbia, senza riferirti, insomma, a questo e a quel modo o forma particolari di esistenza? Se sei realmente giunto a questo, avrai avvertito la presenza di un mistero, che deve aver fermato il tuo spirito in timore reverente e stupore. Le parole stesse “Non c’è nulla!” o “Ci fu un tempo in cui non c’era nulla!” sono una contraddizione in termini. C’è qualcosa in noi che respinge tali parole con l’intensità e l’istantaneità di una luce, come se esse parlassero contro l’evidenza di un fatto che è in ragione della sua stessa eternità.
Non essere, allora, è impossibile: essere, incomprensibile. Se hai fatto tua questa intuizione dell’esistenza assoluta, avrai insieme appreso che questo e non altro era ciò che nelle epoche più antiche afferrò gli animi più nobili, gli eletti tra gli uomini, con una sorta di sacro terrore. Questo appunto fece loro sentire per la prima volta dentro di sé il presagio di qualcosa di ineffabilmente più grande della loro natura individuale (Citato in Arendt, 2009, p. 235).
L’esperienza vissuta da Coleridge è incredibilmente simile a quella che troviamo in altri autori (oltre ai già citati Wittgenstein, Heidegger e Scheler). Ad esempio, questo è il modo in cui Pierre Hadot descrive le due esperienze che lo iniziarono alla filosofia.
Successe una volta nella rue Ruinart, lungo il tragitto tra il Seminario minore e la casa dei miei genitori, dove rientravo tutte le sere, essendo allievo esterno. Era calata la notte e le stelle brillavano in un cielo immenso. A quell’epoca si poteva ancora vederle. Un’altra volta accadde in una stanza di casa nostra. In entrambi i casi fui invaso da un’angoscia insieme terrificante e soave, provocata dal sentimento della presenza del mondo, o del Tutto, e di me in questo mondo. In realtà ero incapace di esprimere la mia esperienza, ma in seguito sentii che poteva corrispondere a domande come: «Chi sono?» «Perché sono qui?». Provavo un senso di estraneità, lo stupore e la meraviglia di esserci. Nello stesso tempo, percepivo di essere immerso nel mondo, di farne parte, e che il mondo si estendeva dal più piccolo filo d’erba fino alle stelle. Il mondo mi era presente, intensamente presente […]. Credo di essere filosofo a partire da quel momento, se per filosofia si intende la coscienza dell’esistenza, dell’essere al mondo (Hadot, 2008, p. 9).
Per fare un altro esempio, questa volta molto noto, Sartre, ne La nausea, inizia la descrizione dell’esperienza di illuminazione di Roquentin con queste celebri parole:
E d’un tratto, d’un sol tratto, il velo si squarcia, ho compreso, ho visto.
Dunque, poco fa ero al giardino pubblico. La radice del castagno s’affondava nella terra, proprio sotto la mia panchina. Non mi ricordavo più che era una radice. Le parole erano scomparse, e con esse, il significato delle cose, i modi del loro uso, i tenui segni di riconoscimento che gli uomini hanno tracciato sulla loro superficie… E poi ho avuto questo lampo di illuminazione. Ne ho avuto il fiato mozzo. Mai, prima di questi ultimi giorni, avevo presentito ciò che vuol dire ‘esistere’ (Sartre, 1990, pp. 171-172).
Heidegger, descrive la stessa esperienza in Che cos’è metafisica?, e qui sostiene che vivere tale esperienza rappresenti la nostra possibilità fondamentale. Nel Poscritto scrive:
La disponibilità all’angoscia è il sì all’insistenza nel soddisfare il richiamo sommo da cui soltanto l’essenza dell’uomo è colpita. Unico fra tutti gli enti, l’uomo, chiamato dalla voce dell’essere, esperisce la meraviglia di tutte le meraviglie: che l’ente è (Heidegger, 2001, p. 78).
Per fare solo un ultimo esempio, Fernando Pessoa descrive in numerose parti della sua frammentata opera che cosa si può provare quando si coglie la nuda e inspiegabile esistenza del tutto (e dei suoi dettagli). In una delle sue opere più esplicite su questo punto, e cioè l’incompiuto Fausto, Pessoa vede nell’orrore e nel senso di assurdo il pathos privilegiato dinanzi al mistero dell’esistenza.
L’unico mistero dell’universo
è che ci sia un mistero dell’universo.
Sì, questo sole che senza volere illumina
la terra e gli alberi, e tutte le stagioni;
le pietre su cui cammino, le case bianche,
gli uomini, la convivenza umana, la storia,
ciò che accade – tradizione o discorso –
fra un’anima e l’altra – le voci, le città –
niente porta con sé la spiegazione
di esistere, o ha una bocca con cui parlare.
Per quale motivo il sole non sorge dicendo
quello che è? Per quale tranquilla ragione
ci sono pietre sotto i miei passi, e aria
che respiro, e ho bisogno di respirare?
Tutto è una macchina mostruosa e assurda.
Con tutto il corpo e lo sguardo, terra dell’anima,
ignoriamo.
Perché mai c’è l’esistere? Perché mai esiste un universo?
Perché mai è questo l’universo che esiste?
Perché è composto in questo modo l’universo?
Perché c’è? Perché c’è quello che c’è?
Perché c’è un mondo, e perché c’è un mondo così?
Perché c’è un qui, dolori, coscienza e differenza?(Pessoa, 1991, p. 109)
Ritroviamo lo stesso pathos problematico nelle poesie di Pessoa ortonimo, nel dramma statico Il marinaio, così come nelle poesie di Álvaro de Campos.16
Descrizioni simili a quelle di Coleridge, Hadot, Sartre e Heidegger (e Wittgenstein e Scheler) si trovano sparse nel corso di tutta la storia del pensiero occidentale.17 Sebbene diversi autori forniscano nei dettagli descrizioni e letture diverse delle loro esperienze, nei tratti essenziali le esperienze sembrano essere, se non le medesime, perlomeno membri di un’unica famiglia. Il nucleo minimale che accomuna queste esperienze sembra essere il seguente: chi le vive intuisce, in un sentire particolare, che ciò che esiste – il tutto o un ente particolare – esiste invece che non esistere.
Ora, come si vede dai passi appena citati, e come emerge dal contesto più ampio in cui essi sono discussi, l’esistenza suscita in noi una gran varietà di emozioni. Coleridge parla di “timore reverente e stupore”, ma anche di un “sacro terrore”. Hadot parla di “stupore” e “meraviglia”, ma anche di “un’angoscia insieme terrificante e soave”. Sartre, come è noto, parla di “nausea”, “angoscia”, “assurdo” ma anche di un’“estasi orribile”. Queste osservazioni fenomenologiche sono state ampiamente sviluppate da Heidegger, il quale notoriamente vede nell’angoscia - distinta dalla paura relativa ad un ente o evento specifico che è colto come minaccioso - la tonalità emotiva fondamentale che può consentirci di cogliere la “meraviglia di tutte le meraviglie: che l’ente è”, ossia quel miracolo che Szymborska indica con l’espressione “il mondo onnipresente”.18 Notare questa varietà solleva numerose questioni circa il nostro intendimento del nesso tra infanzia e meraviglia.19 Se da un lato ci ritroviamo a celebrare l’infanzia come il momento privilegiato della meraviglia, d’altra parte dobbiamo chiederci: vi è un posto – e se sì quale – nel tempo dell’infanzia per la nausea e l’angoscia? Può quella sospensione incantata dinanzi alle cose che siamo inclini a vedere negli occhi dei bambini essere non solo intrisa di stupore meravigliato, ma anche colorata di tonalità a prima vista più stridenti, come la “calma incantata” dell’angoscia di cui parla Heidegger in Che cos’è metafisica?, o financo l’orrore di cui parla Sartre? Se lo sguardo e il cuore dell’infanzia sono davvero abitati da questi sapori emotivi, quali sono le implicazioni sul piano educativo?
7 Conclusioni
Per ragioni di spazio, non è questo il contesto in cui approfondire queste questioni, né tantomeno quello di fornire ad esse una risposta sbrigativa. Ciò nondimeno, è importante notare, in questa nota conclusiva, come le riflessioni su stupore e meraviglia svolte consentano di nutrire una varietà di dibattiti pedagogici che interessano, a diverso titolo, il nesso fra meraviglia, infanzia e filosofia. Per fare solo un esempio – da cui proviene l’interesse dell’autore per questo tema – nel dibattito contemporaneo sulla filosofia con i bambini – dibattito sorto a partire dal movimento di Lipman e Sharp noto come Philosophy for Children – si è riflettuto a lungo sulla presenza (o meno) nei bambini delle capacità strettamente cognitive, legate cioè allo sviluppo del ragionamento, delle capacità astrattive e metacognitive, necessarie per il filosofare,20 ma è relativamente scarsa l’indagine intorno al ruolo delle emozioni nel dialogo filosofico con i bambini e, in particolare, al ruolo dello stupore tanto nelle sue tonalità più “luminose”, come la meraviglia, quanto in quelle più “oscure”, come l’angoscia e l’orrore.21 Come è stato recentemente sostenuto,22 le profonde questioni esistenziali – che senso ha la vita?; perché si deve morire?; ecc. – che bambine e bambini sanno portare nel dialogo in classe, rendono urgente una riflessione intorno al sentire che abita l’infanzia quando si accosta ai misteri più profondi dell’esistenza. Per Wittgenstein e Heidegger l’incontro con il mistero dell’esistenza è anche il luogo in cui, per dirla con Coleridge, possiamo sentire la presenza di qualcosa di “ineffabilmente più grande della nostra natura individuale”. Ma è anche vero, come nota Roquentin, il protagonista de La nausea di Sartre, che questa stessa sensibilità metafisico-esistenziale può mostrare ogni cosa – e così anche la nostra vita – come assurda e, in ultimo, insensata.
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Platone (Teeteto, 155d) e Aristotele (Metafisica A, 2, 982, b12). Per discussioni recenti di questi celebri passi, si vedano Napolitano & Valditara (2014), Gastaldi (2019), Lightfoot (2021).↩︎
Per un’eccezione recente, si vedano i saggi contenuti in Egan, Cant & Judson (2014) e in Schinkel (2020).↩︎
Per la difesa di questa tesi, si veda Fisher (1998).↩︎
Per i riferimenti ai contributi principali che animano il dibattito contemporaneo, si veda si veda l’Introduzione di Dépraz & Celle (2019, pp. 1-5).↩︎
Per una discussione di questa teoria della sorpresa, si veda Casati & Pasquanelli (2007). Per una discussione di una teoria affine articolata in seno alla tradizione fenomenologica, si vedano i contributi di Dastur (2004), Depraz (2010) e Serban (2019).↩︎
Nel Tractatus, Wittgenstein descrive come “mistico” il fatto che mondo è, contrapponendo il fatto che mondo è al come mondo è: “6.44 Il mistico non è come il mondo è, ma che esso è”. L’esperienza descritta nella Conferenza sull’etica, la meraviglia per l’esistenza del mondo, è dunque per Wittgenstein un’esperienza che appartiene all’ambito di ciò che è mistico, e cioè a quell’ambito nel quale si coglie ciò che è indicibile, ineffabile. Per un approfondimento della questione, si veda il lavoro classico di McGuinness (1966) e i lavori più recenti di Rump (2019), Oliva (2021), Zanetti (2023, 2025a, forthcoming 2). Per un’analisi, invece, della relazione fra stupore e crisi del soggetto e del linguaggio nella cultura mitteleuropea nella quale maturano le posizioni filosofiche di Wittgenstein, si veda Janik & Toulmin (1980) e Gargani (1985).↩︎
Va detto, inoltre, che subito dopo il passo citato, Wittgenstein aggiunge “Prima di tutto voglio dire che l’espressione verbale che diamo a queste esperienze non ha senso! […] Non ha senso dire che mi meraviglio dell’esistenza del mondo poiché non posso immaginarlo non esistente” (Wittgenstein, 1965, pp. 13-14). Sebbene Wittgenstein sostenga, sulla scia della teoria del linguaggio adottata nel Tractatus, che non stiamo parlando sensatamente quando diciamo che l’esistenza del mondo è straordinaria (o meravigliosa, o miracolosa), ciò non toglie nulla al valore della sua analisi intorno alla natura della meraviglia, del miracolo e dell’esperienza in cui si coglie l’esistenza del mondo. Per una presentazione dettagliata dell’itinerario argomentativo della Conferenza sull’etica, e per una discussione dei punti di continuità e discontinuità rispetto al Tractatus, si vedano Donatelli (1998, pp. 139-147) e Zanetti (2025a).↩︎
Per una discussione approfondita del nesso tra meraviglia e miracolo in Wittgenstein, si vedano Moore (1987), Elliott (1993), Churchill (1994), Perissinotto (2009), Kidd (2018), Zanetti, 2023 (2025a, forthcoming 2).↩︎
Per un approfondimento sulla questione del miracolo in Wittgenstein e sulla relazione con il discorso intorno ai miracoli in contesto religioso, si veda Perissinotto (2009).↩︎
La distinzione tra “primitivo” e “moderno” è tracciata da Renan, non da Wittgenstein. Il filosofo austriaco fa sua, per amor di discussione, tale distinzione, ma solo per criticare la prospettiva di Renan, e cioè la prospettiva secondo la quale solo il primitivo è in grado di provare stupore. Qui uso la discussione di Wittgenstein per criticare la posizione di chi volesse sostenere che solo i bambini (l’equivalente, nella logica di Renan, dei primitivi) sarebbero in grado di provare stupore. Seguendo Wittgenstein, distinguo due tipi di stupore, quello relativo e quello assoluto, e sostengo che quest’ultimo può essere provato tanto da bambini quanto da adulti, così come Wittgenstein sostiene che esso può essere provato tanto da (supposti) primitivi quanto da (supposti) moderni. Ringrazio un revisore anonimo per avermi invitato ad essere più esplicito su questo punto.↩︎
“Che strana presa di posizione degli uomini di scienza: ‘Questo non lo sappiamo ancora; ma saperlo è possibile, è solo questione di tempo, perché lo si sappia!’” (Wittgenstein, 1980, p. 80).↩︎
Per lettori dell’opera di Wittgenstein che pongono l’enfasi su questo aspetto, si vedano Cahill (1996), Cooper (1998), Kidd (2018), Zanetti (2025a, forthcoming 2). Va notato, inoltre, che per Wittgenstein l’esperienza di meraviglia per l’esistenza del mondo è strettamente connessa all’esperienza che, nel Tractatus, ci consente di accedere al mistico, e cioè la visione del mondo sub specie aeternitatis. Non ho spazio in questo contesto di elaborare il nesso fra le due esperienze e soprattutto per discutere il ruolo dell’esperienza del mondo sub specie aeternitatis nell’opera di Wittgenstein. Per un approfondimento, si vedano Tilghman (1991), Gargani (2003, pp. 9-28), Zanetti (2025a, forthcoming 2).↩︎
In un famoso passo dei colloqui annotati da Waismann, intitolato A proposito di Heidegger, Wittgenstein dice: “Posso immaginarmi molto bene quel che Heidegger intende con ‘essere’ e ‘angoscia’. L’uomo ha l’impulso ad avventarsi contro i limiti del linguaggio. Pensate allo stupore per il fatto che qualcosa esista. Tale stupore non può venir espresso sotto forma di domanda e infatti non vi è una risposta. Tutto quel che potremmo dire può essere a priori solo un non-senso. Eppure ci avventiamo contro il limite del linguaggio” (Waismann, 2011, p. 95). Numerosi sono gli autori che hanno sottolineato come Wittgenstein e Heidegger stiano parlando della stessa esperienza – l’esperienza di stupore di fronte al fatto che qualcosa esiste invece che nulla. Si vedano, fra gli altri, Horgby (1959), Fay (1989), Murray (1974), Cooper (1997), Volpi (2001), Camerlingo (2011), Zanetti (2022, 2023). Per riflessioni più ampie sul rapporto tra le filosofie di Heidegger e Wittgenstein si vedano Perissinotto (1994), Egan et al. (2013), Mulhall (2016).↩︎
Non ho qui lo spazio per approfondire e discutere se e in che senso sia vero che la meraviglia è il pathos fondamentale del filosofare. La questione è classica e su essa esistono numerosi studi (si veda, ad esempio, il classico Arendt, 1978). Per uno studio approfondito della questione nel contesto della riflessione heideggeriana, si veda Pasqualin (2011).↩︎
Si vedano, ad esempio, Piersol (2014) e Hadzigeorgiou (2014).↩︎
Sull’esperienza del mistero dell’essere nell’opera di Pessoa, si veda Borges (2016, pp. 71-79), Zanetti (2025c, forthcoming 4, forthcoming 5).↩︎
Si trovano anche in Kant, Schelling, Scheler, Patocka, Lévinas, per menzionare alcuni dei nomi più noti. Per un resoconto e una storia di questa esperienza, e per un’ampia discussione dell’argomento che porta a concludere che questi autori stiano effettivamente descrivendo la stessa esperienza, si vedano Pareyson (1979, 1992), Balaska (2024), Zanetti (2023, forthcoming 1, forthcoming 3).↩︎
Si veda però il lavoro di Capobianco (2010, pp. 70-86), nel quale mostra come dopo Essere e tempo e Che cos’è metafisica?, dove l’angoscia è la tonalità emotiva prevalente, negli scritti successivi Heidegger ponga l’accento su tonalità emotive più luminose.↩︎
Allo stesso modo, rendono più complesso il nostro intendimento del nesso fra il pathos dello stupore e il filosofare. Su questo punto, si veda Fabbrichesi (2017).↩︎
Su questo punto molto discusso si vedano Matthews (1978, 1980, 1984, 1994), McCall (1990), Kitchener (1990), White (1992, 2012), Murris (2000), Gopnik, 2010).↩︎
Fra le poche eccezioni all’interno della letteratura relativa alla Philosophy for Children, si veda, ad esempio, il capitolo Anxiety in Matthews (1980). Le riflessioni di questo articolo intendono inoltre contribuire allo studio sul ruolo della vita emotiva in educazione, questione sulla quale invece esistono numerosi importanti studi: Iori (2006), Basile (2006), Galimberti (2007), Rossi (2016), Mortari (2017), Madrussan (2017), Bruzzone (2022).↩︎
Per un resoconto dettagliato delle questioni pedagogiche che nascono quando si prende in considerazione la sensibilità esistenziale dei bambini, con particolare riferimento all’ambito della filosofia con i bambini, si veda (Demozzi, 2022) e (Zanetti, 2020, 2021, forthcoming 3).↩︎