1 Introduzione
Il progetto di ricerca “ChiPS: Children’s Playfulness in School” si propone di esplorare la percezione degli insegnanti riguardo a come i bambini abitano gli spazi e i tempi della scuola attraverso le dinamiche del gioco.1 L’attenzione al gioco e ai momenti ludici consente di ridefinire una serie di relazioni tra spazi fisici – come l’ambiente interno ed esterno, la classe e i materiali – e spazi relazionali, che coinvolgono l’interazione tra adulti e bambini, il singolo e il gruppo classe, la partecipazione e la cooperazione, con l’obiettivo di migliorare la qualità del benessere a scuola (Seitz & Berti, 2024; Stone, 2017). Alla base di questa riflessione vi è il riconoscimento che, da un lato, il gioco rappresenta una pratica culturale fondamentale per i bambini in età scolare, nonché uno spazio di auto-socializzazione (Scherr, 2008); dall’altro, che gran parte delle opportunità di socializzazione per i bambini si realizza proprio durante il tempo scolastico, sia esso tempo pieno o parziale (Seitz & Berti, 2023).
Il presente studio si colloca all’interno del vasto dibattito sulla pedagogia del gioco, un ambito che ha iniziato a svilupparsi negli anni Settanta nei paesi di lingua tedesca e negli Stati Uniti, per poi diffondersi anche in Italia (Staccioli, 2008). Nel nostro paese, la pedagogia del gioco ha trovato applicazione nell’ambito dell’animazione socioeducativa, nei servizi per l’infanzia, nel doposcuola e nella scuola a tempo pieno (Farné, 2016; Briggs & Hansen, 2012; Kuschner, 2012; Baer, 2020; Schnuck, 2021; Seitz & Berti, 2023).
Questo approccio, declinato in diverse forme come la ludoteca, il ludobus e l’animazione di strada, considera il gioco un autentico metodo educativo (Heimlich, 2023), riconoscendo nel gioco libero e nei giochi un contesto ideale per lo sviluppo di competenze relazionali e cognitive (Petillon, 2017). La pedagogia del gioco, inoltre, pone attenzione sull’importanza degli spazi del gioco libero, autodeterminato dai bambini senza la mediazione degli adulti, e ha contribuito alla nascita di movimenti di sensibilizzazione come la Città dei bambini (Tonucci, 2003) e la Giornata dei diritti dei bambini e delle bambine al gioco (Farné, 2005). Un ulteriore contributo significativo della pedagogia del gioco riguarda l’osservazione che gran parte dei giochi, sia tradizionali che moderni, sono di natura competitiva (Caillois, 1967). Da qui è emersa, a partire dagli anni Ottanta, una nuova tipologia di giochi: i giochi cooperativi (Staccioli, 2008). Questi ultimi favoriscono lo sviluppo di dinamiche positive all’interno dei gruppi, riducendo l’accento sulla competizione tra i singoli e promuovendo la collaborazione (Berti, 2022).
La prospettiva del presente contributo si estende oltre il gioco a scuola, inteso prevalentemente come gioco didattico. Questa scelta nasce dalla necessità di riconoscere una distinzione, ben evidenziata nella lingua inglese, tra il gioco (play) e i giochi (games). Tale distinzione è spesso discussa negli studi sull’argomento: il sociologo americano George Herbert Mead, ad esempio, indica il “play” come il gioco di simulazione – paragonando il gioco proprio dei bambini in età prescolare con i rituali (Mead, 2010) – e il “game” come il “gioco organizzato” proprio dei giochi con le regole attraverso cui i bambini sviluppano il proprio sé attraverso un riconoscimento dell’altro (other).2 Nei giochi organizzati, infatti, afferma Mead, il bambino agisce “in relazione” con le azioni degli altri giocatori e “ciò che fa è controllato dal suo essere tutti gli altri in quella squadra” (2010).
Emerge, inoltre, una terza categoria: il “ludico” (playful), ovvero l’atteggiamento ludico, che può essere qui intesa come una disposizione aperta a interpretazioni del mondo alternative rispetto a quelle consuete. Dewey, in particolare, si riferisce all’atteggiamento ludico sia del bambino che dell’insegnante. Nell’esplorare la dicotomia gioco-lavoro, il filosofo americano criticò alacremente questa opposizione, evidenziando la rigida separazione tra la scuola dell’infanzia, vista come spazio di gioco, e la scuola primaria, concepita come luogo esclusivo di apprendimento. Dewey sottolinea come il processo di apprendimento sia, invece, facilitato proprio dall’attitudine al gioco (playful attitude), quella particolare concentrazione, oggi definita “flow”, che i bambini raggiungono mentre giocano. Nel gioco il bambino fa esperienza di uno stato di benessere e di assorbimento profondo (playfulness), mentre nell’apprendimento o nel lavoro l’attività è spesso orientata al raggiungimento di un prodotto o risultato (mental seriousness). È l’incontro tra mental playfulness e mental seriousness, che deve essere sostenuto dall’insegnante. L’insegnante, a sua volta, asseconda questa disposizione del bambino quando adotta egli stesso una attitudine “ludica”, prestando attenzione agli interessi, alla curiosità e ai bisogni degli alunni, assumendo così il ruolo di facilitatore (facilitator), in linea con la filosofia della scuola progressista (Dewey in Berti, 2022).
È sempre lo stesso Dewey che riconosce una lacuna semantica nell’assenza di un terzo termine che esprima la fusione e la sovrapposizione tra gioco e apprendimento, anziché la loro separazione. Per questo motivo propone l’uso dell’aggettivo “ludico” (playful). Questo concetto, tuttavia, continua ancora oggi a essere interpretato prevalentemente in termini di didattica ludica, dove il “ludico” viene subordinato alla dimensione didattica. Si crea così un “paradosso” insito nella didattica ludica stessa: nel tentativo di connettere gioco e apprendimento, e ponendo quest’ultimo come fine ultimo, si rischia di ridurre la complessità e le molteplici dimensioni del gioco, incanalandolo nei rigidi schemi delle materie scolastiche. Questo approccio tende a escludere dal dibattito il potenziale del gioco libero a scuola, o l’importanza del “perdere tempo” quando i bambini sono coinvolti, ad esempio, in attività di gruppo. Il gioco viene, dunque, in generale, riconosciuto solo se ha un’utilità specifica all’interno delle pianificazioni didattiche. Briggs (2012) sottolinea il cosiddetto “paradosso della pianificazione”, che si manifesta nell’attrito tra gli obiettivi dell’agenda dell’insegnante e il bisogno dei bambini di vivere il gioco come un’attività libera, non imposta dall’esterno. In questo contesto si inserisce anche la distinzione proposta da Visalberghi tra attività ludiche e attività ludiformi. Le prime, caratterizzate da impegno, continuità e progressività, si concludono con il termine dell’attività stessa, senza finalità ulteriori. Le seconde, invece, prevedono un obiettivo diverso, come nel caso dei giochi ideati e proposti dall’adulto per il loro valore “istruttivo” o “didattico” (Visalberghi in Staccioli, 2008, pp. 18-19).
Questo lungo excursus ci consente di inquadrare meglio la prospettiva del pedagogista tedesco Hans Petillon (2015) il quale sottolinea come, nel contesto della scuola primaria, sia fondamentale ampliare il focus dai giochi (games) al gioco (play). Petillon definisce quest’ultimo come la “gestione ludica di situazioni quotidiane” (Ibid., p. 23). Questa visione non implica la necessità di ridefinire le azioni educative o di aggiungere uno specifico “tempo del gioco”. Piuttosto, si colloca all’intersezione tra progettazione didattica e pratica pedagogica nella scuola primaria (Seitz & Berti, 2023) valorizzando tanto gli spazi fisici quanto le relazioni del gioco e del ludico a scuola: la didattica attiva, l’apprendimento per scoperta, la partecipazione, la cooperazione in classe e la relazione adulto/bambino (Petillon, 2017).
La ricerca si fonda dunque su una riflessione approfondita sul gioco e sulla pedagogia del gioco (Caillois, 1967; Farné, 2016; Zosh, 2018), con un particolare focus sul ruolo del gioco nella scuola primaria (Staccioli 2008; Briggs & Hansen, 2012; Kuschner, 2012; Zosh et al., 2018; Caprino, 2018; Mardell et al., 2019; Berti, 2022). Da un punto di vista metodologico, le ricercatrici hanno scelto di concentrarsi su un campione ridotto e intenzionale (purposeful sampling, Merriam, 2009)3, in linea con l’epistemologia naturalistica che sostiene la ricerca (approfondimenti più dettagliati sono disponibili nel paragrafo 2). Questo approccio, combinato con l’utilizzo della metodologia della Grounded Theory, ha permesso di esplorare i fenomeni osservati in modo più approfondito e contestualizzato, mettendo in luce i processi naturali e le esperienze dirette dei partecipanti, senza l’intenzione di generalizzare i risultati a una popolazione più ampia. In altre parole, i partecipanti sono stati selezionati proprio per la loro esperienza specifica e la rilevanza rispetto al fenomeno in esame. L’obiettivo era, infatti, quello di generare una teoria sostanziale (substantive theory, Glaser & Strauss, 1967), incentrata sui fenomeni specifici e sul contesto studiato, piuttosto che una teoria formale (formal theory) applicabile a contesti più generali.4
2 Il contesto
Il progetto “ChiPS: Children’s Playfulness in School” ha coinvolto quattro scuole primarie della Provincia di Bolzano, per un totale di dieci insegnanti. Sono stati selezionati otto insegnanti curricolari e due insegnanti di seconda lingua, seguendo il principio del campionamento teorico che ha orientato l’intera indagine, e considerando le risorse disponibili per la raccolta e gestione dei dati. Gli insegnanti erano operativi in tre diversi Istituti Comprensivi, e le scuole sono state scelte per rappresentare modelli educativi differenti all’interno dello stesso territorio. Tre di esse sono situate in centri urbani o semi-urbani, mentre l’ultima si trova in un paese di montagna. Tali realtà propongono inoltre modelli innovativi rispetto alla scuola convenzionale: la Scuola 1 integra l’approccio Montessori nella sua proposta formativa, con un focus sul potenziamento linguistico e l’implementazione di classi aperte per i laboratori a tempo pieno; la Scuola 2 adotta esclusivamente il Metodo Montessori ed è tutt’oggi una delle scuole primarie con il maggior numero di iscritti del proprio Comune; la Scuola 3 sperimenta metodi di didattica attiva e raccoglie elementi di didattica aperta, organizzando spazi e tempi in modo flessibile e promuovendo l’autonomia e l’apprendimento individuale; anche la Scuola 4 si avvale di una sperimentazione di didattica attiva.
La scelta di questo contesto di indagine riflette il desiderio delle ricercatrici di abbracciare la complessità e la ricchezza del sistema scolastico della Provincia di Bolzano, selezionando istituti con indirizzi diversi e provenienti da contesti sociolinguistici distinti. In questa cornice è stata avviata un’esplorazione qualitativa, con un focus non tanto sui rapporti di causa-effetto, quanto sulla circolarità e iteratività degli eventi e dei fenomeni, indagati attraverso un approccio olistico che, citando Bateson, possa cogliere la “struttura che connette” (1984). Questo obiettivo è stato perseguito all’interno di un approccio ispirato all’epistemologia naturalistica (Lincoln & Guba, 1985; Erlandson et al., 1993) che suggerisce di collocare le ricerche negli ambienti dove i fenomeni si manifestano abitualmente. e che si caratterizza per un’intenzione trasformativa (Mortari, 2009), mirata al miglioramento della pratica educativa. Le ricercatrici hanno quindi selezionato un setting – ovvero le scuole – come contesto in cui il fenomeno oggetto di studio si realizza quotidianamente, creando una dialettica circolare tra contesto e significato.
3 La metodologia
In linea con l’epistemologia naturalistica, l’intento della ricerca è quello di generare teorie saldamente ancorate ai dati e al processo di analisi. Queste teorie, definite come working theories (Lincoln & Guba, 1985), non solo “lavorano”, operano e si applicano nel contesto specifico di indagine, ma possono essere trasferite ad altri contesti simili. La metodologia adottata è quella della Grounded Theory (GT nel testo), intesa, secondo Tarozzi, come “una metodologia che contiene varie indicazioni procedurali” e che “può essere considerata […] sia uno sguardo teorico sulle tecniche di raccolta e analisi (”un metodo generale”), sia un “insieme di procedure” e di strumenti concreti per raccogliere e analizzare i dati” (2008, p. 10). L’esplorazione ha dunque cercato di identificare “regolarità di tipo concettuale tra i fenomeni da organizzare” (ivi, p. 13), con l’obiettivo di sviluppare una concettualizzazione densa, un modello teorico in grado di descrivere i fenomeni, per poi (in una possibile seconda fase della ricerca) supportare l’agire degli/delle insegnanti. A tal fine, si è adottata una struttura a “spirale” (Tarozzi, 2007, p. 40; Mortari, 2008, p. 150), in cui la raccolta dei dati, l’analisi e la teorizzazione non sono semplicemente tappe successive di un processo lineare, ma stadi che si alternano e interagiscono costantemente, al fine di generare un’“interpretazione teoreticamente informata” (Strauss & Corbin, 1990, p. 22).
La formulazione delle domande per le interviste si è concentrata sull’analisi del modello di Play-based Learning proposto da Pyle e Danniels (2017) che contempla sia il gioco libero che l’apprendimento per scoperta, ma anche l’uso dei giochi didattici (Seitz & Berti, 2023). Sebbene il modello sia stato originariamente concepito per la scuola dell’infanzia, abbiamo scelto di adattarlo ai bambini in età scolare primaria, ritenendolo efficace nel delineare in modo euristico le possibili funzioni del gioco in questo contesto educativo (cfr. Wood, 2022). Ben presto, tuttavia, è emersa una certa perplessità riguardo all’idea di intervistare gli insegnanti in modo mirato sulla categoria del “gioco”. Questo timore è giustificato dalla letteratura che evidenzia come, nella scuola primaria italiana, persistano le forti contrapposizioni tra apprendimento e gioco, e tra lezione e ricreazione (Farné, 2016; Staccioli, 2006; Berti, 2022). Come sottolinea Thibault è come se il termine “gioco” abbia bisogno di un termine antitetico quale “lavoro” o “apprendimento” per essere definito. In una prospettiva semiotica “il termine opposto è generalmente identificato in qualche attività sostanziale che si distingue dalla leggerezza e dall’elusività del gioco” (Thibault, 2020, p. 35).
Nelle interviste, dunque, si è scelto consapevolmente di evitare un riferimento diretto al “gioco”, spostando invece l’attenzione sulla gestione degli spazi e sull’organizzazione del tempo scolastico, nonché sulle dinamiche relazionali tra i bambini. Già dopo l’analisi delle prime interviste è emerso che gli insegnanti sono in vario modo attenti non solo all’apprendimento, ma anche al benessere dei bambini (Berti, Hamacher, & Seitz, 2023). Pertanto, dopo la prima codifica, le domande sono state in parte riformulate, così da approfondire aspetti relativi alla relazione spazio e benessere: ad esempio, lo spazio in cui star bene, lo spazio dello stare assieme, per fare amicizia, etc.
3.1 Dai concetti sensibilizzanti alle domande di ricerca
La formulazione delle domande per le interviste, così come per le domande di ricerca, è stata realizzata attraverso la formulazione di concetti sensibilizzanti (sensitizing concepts) ovvero “modi di vedere, organizzare e comprendere l’esperienza” (Charmaz, 2003, p. 259, traduzione propria), evitando di avvalersi di concetti stabiliti a priori (Blumer, 1954, p. 7).
I concetti sensibilizzanti identificati sono stati:
spazi per il gioco;
imparare giocando;
cornice ludica (Bateson)
situazioni quotidiane (a scuola) proposte in modo ludico (Petillon, 2015).
Tali concetti, molto aperti ed espressi in forma semplice, hanno fornito un quadro di riferimento per l’iniziale formulazione delle domande di ricerca (grounded theory questions): Quale percezione hanno gli insegnanti dei bambini a scuola? Come descrivono l’uso degli spazi, fisici e relazionali, in relazione al benessere? In che modo riconoscono l’aspetto dell’amicizia tra i bambini a scuola?
A partire da queste domande aperte e generative, sono state quindi sviluppate domande secondarie più dettagliate e specifiche.
3.2 Campionamento e raccolta dati
La ricerca naturalistica si concentra su un numero ristretto di soggetti, selezionati in base alla loro rilevanza (purposeful sampling, Merriam, 2009), ritenendoli sufficienti per la comprensione profonda del contesto (Mortari, Valbusa & Ubbiali, 2020). Dopo aver individuato le scuole, selezionate per la loro varietà linguistica, il contesto (urbano/rurale), le dimensioni e i metodi didattici, sono state condotte 10 interviste semi-strutturate di tipo narrativo (Rosenthal, 2018). Questo strumento è risultato particolarmente idoneo per rispettare i principi di apertura e aderenza al fenomeno, caratteristici della GT. In particolare, in linea con una GT costruttivista, la conduzione delle interviste ha inteso “far emergere i significati, gli assunti impliciti, le regole tacite che guidano i comportamenti e danno senso agli eventi” (Tarozzi, 2008, p. 78). Grazie alle domande guida, gli insegnanti hanno avuto l’opportunità di esprimersi attraverso lunghe narrazioni, favorendo una riflessione approfondita generata durante il momento dell’intervista stessa.
Le domande sono state suddivise in domande principali, secondarie e temi di riferimento. Le domande principali si concentravano sull’avvio e lo sviluppo della giornata scolastica dei bambini, sull’utilizzo degli spazi di apprendimento e sul ruolo che questi spazi rivestono nella loro vita sociale e nel loro benessere. Le domande secondarie avevano l’obiettivo di far emergere le esperienze dei bambini attraverso i racconti degli insegnanti, invitandoli a condividere i momenti e i luoghi in cui i bambini si sentono più a loro agio, oltre alle opportunità di socializzazione e di formazione di amicizie. I temi di riferimento, infine, si focalizzavano sul tempo e sugli spazi scolastici, esplorando il loro impatto sul benessere dei bambini e sulle opportunità di incontro e relazione.
Le interviste si sono concluse con una domanda finale, che ha invitato gli intervistati a esprimere liberamente le loro opinioni riguardo alcune fotografie che ritraevano bambini e adulti in situazioni facilmente interpretabili come gioco. Gli intervistati hanno potuto descrivere queste immagini attraverso associazioni libere, in un approccio tipico della sociologia epistemica (Coulter, 1989). A differenza della sociologia visuale, che si concentra su contesti specifici in cui i partecipanti vivono e/o lavorano, in questo caso sono state presentate foto-stimolo che compongono un “paesaggio visivo” (visual landscape), concepito per arricchire l’intervista con un elemento di suggestione emotiva. Questo approccio, descritto da Sormano (2006, p. 1) come “un particolare tipo di pratica del linguaggio, in cui chi descrive a parole ciò che osserva con gli occhi”, ha creato uno spazio di interpretazione aperta, consentendo agli insegnanti di rielaborare le proprie esperienze senza essere influenzati o guidati da stimoli verbali.
4 Analisi
In linea con la GT, lo scopo delle interviste non è stato semplicemente quello di raccogliere fatti, ma di documentare le esperienze, i punti di vista e le interpretazioni degli insegnanti rispetto al loro operato. Come sottolinea Tarozzi, “la trascrizione delle interviste è parte della codifica” (2008, p. 86) e pertanto acquista valore se compiuta manualmente, analizzando i passaggi parola per parola, dando valore anche alle pause e all’interazione con le intervistatrici. In altre parole, non ci si è avvalsi di software di analisi, sia perché la quantità di dati era gestibile “su carta”, sia perché, nella GT, ogni passaggio analitico rappresenta un processo “un momento cognitivo, un momento di riflessione che va toccato, gestito e vissuto sensorialmente, allo scopo di non alterare l’esperienza di ricerca” (Consalvo, 2020, p. 74).
I concetti sensibilizzanti hanno orientato non solo la formulazione delle domande e la conduzione delle interviste, ma anche il processo di codifica iniziale, creando un dialogo continuo con le fasi successive di raccolta dati. Questo ha generato un percorso a spirale in cui le diverse fasi di codifica – prima aperta e poi focalizzata – hanno portato alle prime intuizioni teoriche. Per ciascuna intervista è stata elaborata una griglia di codifica che, dalla creazione delle prime etichette, ha portato all’identificazione delle categorie, in particolare della core category, “quella categoria centrale che rappresenta il concetto organizzatore principale di un’area di ricerca che può essere individuato induttivamente, procedendo nel lavoro di gerarchizzazione delle categorie emerse dai dati” (Tarozzi, 2008, p. 54). In fase di analisi e teorizzazione si è tenuto inoltre conto dei memo scritti dalle ricercatrici. Questi appunti riflessivi sono stati capaci di integrare i dati sul campo, rappresentando “la registrazione scritta del pensiero del ricercatore” (Mohajan & Mohajan, 2022, p. 1, traduzione propria) e tracciando la storia del processo di concettualizzazione teorica.
4.1 Genesi e sviluppo delle categorie
In fase iniziale l’analisi si è concentrata sull’interrelazione tra ambiente, azioni e relazioni portando così le ricercatrici a identificare un sistema di categorie e una core category, inizialmente denominata “sistema ludico”. A metà percorso, tuttavia, questa categoria è stata rinominata “spazio ludico”, un termine considerato più idoneo a contenere la varietà dei pensieri portati dagli insegnanti. La metafora spaziale, infatti, riconduce all’idea di “cornice ludica” (play frame) proposta da Bateson (1984), che non si limita alla semplice azione di gioco (game), ma si riferisce all’insieme delle interazioni tra spazio, materiali ludici, soggetti giocanti e spettatori. L’idea di spazio ludico si è rivelata particolarmente adatta per descrivere i vari elementi che compongono lo spazio fisico della scuola, comprese le aule, i corridoi, il cortile e il territorio circostante, così come lo spazio relazionale, ovvero i luoghi in cui i bambini si sentono a loro agio, si appartano e giocano.
Questa core category descrive, quindi, un orientamento pedagogico in cui la progettazione include momenti di gioco libero, attività ludiche e didattica ludica, insieme a proposte cooperative per un apprendimento attivo e per promuovere la socializzazione tra i bambini. Sviluppata in modo induttivo, la categoria è strettamente collegata alla metafora dello spazio proposta da Bateson (1984) in relazione al gioco. Secondo Bateson, il gioco e la giocosità non sono semplicemente azioni in sé, ma una serie di interazioni tra spazio, oggetti e soggetti. Pertanto, lo “spazio ludico” si riferisce a un contesto semiotico capace di generare segni e significati (Thibault, 2020), conferendo così all’ambiente un’agenzia specifica per il gioco. Inoltre, l’idea di spazio ludico, non riconduce uno spazio fisico, ma si estende ad un contesto semiotico che genera ulteriori segni e significati (Thibault, 2020). In questo senso, la modifica dello “spazio” assume un’importanza particolare poiché può facilitare aspetti relazionali come la partecipazione e la cooperazione.
L’individuazione della categoria centrale ha permesso di avviare il processo di concettualizzazione teorica, tracciato attraverso memo e diagrammi di analisi simili a mappe concettuali (Fig. 1) che rappresentano, progressivamente, il sistema in cui ogni categoria è inserita (Clarke, 2003).
Di seguito sono presentate le categorie secondarie emerse, le quali descrivono gli elementi principali che definiscono e caratterizzano la core category, ovvero lo “spazio ludico”.
4.1.1 Attenzione al gioco e al ludico
La letteratura sul gioco a scuola tende a concentrarsi principalmente sul contesto della scuola dell’infanzia e meno su quello della scuola primaria. Questo riflette l’idea che l’apprendimento debba essere considerato un’attività seria (serious learning), focalizzata sui contenuti delle singole materie (Bodrova & Leong, 2003). Le ricerche che esplorano un continuum tra gioco e apprendimento, in particolare nel passaggio dalla scuola dell’infanzia alla scuola primaria, sono ancora relativamente scarse (Wilders & Wood, 2023). Tuttavia, come evidenziato da Sandberg e Heden (2011), gli insegnanti della scuola primaria mostrano un crescente interesse per l’apprendimento di tipo ludico. Inoltre, in modo più o meno esplicito, riconoscono la relazione positiva tra gioco e apprendimento.
Sostenendo attentamente il gioco, senza dominarlo o interromperlo, gli insegnanti possono favorire l’apprendimento e lo sviluppo dei bambini. Non si tratta solo di un’attività piacevole, ma di un processo fondamentale attraverso il quale i bambini apprendono. Il gioco potenzia le capacità di problem-solving e crea opportunità per sperimentare e diventare creativi (Ibid., p. 319, traduzione propria).
Nella creazione di un contesto di classe ludico, è fondamentale che l’attenzione agli obiettivi di apprendimento sia affiancata da una forte interazione tra i membri della classe. Inoltre, la motivazione individuale di ciascun alunno riveste un’importanza maggiore rispetto al gioco in sé, poiché la prima rappresenta un ‘atteggiamento mentale’, mentre il secondo è solo una manifestazione esteriore e temporanea di tale atteggiamento (Dewey, 1994, p. 162). In Come pensiamo (1994) il filosofo esplora questo tema, evidenziando che l’apprendimento nei bambini avviene lungo un “filo di continuità” tra gioco e lavoro, due categorie frequentemente separate dagli adulti, con le quali si suole indicare “un interesse per un’attività così come scorre da un momento all’altro, e un interesse per un’attività che tende a un culmine”. Pertanto, l’apprendimento si realizza attraverso l’incontro tra giocosità mentale e serietà mentale (mental playfulness e mental seriousness).
Questo passaggio è spiegato attraverso l’esempio dell’artista che appunto gioca nel momento di creare, e sta immerso, al tempo stesso, nel processo, lavora dominando la tecnica, al fine di creare l’opera. L’insegnante, conclude Dewey, è esso stesso un artista nel momento in cui riesce a stimolare nei bambini la giocosità e la serietà propri dell’artista. Analizzando le interviste abbiamo riconosciuto in molti passaggi questa arte, nello stesso mettersi in gioco degli insegnanti.
Io ci tengo sempre molto a far nascere nei bambini la curiosità della cosa che stiamo facendo, fargli scoprire da soli le cose che stiamo facendo. E quindi gli propongo sempre dei giochi su delle schede, poi giochi da fare insieme e da inventarsi …perché per me è importante che in loro nasca la curiosità e che anche fuori da scuola vogliano approfondire questa cosa e vadano a cercarla… (Scuola 2, insegnante IC)
Penso che se ispiri i bambini, se mostri loro entusiasmo, allora sono davvero felici…poi naturalmente ci deve essere varietà, perché noi cerchiamo di rendere le lezioni varie, il che significa che possono scegliere il lavoro in autonomia, secondo un certo piano da seguire, e penso che a loro piaccia molto questo lavoro indipendente e auto-organizzato e penso anche che li aiuti a sviluppare molta fiducia in se stessi… (Scuola 1, insegnante LA)
Gli insegnanti intervistati sembrano essere fortemente motivati a coltivare la dimensione esplorativa dell’esperienza scolastica, suscitando l’entusiasmo e la curiosità nei bambini. L’apprendimento per scoperta, il lavoro autonomo e la libera iniziativa si configurano come le chiavi attraverso cui non solo accompagnare gli alunni in un percorso di autodeterminazione e costruzione di sé, ma anche creare le condizioni per stimolare un atteggiamento di continua ricerca. Questi aspetti richiamano il concetto di “tensione cognitiva”, introdotto da Manzi, che si riferisce al bisogno del bambino di interrogarsi sui fenomeni attraverso domande nate da uno stato di “insoddisfazione”, spinto dal desiderio di comprendere e conoscere (Manzi in Farnè, 2014), così come dalle domande generative proposte dagli adulti.
4.1.3 La scelta libera
Emerge, infine, una particolare attenzione rivolta ai momenti di gioco vero e proprio, in particolare nella forma del gioco libero, non mediato dall’adulto. Questo aspetto ha portato le ricercatrici a teorizzare come le condizioni create dagli insegnanti diano forma a una cornice organica, precedentemente definita come “spazio ludico”. Tale spazio è caratterizzato non solo dalla “gestione giocosa di situazioni quotidiane” (Petillon, 2014), ma anche dalla possibilità per i bambini di giocare e lavorare insieme, scegliendo autonomamente le attività e gli spazi in cui svolgerle. Gli insegnanti intervistati dimostrano una particolare attenzione nella preparazione dell’ambiente affinché i bambini si sentano a proprio agio e possano trovare luoghi in cui coltivare il confronto e la relazione. Oltre ai semplici obiettivi didattici, emerge quindi una cura speciale per il benessere dei bambini, con un’attenzione non solo al “cosa” ma anche al “come”.
…in questi momenti i bambini hanno la possibilità, ad esempio, di passare il loro tempo nell’angolo della lettura; poi abbiamo anche un caffè letterario: lì hanno una tenda da campeggio, una bella poltrona, e visto che è al buio possono leggere utilizzando una torcia. C’è anche una sedia a dondolo… (Scuola 1, insegnante LA)
Della loro giornata scolastica penso che apprezzino molto il “lavoro libero” e la possibilità di creare presentazioni che fanno regolarmente, magari anche a coppie o singolarmente; quindi, preparare dei temi che poi espongono alla classe, perché si sentono liberi di poter lavorare, di cercare anche attraverso il computer o preparare materiale particolare… Per noi insegnanti sono momenti in cui…quando ci troviamo a confrontarci tra insegnanti, gli esempi e le riflessioni che portiamo riguardano ciò che vediamo durante il “lavoro libero”, più che nella pausa. Si riescono a vedere quelle dinamiche… (Scuola 3, insegnante IA)
Per gli insegnanti intervistati, la libertà di scelta si realizza in diversi modi. Il piacere di lavorare insieme cresce, ad esempio, quando l’adulto offre ai bambini, suddivisi in piccoli gruppi, la possibilità di scegliere tra diverse attività o di decidere le modalità di realizzazione di un’attività comune. In altre parole, si lasciano spazi di autonomia, come la gestione del tempo e la scelta del luogo in cui svolgere il compito. Gli insegnanti dimostrano consapevolezza del fatto che questa libertà di gestione consente ai bambini di sviluppare competenze organizzative e di pianificazione, mentre il lavoro in piccoli gruppi promuove la collaborazione e il rispetto reciproco. Questi fenomeni si manifestano soprattutto quando si abbandona una didattica eterodiretta e frontale, a favore di un approccio più aperto e partecipativo (Peschel, 2003).
4.1.4 L’ambiente organizzato
Il lavoro autonomo e in piccoli gruppi è supportato da un ambiente “ben organizzato”, che non si limita a offrire una varietà di materiali e strumenti utili ai traguardi didattici, ma che pone uguale attenzione al benessere dei bambini (Stone, 2017). Questo si traduce nel creare uno spazio che non solo promuove l’apprendimento, ma che viene vissuto con piacere, perché è un luogo in cui ci si sente a proprio agio e si sta bene.
Penso che a loro piacciano molto queste aule perché entrano e vedono le diverse cose che sono state preparate per loro e sono molto eccitati e curiosi e chiedono: Cosa facciamo oggi con questo? Oppure: Cos’è quello? E penso che sia sempre molto eccitante entrare in classe e vedere cosa l’insegnante ha preparato e capire già cosa si farà quel giorno. In quest’aula penso che preferiscano stare nella tenda perché lì possono leggere appartati. Amano anche uscire dall’aula per lavorare in gruppo o si mettono sul pavimento, dove c’è silenzio, o si siedono in un angolo mentre leggono, dove sono un po’ appartati e un po’ tra di loro… (Scuola 1, insegnante LB)
Se c’è il bambino che ha bisogno di maggiore silenzio per concentrarsi può andare “nell’auletta del riposo”, oppure se c’è quello che ha bisogno di non guardarsi intorno può mettersi dei pannelli intorno al banco per concentrarsi, oppure se c’è quello che ha bisogno di muoversi un attimo, c’è quella pedana per sgranchirsi un attimo…in generale viene tenuto conto delle particolarità del bambino per permettergli di svolgere le attività al meglio delle sue possibilità. (Scuola 3, insegnante IA)
La disponibilità e la fiducia degli insegnanti nei confronti dei bambini emergono in numerosi passaggi: l’uso di materiali e la creazione di situazioni che stimolano autonomia e piacere vengono riconosciuti come strumenti fondamentali per il benessere degli alunni e risultano indispensabili per costruire ambienti che promuovano la collaborazione. Questa prospettiva, espressa con forza dalle parole degli insegnanti, apre a una riflessione più ampia sul potenziale della scuola intesa come uno spazio ludico. Uno “spazio ludico” stimola la curiosità e favorisce l’apprendimento per scoperta. La struttura preparata, combinata con la libertà di scelta offerta ai bambini sostiene l’eterogeneità del gruppo in quanto rende possibile al suo interno una differenziazione indiretta, non guidata direttamente dall’insegnante, ma promossa dall’ambiente stesso e che permette ai bambini di esplorare e sviluppare le proprie inclinazioni in modo autonomo.
Il momento leggero, ludico, come ad esempio leggere all’interno di una tenda, racchiude una dimensione profonda e complessa che gli insegnanti riconoscono. Se considerato come un generatore di benessere, il gioco può svolgere un ruolo centrale nello sviluppo cognitivo, emotivo e sociale dei bambini. Questa modalità di apprendimento consente di esplorare e comprendere il mondo circostante in un ambiente sicuro e creativo, promuovendo sia esperienze individuali sia interazioni reciproche all’interno di contesti di gruppo. La progettazione di un “ambiente ludico organizzato” non si limita quindi alla mera funzionalità, ma integra anche aspetti estetici e affettivi che contribuiscono a creare un contesto piacevole e stimolante. In questo modo i bambini si sentono liberi di esplorare e apprendere in autonomia, trovando nel gioco uno strumento naturale di crescita e sviluppo. In questa riflessione l’aspetto dello spazio inteso come “ludico” si fa esplicito, in quanto emerge la centralità del piacere, essenza stessa del gioco. Se, come affermato da Caillois (1967), il gioco è un’attività caratterizzata da “libertà” e “piacere”, allora un ambiente ben progettato deve riflettere queste qualità per sostenere efficacemente l’autonomia e l’apprendimento dei bambini.
4.1.5 Il valore dei non-tempi
I “non tempi” a scuola si riferiscono a quei momenti che non sono strettamente legati alla didattica formale, ma che svolgono comunque un ruolo importante nell’esperienza educativa degli alunni. Questi “non tempi” non sono pianificati come lezioni tradizionali, ma si riferiscono a spazi e momenti che, pur non essendo strutturati come parte del curricolo ufficiale, sono ritenuti fondamentali per lo sviluppo sociale, emotivo e relazionale degli alunni. Tra questi ci sono le ricreazioni e i momenti di transizione (periodi di cambio tra le attività, come il passaggio da una lezione all’altra o il cambiare aula); le attività extra-curricolari o gruppi di interesse che non sono strettamente legate al curricolo, ma che contribuiscono alla formazione globale dei bambini; gli spazi di incontro non necessariamente organizzati e i diversi momenti di socializzazione e tutte le attività di riflessione e discussione informale tra alunni e tra alunni e insegnanti. In quest’ottica la scuola diventa un luogo che mette al centro il benessere e che offre, a chi la vive, opportunità preziose di interazione sociale informale, contribuendo al benessere mentale e fisico.
…i bambini possono entrare direttamente a scuola da soli, poi si spogliano e si intrattengono nelle aule fino a quando non suoniamo la campanella. Poi suoniamo il triangolo e tutti vengono qui, possono poi giocare o chiacchierare, possono anche muoversi liberamente e noi come insegnanti siamo semplicemente presenti in classe, ma sì, i bambini possono intrattenersi nelle aule come vogliono… (Scuola 3, insegnante IB)
…si accolgono i bambini salutandoli e c’è sempre il bambino che ha bisogno di raccontarti dell’accaduto della sera prima, del litigio avvenuto sulle scale, c’è già qualcosa di cui dover discutere o più semplicemente la voglia di una coccola, di un abbraccio, c’è il bambino assonnato, il bambino che arriva che ha già fame, quello che deve andare in bagno… è una situazione in cui si cerca di mettere in tranquillità tutti…
È chiaro che stando fuori c’è la chiacchiera, c’è la passeggiata, c’è la battuta, quello che in classe sotto gli occhi dell’insegnante non ti puoi permettere. Però va bene… (Scuola 3, insegnante IB)
Gli insegnanti sembrano riconoscere l’importanza dei “non tempi”, ovvero di quei momenti che rompono la rigida scansione dell’orario scolastico o della struttura didattica. Questi momenti includono l’arrivo dei bambini, il loro ingresso a scuola e la preparazione per la giornata, così come i cambi d’ora e le pause per esigenze personali come andare in bagno, temperare una matita o concedersi un breve intervallo. Ma anche i lavori di gruppo e le interazioni durante i momenti di lavoro libero in cui si lavora insieme o autonomamente su compiti o progetti specifici.
Pertanto, pur riconoscendo l’importanza della programmazione didattica, gli insegnanti dimostrano di essere disponibili a lasciare spazio e creare occasioni di benessere, amicizia e cooperazione tra i bambini. In questo senso incoraggiano momenti informali, discussioni aperte, attività di gruppo e progetti collaborativi, valorizzando anche le pause e le attività extrascolastiche. Valorizzare i “non tempi” significa, dunque, riconoscere che i bambini a scuola sono sia bambini, sia alunni (Frabboni, 2014). Adottare questa prospettiva implica una cura particolare per le relazioni interpersonali e la possibilità di fare e coltivare amicizie, aspetti che non devono essere considerati marginali, ma piuttosto come elementi fondamentali per la crescita emotiva e il benessere. In questo modo, i bambini si sentono riconosciuti e apprezzati non solo per i risultati, ma anche nella loro interezza, come individui e membri del gruppo classe.
La creazione di uno “spazio ludico”, quindi, implica il superamento dei confini fisici dell’aula scolastica e la rigida scansione del tempo scuola. Dall’analisi dei dati emerge come gli insegnanti riconoscano l’importanza di quelli che, in questo lavoro, abbiamo definito come “non tempi”, ovvero momenti che si collocano negli interstizi tra il cambio delle lezioni, come anche nelle pause lunghe e in un tempo rallentato della lezione. In questa sorta di spiragli i bambini si attivano, entrano in relazioni spontanee tra di loro, ampliando così la possibilità di coltivare amicizie e vivere la scuola come momento e luogo di benessere quotidiano. Questi aspetti rappresentano bisogni essenziali che vengono supportati dagli insegnanti solo quando vengono riconosciuti e valorizzati.
5 Conclusioni: sviluppo di nuovi ambiti concettuali
L’analisi delle interviste ha rivelato come gli insegnanti associno il benessere dei bambini a scuola ai diversi momenti di socializzazione, pausa, gioco e autonomia. Questi momenti si verificano negli interstizi dei tempi propri dell’istituzione scuola: la mattina prima di iniziare la lezione o tra una lezione e l’altra. Non solo nell’intervallo. Gli insegnanti dimostrano di riconoscere e sostenere questi momenti accogliendo, ad esempio, il “chiacchierare” durante il lavoro di gruppo, le pause durante il lavoro libero (Freiarbeit) o la possibilità di estendere la ricreazione.
Prendendo in prestito un termine dall’antropologia, possiamo definire questo spazio di benessere come uno “spazio liminale”, un’area di transizione che si rivela fortemente generativa.5 Nel riferirci qui metaforicamente allo “spazio liminale” come luogo di benessere a scuola, riteniamo che riconoscerne il potenziale favorisca un’interazione proficua tra gioco e apprendimento nella scuola primaria. L’idea di “liminalità”, infatti, permette di mettere in evidenza e valorizzare le opportunità che si aprono tra un’attività e l’altra, quando questo spazio, sia esso fisico che metaforico, venga abitato, ad esempio attraverso tempi dilatati durante un’attività come anche tra diverse attività. In tali momenti, l’esperienza acquisisce un potenziale creativo e generativo, riducendo i confini tra gioco e apprendimento.
Questa riflessione sollecita un approfondimento sul concetto di spazio liminale, inteso come un’area ibrida tra diversi momenti della vita scolastica, vissuta dai bambini con una particolare qualità di benessere individuale e relazionale, oppure come un profondo piacere nell’immergersi in attività di esplorazione. Il concetto si presta a un’estensione più ampia, che include la riflessione sugli ambienti fisici e relazionali della scuola primaria, permettendo di esplorarne gli interstizi e le dinamiche trasformative. In questo senso, i concetti di spazio liminale e liminalità delineano un luogo interstiziale in cui l’individuo sperimenta al tempo stesso continuità e alterità, dando origine a trasformazioni culturali e nuove forme discorsive (Chakraborty, 2016, p. 145). Già a metà degli anni Ottanta, l’antropologo culturale Victor Turner descriveva la liminalità come: “Un caos fertile, un serbatoio di possibilità, non un insieme casuale, ma un impulso verso nuove forme e strutture, un processo di gestazione, un’incubazione di modalità adeguate all’esistenza post-liminale” (Turner, 1986, p. 42, traduzione propria). Tale prospettiva evidenzia come lo spazio liminale non sia una semplice fase di transizione, ma un terreno ricco di potenzialità, in cui nuove configurazioni emergono e si sviluppano, offrendo ai bambini un contesto dinamico e generativo per la crescita personale e collettiva.
Gli insegnanti intervistati mostrano di riconoscere, seppure inconsapevolmente, il valore di questo spazio, concedendo tempi dilatati e prestando particolare attenzione all’osservazione dei bambini. La ricerca evidenzia l’importanza cruciale del ruolo degli insegnanti, che sembrano possedere una conoscenza tacita ma significativa riguardo al benessere dei bambini e al valore del gioco e delle amicizie. Eppure, spesso non sono pienamente consapevoli della centralità di questi elementi nella loro pratica professionale. Il concetto di benessere, infatti, è strettamente legato al clima scolastico, due aspetti che si influenzano reciprocamente. Sebbene non esista una definizione universale di clima scolastico, esso può essere generalmente inteso come la qualità della vita a scuola, sia per gli studenti che per gli insegnanti, e si intreccia con valori, norme, relazioni interpersonali, interazioni sociali, organizzazione e cultura scolastica (Hascher, Kramer & Pallesen, 2020). Poiché questi aspetti non sono sempre riconosciuti, soprattutto da attori esterni come dirigenti e genitori, la ricerca suggerisce di integrarli nel futuro sviluppo professionale degli insegnanti, al fine di promuovere una maggiore consapevolezza e un’efficace applicazione di tali fattori nella loro pratica quotidiana. In questo contesto, la qualità della relazione tra insegnante e alunno, così come le strategie di gestione e organizzazione della classe, sono fondamentali per creare un clima scolastico positivo (Brophy-Herb et al., 2007). Tali dinamiche si rivelano essenziali anche per promuovere una cultura del gioco e del ludico all’interno della scuola. Una conclusione preliminare, pertanto, sottolinea l’importanza di sviluppare una cultura scolastica condivisa attraverso un lavoro collegiale e riflessivo, come proposto da Booth e Ainscow (2011).
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I termini utilizzati per descrivere ruoli professionali e gruppi di persone sono da intendersi in forma inclusiva. Le espressioni “insegnante” e “bambino”, ad esempio, sono utilizzate per riferirsi a tutte le persone che ricoprono tali ruoli, senza distinzione di genere. Qualsiasi riferimento specifico a generi maschili o femminili ha esclusivamente lo scopo di semplificare la lettura e non implica discriminazione.↩︎
Gli studi sul gioco, in generale, riconoscono nel play una infinita varietà di spazi, tempi, forme, materiali (Sutton-Smith, 1997) e nei games i giochi regolati da regole più o meno strutturate (Berti, 2023).↩︎
Il campionamento intenzionale è una pratica comune e fondamentale nella Grounded Theory ed è particolarmente adatto a ricerche qualitative che mirano ottenere dati ricchi e significativi che possano contribuire all’emergere di concetti e teorie. Si utilizza, oltre che per generare una teoria ancorata nei dati, anche garantire una certa flessibilità durante il processo di ricerca. La Grounded Theory, infatti, permette ai ricercatori di modificare e adattare il campionamento durante il processo di raccolta dei dati (theoretical sampling) e di rispettare la natura iterativa di questo processo di ricerca. Man mano che emergono nuovi concetti, infatti, i ricercatori possono selezionare ulteriori partecipanti che possano contribuire a esplorare e approfondire i temi emergenti.↩︎
Il termine “substantive theory” è utilizzato principalmente da Barney G. Glaser e Anselm L. Strauss, i fondatori della Grounded Theory. Nella loro opera, The Discovery of Grounded Theory (1967), introducono la distinzione tra teoria sostanziale e teoria formale, allo scopo di evidenziare che le teorie generate dalla GT possono variare in termini di astrazione, dal contesto specifico (teoria sostanziale) a un livello più generale e universale (teoria formale). Il passaggio dal piano sostanziale a quello formale è un processo che implica un’evoluzione della teoria emergente, che potrà essere fatto in una seconda fase della ricerca.↩︎
Il concetto di liminalità ha guadagnato popolarità a metà degli anni Ottanta grazie al lavoro dell’antropologo britannico Victor Turner, il quale ha mutuato il termine da I riti di passaggio (1909) dell’antropologo francese Arnold van Gennep. Quest’ultimo distingue tre fasi in un rito di passaggio: separazione, transizione e incorporazione. Turner si è focalizzato sulla fase intermedia, definita da van Gennep “margine” o “limen”, in cui i soggetti si muovono attraverso un’area di ambiguità temporale e spaziale, descritta come “una sorta di limbo sociale”. In questa fase, gli individui si distaccano dal loro stato sociale precedente senza aver ancora assunto quello successivo (Turner, 1986, p. 58). Un esempio classico è il rito di iniziazione, in cui il giovane, nella fase liminale, non è più un bambino ma non è ancora un adulto, vivendo una condizione transitoria che dura per l’intero rito e spesso caratterizzata da una separazione fisica dall’intera società (Ibid.). Turner ha descritto la liminalità come “un caos fecondo, un magazzino di possibilità”, non tanto “un assemblaggio casuale quanto piuttosto l’opportunità di cercare nuove forme e strutture”, un processo che può generare nuove strutture (Ibid., p. 42). Il termine è stato poi adottato nel dibattito postcoloniale per riferirsi agli interstizi in cui le culture si incrociano, dando origine a nuove realtà. Homi Bhabha, in particolare, in I luoghi della cultura (2001), parla di liminalità come di uno stato transitorio, intriso di potenziale sovversivo e di cambiamento. Gli individui che si trovano tra due culture, vivendo una condizione di transizione e dislocamento (displacement), sperimentano la creazione di nuovi significati culturali. Nell’analisi culturale, Bhabha utilizza l’immagine di uno spazio liminale, non come un confine rigido, ma come una soglia porosa e fluida, da attraversare continuamente.↩︎