Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education. Vol.29 n.72 (2025), 43–56
ISSN 1825-8670

“Il posto delle fragole” nell’Intelligenza Artificiale. Riflessioni pedagogiche sull’irriducibile umano

Luana Di ProfioUniversità degli Studi “G. d’Annunzio” Chieti-Pescara (Italy)
ORCID https://orcid.org/0000-0001-7178-7478

Ricercatrice  di  Pedagogia  generale  e  sociale  presso  l’Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara, Dipartimento di Economia Aziendale (DEA). Autrice di diversi studi che toccano l’ambito dell’epistemologia pedagogica, della media education, dell’educazione interiore, dell’educazione estetica e quello della pedagogia della devianza e della marginalità, con filoni di ricerca applicati a diversi contesti empirici nell’ambito scolastico e penale (pedagogia penitenziaria e funzione rieducativa della pena). Insegna materie pedagogiche in diversi Corsi di Studio. 

Ricevuto: 2025-02-18 – Accettato: 2025-06-20 – Pubblicato: 2025-08-06

“Wild strawberries” in Artificial Intelligence: Pedagogical Reflections on the Irreducible Human

Abstract

What is occurring with the new A.I. is the inscription into reality of new forms of agere, but not of intelligere. But the moral, creative, poetic, artistic, aesthetic and educational agere and intelligere will remain, even in the face of science-fictional perspectives, exclusively human prerogatives and responsibilities, those that allow us to recognise the beauty and poetry inherent in blackberry brambles and wild strawberries, white daisies, yellow buttercups or lilac carpets of veronicas in a fallow meadow, preserving them from the blindness of indiscriminate cutting determined by a blind algorithm. Machines that do not know, do not see and do not feel feelings, neither in the sphere of the emotional sphere, nor in that of the aesthetic and poetic dimension of man, which, as in Kant and Schiller, invites us to consider aesthetic judgement as part of the mind’s more refined faculties, together with the abilities of the rational mind, to be educated and refined in a game of harmony of the parts closely connected to genius, but also to the ingenuous and the sublime. Harmonic complexity of wisdom, intellect, reason and feeling, intuition and emotion that no machine can ever equal.

Quello che si sta verificando con la nuova I.A. è l’inscrizione nella realtà di nuove forme dell’agere, ma non dell’intelligere. Ma l’agere e l’intelligere morale, creativo, poetico, artistico, estetico ed educativo resteranno, anche dinanzi a prospettive fantascientifiche, prerogative e responsabilità esclusivamente umane, quelle che ci fanno riconoscere la bellezza e la poesia insita nei rovi di more e di fragole selvatiche, nelle margherite bianche, nei ranuncoli gialli o nei tappeti lilla di veronica di un prato incolto, preservandole dalla cecità del taglio indiscriminato determinato da un cieco algoritmo. Macchine che non sanno, non vedono e non provano sentimenti, né nell’ambito della sfera emotiva, né in quello della dimensione estetica e poetica dell’uomo che, come in Kant e Schiller, ci invita a considerare il giudizio estetico quale parte delle facoltà più raffinate della mente, insieme alle abilità della mente razionale, da educare e affinare in un gioco di armonia delle parti strettamente connesso al genio, ma anche all’ingenuo e al sublime. Complessità armonica di sapienza, intelletto, ragione e sentimento, intuizione ed emozione che nessuna macchina potrà mai eguagliare.

Keywords: Artificial Intelligence; Person; Ethical education; Educational relationship; Aesthetic.

1 Alle origini dell’Intelligenza Artificiale: oltre i confini dell’umano

Prima di iniziare la riflessione sull’I.A. in contesto educativo e formativo, è essenziale esplicitare il percorso che si intende compiere e i paradigmi teorici di riferimento. In tal senso, questo lavoro si colloca all’interno della cornice della Pedagogia critica da un lato, e dell’Approccio fenomenologico-ermeneutico dall’altro, tesi, da un lato, all’estrinsecazione dei fattori critici e problematici, e dall’altro a una valutazione descrittiva e interpretativa circa l’avvento e l’influenza dell’intelligenza artificiale nei più svariati campi dell’esistenza, compreso quello educativo, pedagogico e formativo. Obiettivo sarà quello di favorire ampi processi riflessivi sul tema, aumentando le conoscenze e le competenze utili anche alla difesa e alla salvaguardia dell’umano e della persona, nel rispetto della sua dignità e delle sue peculiarità specifiche; un approccio che cercherà di comprendere i fenomeni e le sue caratteristiche sociali, economiche e culturali, per meglio gestire e controllare gli effetti derivanti da un utilizzo errato o inconsapevole dell’I.A., specie in contesti formativi.

Estate 1956. Presso il Dartmouth College di Hanover, nello stato del New Hampshire, Stati Uniti d’America, si teneva la famosa Conferenza di Dartmouth, la Dartmouth Summer Research Project on Artificial Intelligence, che segnerà la nascita ufficiale dell’intelligenza artificiale, voluta dagli scienziati John McCarthy, Marvin Minsky, Nathaniel Rochester e Claude Shannon, alla presenza dei principali studiosi del tema, come Herbert Simon, dove si posero le basi definitive di quella nuova disciplina che così tanto avrebbe modificato il nostro modo di vivere, di conoscere e di pensare. Riassunta nelle tredici pagine del documento finale, gli esperti stabilirono i primi cardini della nuova disciplina parlando di reti neurali artificiali (Deep learning, DL, o apprendimento profondo), cibernetica, creatività, computazione, psicologia cognitiva (Pessa & Penna, 2000), informatica, ingegneria e di tutto quanto dello scibile umano potesse essere messo a servizio dell’I.A.

Quello a cui puntavano i pionieri dell’I.A. non riguardava soltanto la creazione di sistemi specialistici per coadiuvare il lavoro umano, alleggerendone i compiti ma, sin dall’inizio, essi ambivano alla realizzazione di sistemi dotati di intelligenza generale, intelligenza davvero pensante, con capacità di ragionamento indipendente e con meccanismi autonomi di visione, linguaggio, percezione, creatività (Newell, Shaw & Simon, 1994) ed emozione. Sogno, come spiega Margaret Boden, “più facile a dirsi che a farsi […]. L’AGI è il Santo Graal del campo della ricerca” (Boden, 2019, p. 26).

In sostanza, le macchine cosiddette intelligenti, non sono altro che sistemi di memoria computazionale in cui immettere una serie sempre più vasta di contenuti capaci, allo stato attuale, di simulare l’umano o di potenziarne le capacità in maniera straordinaria, come ad esempio nell’ambito matematico, diagnostico, scientifico o in quello della registrazione dei contenuti. La nuova frontiera dell’I.A., sulla base della riproduzione artificiale delle reti neurali, deep learning, con il supporto delle scienze cognitive, è in grado sì di generare un pensiero profondo delle macchine in maniera per lo più indipendente, tuttavia esse appaiono, allo stato attuale, ancora relativamente semplici e rudimentali per quello che concerne la qualità delle prestazioni e per la difficoltà di eguagliare le diverse forme di intelligenza umana (emotiva, creativa, musicale, cinestetica, ecc.), non riducibili alla mera intelligenza matematica e condizionate da numerosi altri fattori biologici. Come dimostrato dalle neuroscienze, infatti, i “circuiti biologici naturali possono qualche volta alterare la loro funzione computazionale […], grazie alle molecole chimiche che sono diffuse in tutto il cervello” (Boden, 2019, p. 94), richiamando l’attenzione sul ruolo dei neurotrasmettitori, come serotonina e dopamina, e in genere dell’influenza degli ormoni sul piano decisionale, cognitivo, creativo, emotivo, razionale e comportamentale.

In genere, i sistemi detti “intelligenti” godono di una certa autonomia, per esempio, nel generare una storia romanzata, un capitolo di Tesi (senza sufficiente fondatezza delle fonti), creare sceneggiature, produrre musica e altro ancora, ma in nessuna di queste attività può registrarsi un vero e proprio atto creativo, se non nella misura in cui si voglia intendere come atto creativo la semplice riorganizzazione delle informazioni di cui la macchina è in possesso e non un atto di riorganizzazione insolita, misteriosa e sorprendente di cose, realtà, forme artistiche e concetti. Quello che emerge dalle prove poetiche, accademiche e letterarie di I.A. è che, al contrario, i testi appaiono con una sintassi poco raffinata, stereotipati e carichi di luoghi comuni e di filoni di pensiero dominanti, organizzati in formule grammaticalmente goffe e didascaliche, dove spesso non è affatto arduo far fallire il “Test di Turing” (distinguere un’intelligenza umana da un’intelligenza artificiale). Analizzando le tre tipologie di creatività, Margaret Boden fa notare come la creatività combinatoria, intesa come combinazione inusuale di idee familiari che introducono una “sorpresa statistica” (Boden, 2019, p. 69), la creatività esplorativa, che usa modi di pensare e regole stilistiche generalmente accettati in ambito letterario o artistico, nella composizione musicale, nel cinema (Giacci, 2024), nella pittura, nella realizzazione di forme grafiche di arte (Panciroli & Rivoltella, 2023) e la creatività trasformativa, in cui “uno o più vincoli stilistici solo radicalmente alterati” (Boden, 2019, p. 70) sono forme di creatività che possono sì realizzarsi nell’I.A., ma senza che gli esiti possano risultare davvero capaci di eguagliare l’enigma irrisolto della creatività umana. Quello che va a connotare un atto creativo puro è dato “dalla forza emotivamente innovativa dello stupore, della sorpresa, dell’insolito, dell’imprevisto, dell’inatteso […] proprietà squisitamente umane per loro stessa caratteristica non programmabili in anticipo, e che gli algoritmi di un operatore automatico programmato per dare soluzioni logiche, univoche, predeterminate, per quanto abile ed evoluto, non potrà mai, per fortuna, fornire” (Giacci, 2024, p. 98). Nessun sistema Deep learning potrà, inoltre, mai essere dotato della capacità di significare le cose e gli eventi, essendo caratterizzato da un’irrimediabile «cecità semantica» (Andler, 2024, p. 125. Corsivo mio) e da un’incapacità generale di pensare e di elaborare le informazioni secondo il principio funzionalista e sistemico, che comprende anche una certa dose inesplicabile di mistero e di ineffabilità, come ci confermano gli studi, ancora enigmatici, sul cervello umano. Numerosi sono i difetti di sistema, i fattori di errore e gli inganni nei quali cadono i diversi dispositivi “intelligenti”, connotati da forme di fragilità e friabilità (brittle), da bias cognitivi e da euristiche inesatte (Kahneman, 2012), nelle quali la maggior parte degli esseri umani non cadrebbe, e che richiedono un addestramento/apprendimento della macchina che non potrà mai contemplare e prevedere tutte le casistiche dei fenomeni possibili nella realtà non inscritti e non previsti nel sistema.

Nella valutazione sia delle capacità “davvero intelligenti” dell’I.A. e dei suoi errori di sistema, sia delle sue ricadute sul piano soggettivo, sociale e morale, anche supponendo che i futuri sistemi AGI possano raggiungere il livello delle prestazioni umane, questi potrebbero essere definiti come “vera intelligenza, vera comprensione, vera creatività? Sarebbero dotati di un io, di valori morali, di libero arbitrio? Sarebbero coscienti? […]. Queste non sono domande scientifiche, ma filosofiche, e molte persone sanno intuitivamente che la risposta a ciascun interrogativo è: ‘Ovviamente no!’” (Boden, 2019, p. 119). Tuttavia, la corrente di pensiero apocalittica, detta singolarità, immagina, in un tempo vicino, il superamento dell’intelligenza artificiale su quella umana in tutti gli ambiti, trasformando l’I.A. in AGI e poi in ASI, dove la S sta per sovrumana, era nel transumanesimo dei robot. “Coloro che credono nella Singolarità (S-credenti) sostengono che i progressi dell’IA rendono la Singolarità inevitabile. Alcuni accolgono questo con favore, prevedendo che tutti i problemi dell’umanità siano risolti: la guerra, la malattia, la fame, la noia, perfino la morte… tutto finito. Altri presagiscono la fine dell’umanità, o, comunque, della civiltà come la conosciamo oggi” (Boden, 2019, p. 143). Ad essi si oppongono gli scettici sulla Singolarità, detti, (S-scettici), i quali “non si aspettano che la Singolarità possa realizzarsi, e di certo non in un futuro prevedibile. Ammettono che l’IA fornisca molti motivi di preoccupazione, ma non ci vedono una minaccia esistenziale” (Boden, 2019, p. 144). Posizione, quest’ultima, che trova il favore della Boden, consapevole, tuttavia, dell’esigenza di occuparsi seriamente dell’I.A. per ragioni sociali e pedagogiche imprescindibili. Frodi, disoccupazione tecnologica, usi illegali, cybersicurezza, applicazioni militari, uso dei dati, violazione della privacy, solitudine, disturbi psicologici, sfide socio-politiche e giuridiche imminenti impongono un’attenta lettura del fenomeno, specie in ambito educativo e formativo, oltre che, chiaramente, in ambito politico, etico, economico e giuridico-legislativo.

2 Derive etiche e sguardi pedagogici: l’I.A. a servizio dell’umanità

Il rischio etico riguarda in primis proprio la totale incompetenza morale autonoma dei robot, essendo sistemi dotati solo di quella che potremmo definire morale eteronoma, morale artificiale immessa dagli uomini nei programmi di funzionamento delle macchine stesse (human intelligence tasks). Oltre alla dimensione etica e morale, quella legge morale in me, kantianamente riferita all’uomo, è del tutto impossibile dotare le macchine di caratteristiche propriamente umane quali motivazione, emozioni (Bigozzi, 2024) affetti ed empatia, che non siano la mera risposta a stimoli visivi e percettivi immessi nelle macchine stesse. Un atteggiamento apparentemente empatico può essere “mimato”, ad esempio, in risposta a un tono di voce codificato come provato e triste, o decodificando visivamente le espressioni del volto per rispondervi in maniera fintamente empatica, o ancora monitorando la fisiologia del respiro per coglierne lo stato d’animo sottostante a cui è stata predisposta una certa risposta della macchina, per lo più grossolana e banale. L’emozione, non ancora appannaggio dell’I.A. in ragione della grande complessità del cervello umano e dell’ineffabilità dell’umano, è entrata comunque nell’ambito artificiale in molte sperimentazioni, dove la neuromodulazione cerebrale umana è stata simulata per la creazione di veri e propri robot da compagnia utilizzati nell’ambito della psicoterapia e della cura di bambini, anziani, persone con demenza e disabilità. Nel campo dell’istruzione e della cura collaboratori dotati di I.A. offrono lezioni che sostituiscono gli insegnanti umani, computer psicoterapeuti, molto meno costosi di una lunga psicoterapia, si occupano del benessere psichico con la pretesa di “curare” senza “relazione umana”; badanti artificiali come “Nadine” (Crippa & Girgenti, 2024, p. 128), robot dall’aspetto di donna, dal volto pallido e mostruosamente psicopatico, privo di espressione e di capacità empatica e/o di ascolto, bambinaie robot per l’infanzia, computer da compagnia per disabili e anziani e assistenti sessuali virtuali entrano nel circo degli algoritmi generando un’imponderabile fiera delle illusioni. Una profonda disumanizzazione dove, sulla scia del romanzo noir del 1946, Nightmare Alley, di William Lindsay Gresham (2021), a ingannarci non sono più abili mentalisti, ma abili algoritmi. Come quelli che guidano il dispositivo da compagnia Paro, grazioso cucciolo di foca interattivo che sembrerebbe dare un qualche beneficio alle persone anziane, specie affette da demenza, ma che consegnano l’essere umano sempre di più alla solitudine e alla precarietà relazionale. E anche volendo ammettere che, come precisa la Boden, con i suddetti dispositivi “la persona vulnerabile è resa più felice da questa tecnologia […], la sua dignità umana è insidiosamente tradita” (Boden, 2019, p. 156). Dispositivi che, se non controllati, rischiano di arrecare danno, contravvenendo alla prima legge della robotica di Asimov, quella di non arrecare danno ad alcuno, anche quando il danno è di natura morale. Tutti aspetti che evidenziano una risposta delle macchine agli input emotivi umani sommaria, stereotipata e sovente inopportuna, oltre che suscitare riflessioni di tipo etico, branca dell’I.A. sempre più in espansione, che si occupa di definire i contorni di un’etica per l’intelligenza artificiale, capace di rispondere alle innumerevoli questioni etiche sollevate dalla sua implementazione nell’ambito della vita umana.

L’avvento della rivoluzione digitale sta segnando, di fatto, un nuovo capitolo della storia dell’umanità, in una profonda e radicale re-ontologizzazione (Floridi, 2010), intesa come re-ingegnerizzazione che trasformerà completamente la natura intrinseca della realtà così come eravamo abituati a intenderla. Per scongiurare una possibile “insonnia della ragione” (Floridi, 2022, p. 12) è imprescindibile volgere lo sguardo verso questa nuova era con l’intento specifico di “guidare la rivoluzione digitale in una direzione che sia preferibile (equa) dal punto di vista sociale e sostenibile da quello ambientale” (Floridi, 2022, p. 12). La tesi da cui prendono avvio le riflessioni del filosofo morale Floridi riguarda lo iato fra “intelligenza” e capacità di agire” generato dall’avvento delle I.A., e la ricerca, l’analisi, la comprensione e la realizzazione di ciò che può ritenersi come moralmente buono e giusto.

Se osserviamo il fenomeno dell’I.A. dal punto di vista ingegneristico, che riproduce e simula il comportamento intelligente, l’I.A. (leggera) ha avuto non solo un successo degno di rilievo, ma anche un’utilità sociale considerevole, alleggerendo il carico dei compiti umani e ottimizzandone di gran lunga le prestazioni, grazie a un lungo ed elaborato programma di addestramento supervisionato (training) delle macchine da parte dell’uomo, che immette il maggior numero di contenuti utili al funzionamento dell’algoritmo. Se invece osserviamo gli esiti dell’intelligenza artificiale generale, AGI, quella che ambisce a essere “realmente” intelligente (forte), “settore della scienza cognitiva interessata alla produzione di intelligenza, l’IA rimane fantascienza ed è una triste delusione. L’IA produttiva non si limita a prestazioni inferiori rispetto all’intelligenza umana; non ha ancora preso parte alla competizione” (Floridi, 2022, p. 49). L’I.A. utile alla vita umana dovrebbe, dunque, limitarsi alla risoluzione di problemi e compiti solo quando essi non mettano in scena qualità irriducibilmente umane quali “comprensione, consapevolezza, acume, sensibilità, preoccupazioni, sensazioni, intuizioni, semantica, esperienza, bio-incorporazione, significato, persino saggezza e ogni altro ingrediente che contribuisca a creare l’intelligenza umana. In breve, è proprio quando smettiamo di cercare di produrre l’intelligenza umana che possiamo sostituirla con successo in un numero crescente di compiti” (Floridi, 2022, p. 52).

Tuttavia, l’avvolgimento umano nella realtà virtuale e artificiale procede senza che se ne conoscano in maniera sufficientemente approfondita le conseguenze, per influenzarlo e per renderlo sempre più adatto e favorevole alle macchine, rendendo l’umano “parte del meccanismo. Questo è proprio quello che Kant raccomandava di non fare mai: trattare gli esseri umani solo come mezzi anziché come fini” (Floridi, 2022, p. 59). Il design e la governance digitale ad opera dell’uomo per mettere “a servizio” l’I.A. in una maniera etica e utile all’uomo è quanto suggerisce Floridi per orientare eticamente la rivoluzione digitale, concetti ribaditi nell’AI Action Summit tenutosi a Parigi (10-11 febbraio 2025) dove 60 paesi del mondo hanno sottoscritto e firmato un documento su etica e sostenibilità dell’I.A. (ad esclusione degli Stati Uniti e Regno Unito), al fine di garantire i diritti umani sopra ogni possibile vantaggio economico, aspetto quest’ultimo non certamente secondario visti i numerosi investimenti in atto. E sarà sull’equilibrio armonico di questo binomio etica/economia che si giocherà il destino dell’uomo, con i suoi valori fondanti e imprescindibili, fermi nella consapevolezza che le questioni etiche sono e resteranno sempre una prerogativa soltanto umana.

Già dai Principi di Asilomar per l’IA e dalla Dichiarazione di Montréal per uno sviluppo responsabile dell’intelligenza artificiale del 2017, organizzazioni, esperti, scienziati e paesi del mondo cercano di costruire un impianto etico-normativo che abbia una valenza sempre più internazionale, con il rispetto di norme condivise e con l’adesione a comuni principi etici fondanti quali: beneficenza, non maleficenza, autonomia e giustizia, a cui bisogna aggiungere, secondo Floridi, quello della esplicabilità, “intesa come principio che include sia il senso epistemologico di intellegibilità (come risposta alla domanda: ‘Come funziona?’) sia quello etico di responsabilità (accountability) (come risposta alla domanda: ‘Chi è responsabile del modo in cui funziona?’) (Floridi, 2022, p. 92).

L’ingegnere informatico e docente Federico Cabitza, in Deus in machina? accentua l’analisi della prospettiva etica nella riflessione fra “naturale” e “artificiale”, intese come astrazioni che indicano “ciò che possiamo danneggiare ma non controllare: la dimensione naturale; e ciò che dobbiamo controllare perché non ci danneggi: la dimensione artificiale” (Cabitza, 2021, p. 12). Privi di identità, coscienza, volontà e intelligenza, senso comune e buon senso (Andler, 2024) la macchina, SAI (sistema di intelligenza artificiale), deve essere intesa come artificio per il potenziamento e la facilitazione dei compiti umani, la cui origine filosofica si trova nella Meccanica di Aristotele, dove si definisce macchina “tutto ciò che ci permette di produrre un effetto ‘oltre’ le nostre capacità naturali” (Cabitza, 2021, p. 19), vicina al concetto di intelligenza aumentata, tutta a beneficio dell’uomo. Grazie alla tecnica, l’uomo e le macchine si attivano per la risoluzione dei problemi e l’esecuzione di compiti gravosi e pericolosi, per avverare il fine ultimo di far agire una macchina come se fosse intelligente, esattamente come l’obiettivo iniziale di Alan Turing, padre della famosa “Macchina di Turing”, Enigma, che qualificava come futile il quesito sulla capacità o meno delle macchine di pensare, trovando molto più interessante sapere se una macchina potesse comportarsi in modo da sembrare intelligente (Turing, 1950).

A partire dalla definizione aristotelica, bisognerebbe allora domandarsi, in relazione a qualsiasi sistema artificiale, “cui prodest?, a beneficio di chi è concepita e realizzata, e se un reale beneficio raggiunga i destinatari voluti” (Cabitza, 2021, p. 20), stabilendo una connessione tra l’azione e l’etica, ovvero “fra il fare e la valutazione se quello che si è fatto sia ‘cosa buona’ o no (cfr. Genesi, 1)” (Cabitza, 2021, p. 44). In tal senso, ogni macchina dovrebbe essere programmata da istruzioni e script etici codificati in termini algoritmici, in modo da stabilirne, già in principio, responsabilità, funzioni e limiti: la cosiddetta algoretica. L’ethical in design concepisce l’inserimento delle valutazioni etiche dentro le pratiche stesse della progettazione, aspetto che pone in essere la responsabilità soggettiva etica di tecnici e progettisti, avendo sempre a mente il telos di qualsivoglia artefatto, quindi il suo uso, la sua funzione, la sua destinazione. Questa prospettiva intende riportare la centralità all’azione e alla deliberazione umana, nell’ambito di quell’“etica della responsabilità” che, a partire da Hans Jonas (1998), carica di responsabilità l’essere umano nel merito delle scelte che inevitabilmente avranno delle conseguenze sul presente e sul futuro.

Tornando sulla questione etica Luciano Floridi, in Agere sine intelligere, ribadendo i limiti dell’I.A. generale “produttiva”, posta come subalterna al suo equivalente biologico, ci presenta un esempio altamente suggestivo di quello che potremmo definire incompetenza estetica e poetica dei sistemi artificiali, immaginando un robot: “che taglia l’erba non girando per ore a caso, ma in modo intelligente ed efficace, per esempio ‘riconoscendo’ dove l’erba deve ancora essere tagliata, facendo attenzione agli angoli più difficili da raggiungere, fermandosi sui punti dove l’erba è cresciuta di più, evitando magari un gruppo di margherite che è bello lasciare in una parte del giardino […]. Questa AI non esiste, e gli esempi arrivano solo dal cinema” (Floridi, 2021, p. 140. Corsivo mio).

Quello che si sta verificando con la nuova I.A. è quindi l’inscrizione nella realtà di nuove forme dell’agere, ma non dell’intelligere. “AI=Agere sine intelligere” (Floridi, 2021, p. 150). Ma l’agere e l’intelligere morale, creativo, poetico, artistico, estetico ed educativo resta, anche dinanzi a prospettive fantascientifiche, prerogative e responsabilità esclusivamente umane, quelle che ci fanno riconoscere la bellezza e la poesia insita nei rovi di more, fragole e ranuncoli selvatici, nelle margherite bianche, nei cipollacci dei campi gialli o nei tappeti lilla di veronica di un prato incolto, preservandole dalla cecità del taglio indiscriminato determinato da un cieco algoritmo. Macchine che non sanno non vedono la bellezza e la poesia in un fascio di luce su un soggetto che si pone allo sguardo (Di Profio, 2024) e non provano sentimenti o stati di commozione né nell’ambito della sfera emotiva, né in quello della dimensione estetica (Di Profio, 2018; Bruzzone & Diodato, 2024) e poetica dell’uomo. Ed è tornando ai capisaldi dell’educazione estetica con Hegel (1967), Schiller (2005), Kant (1963) per citarne solo alcuni, che ritroviamo ancora le forme dell’irriducibilità umana che si esplicano anche nella sua natura estetica, verso quella valorizzazione del giudizio estetico inteso come elemento delle facoltà più raffinate della mente, insieme alle abilità razionali, da educare e affinare in un gioco di armonia delle parti strettamente connesso al genio, ma anche all’ingenuo e al sublime. Complessità armonica di sapienza, intelletto, ragione e sentimento, intuizione ed emozione che nessuna macchina potrà mai eguagliare.

3 Intermezzo. “Il posto delle fragole”: l’irriducibile umano

I nostri rapporti con il prossimo si limitano, per la maggior parte, al pettegolezzo e a una sterile critica del suo comportamento. Questa constatazione mi ha lentamente portato a isolarmi dalla cosiddetta vita sociale e mondana. Le mie giornate trascorrono in solitudine e senza troppe emozioni. Ho dedicato la mia esistenza al lavoro e di ciò non mi rammarico affatto. Incominciai per guadagnarmi il pane quotidiano e finii con una profonda, deferente passione per la scienza. […]. Dovrei aggiungere che sono un vecchio cocciuto e pedante. Questo fatto rende sovente la vita difficile sia a me che alle persone che mi stanno vicine. Mi chiamo Eberhard Isak Borg ed ho settantotto anni. Domani nella cattedrale di Lund si celebrerà il mio giubileo professionale (I. Bergman, Il posto delle fragole, 1957).

Mentre negli Stati Uniti si andavano ponendo le basi dell’I.A., il regista svedese Ingmar Bergman concentrava i suoi sforzi nella definizione di un irriducibile umano ne Il posto delle fragole, scrivendo e dirigendo uno dei capolavori road movie più incisivi della cinematografia mondiale. In svedese Smultronstället, il posto delle fragole è il luogo culturalmente associato alle radici e alla memoria vissuta, soggettiva, non artificiale, che si dipana nel tempo del ricordo, nei continui rimandi fra passato e presente, e della rievocazione onirica. Rifugio segreto tipico delle case di campagna immerse nel verde, nella boscaglia, nella ridondanza delle acque e nella perentorietà dei ricchi paesaggi della Svezia del Sud; luogo ermetico della rimembranza e del ripiegamento interiore dove può conservarsi imperturbato l’incanto dell’infanzia che Bergman rievoca con la maestria del suo approccio psicologico ed esistenziale. La voce fuori campo legge la lettera, sopra riportata, che l’anziano medico Isak Borg, nell’imminenza del suo massimo riconoscimento professionale come ricercatore e biologo, scrive il giorno precedente sulla sua elegante scrivania di legno scuro, piena di scartoffie, libri, appunti e un vaso di margherite bianche. Il giubileo professionale era previsto per l’indomani, ma nella notte Isak viene turbato da un sogno di morte, un antico e sontuoso carro funebre, guidato da indomiti e neri cavalli, perde rovinosamente la bara sul polveroso selciato di una città deserta. Caduta a terra e scoperchiatasi, dall’interno della bara fuoriesce una mano diafana che afferra l’attonito Borg per tirarlo dentro, fino a specchiarsi nel suo volto defunto. Un orologio privo di lancette, un tempo fermo, la vita e la morte dinanzi come moniti e come irriducibili. Al risveglio decide di partire immediatamente in macchina, e non in aereo come previsto, terrorizzato da quel notturno e onirico presagio di morte. Accompagnato dalla provata Marianne, sua nuora, si ritroverà a ripercorrere, fra sogno e realtà, l’intera sua esistenza nel viaggio interiore che da Stoccolma lo condurrà a Lund.

Isak ripercorre le strade della sua infanzia e fa la sua prima tappa presso la residenza estiva di famiglia, una casa immersa nel verde e nei rovi di fragole selvatiche, le madeleine prustiane che guidano il protagonista alla rimembranza del passato in un intreccio psicologico e surreale fatto di immagini, voci, scene d’infanzia e giovinezza. La cugina Sara intenta a raccogliere le fragole, le gemelle con le voci a coro, i fratelli e sorelle, le zie, lo zio Aron, la raffinata sala da pranzo, la tavola elegantemente imbandita con preziose porcellane decorate e vasi sparsi di margherite bianche. Momenti di quotidianità festosa nelle quali si intersecano i fatti emotivi, affettivi e sentimentali della vita nella loro tenue drammaticità. Chi era stato e chi era diventato nello scorrere dritto e sicuro del tempo Isak Borg? Isak se lo chiede ricordando, vivendo, sognando. Le sue mancanze, i suoi tormenti, i suoi fallimenti, i suoi difetti umani, il vuoto di una solitudine ricercata, l’indifferenza agli affetti e ai moti dell’anima prendono vita in un parallelismo fra sogno e realtà fatto di progressive prese di coscienza. Gli altri parlano, lo descrivono ed egli, ascoltandoli, passa attraverso mutevoli specchi per vedere sartrianamente se stesso con gli occhi degli altri: un uomo avaro, egoista, indifferente, con una raffinata maschera di falsa bontà. Maschera che gli incubi iniziano a frantumare sul volto affranto ed esposto di Isak che, con umiltà, lascia venire catarticamente alla luce una consapevolezza dalla quale partire: «Sono morto. Anche se sono vivo». A cosa e a chi aveva dedicato la sua vita? Alla scienza, al lavoro, alla ricerca, ma cosa aveva perso? Poteva ancora essere possibile un tempo della riconciliazione con se stesso, con la vita, con gli altri? Poteva pervenire a un diverso esito la sua interrogazione interiore sul senso del vivere e del morire?

Isak Borg torna nel posto delle fragole selvatiche quando è ancora in tempo per non lasciare morire la sua vita senza averla prima riconsegnata al suo senso ultimo. Il pedante, arido e solitario Isak si abbandona al sogno che ridesta e alla vita in quel suo fitto e lungo viaggio di quattordici ore a bordo della sua lussuosa automobile nera della prima metà del Novecento. Stati interiori, sensi di colpa, rimpianti, paura e angoscia di morte si mescolano e si avvicendano a dialoghi, intermezzi, sogni che gradualmente accompagnano il protagonista verso il recupero dell’istanza più preziosa di sé e della vita: la relazione con se stesso e con gli altri. Verità interiore, verità narrativa e verità estetica diventano la cifra che convoglia la visione di sé e del proprio racconto di redenzione alla bellezza dei paesaggi e delle relazioni, alle visioni, fra boschi, laghi e mari che fungono da scenografia esistenziale evocandone il valore estetico, nonché spirituale. Un sentimento rinnovato di paesaggio come istantanee sulla vita colta nella sua specifica bellezza, indissolubilmente legata alle emozioni e a quei vissuti dell’anima che caratterizzano l’irriducibilità dell’umano posto dinanzi al mondo e agli altri.

In una serie di dialoghi Isak cerca la riappropriazione e la riappacificazione con se stesso per mezzo della riunificazione degli opposti psichici, impersonati dai diversi personaggi reali e familiari incontrati nel corso della sua esistenza; egli riscopre, al di là della mentalità scientifica, fredda e razionale, il valore dell’amore, degli affetti, dei sentimenti, dell’ascolto e della considerazione dell’altro come persona portatrice di un valore assoluto. Per mezzo di Isak, Bergman ha esposto la sua concezione esistenziale fondata sul valore imprescindibile delle buone relazioni, dei sentimenti autentici e sinceri, come espressioni di un umano che si affranca, sradicandola, da una visione pessimista e nichilista dell’esistenza. In un’intervista video proprio sul valore filosofico de Il posto delle fragole, il filosofo Emanuele Severino qualifica il film come sorprendente sia per il suo alto valore cinematografico, sia per lo “splendore della crescita della speranza da parte del protagonista” (Severino, 2014), pronto a lasciare il mondo a seguito di una riconquistata umanità. Ricomposizione esistenziale che addolcisce anche la morte attraverso la potenza dell’arte, ultimo rifugio della natura.

In questa potente rappresentazione artistica Bergman spinge Isak, ormai vecchio e all’apice del suo successo professionale e scientifico, a recuperare le sue istanze umane tagliando il cuore per riscaldarlo e ricomporlo, come ferro fondente, in un’altra forma e con nuovi contenuti fra fragole selvatiche e margherite bianche. Margherite bianche sulla scrivania, nei vasi del pregiato servizio di porcellana della sala da pranzo dell’infanzia, sui mobili di pregio, e ancora mazzi di margherite selvatiche raccolte lungo il viaggio, vasi di margherite sul belvedere affacciato sul Mar Baltico, pratoline bianche sui giardini incolti. Margherite bianche nei ricordi e nella vita presente di Isak come oggetti transizionali che restano invariati, pur nell’incedere del tempo, come certezze, elementi di connessione fra passato, presente e futuro che si ripetono mantenendosi fissi nella ciclicità del tempo, nel duplice dinamismo del tempo, a un tempo ciclico del ricordo, a un tempo lineare, come esperienza storica. Filo conduttore e aggancio spazio-temporale di un’esistenza che, pur nella messa fra parentesi dell’anima, resta ancorata all’anima attraverso le margherite bianche, sempre presenti nella scena, disposte in modo diverso, ma perenni nel loro intimo significato ancestrale che le vuole aggrappate alla restituzione di quel senso che Isak intravede nella visione finale dei suoi genitori vestiti di bianco sulle sponde del lago, sotto il sole cocente dell’estate, a pochi passi dai rovi di fragole selvatiche. Isak ora è pronto per il suo Giubileo personale nella Cattedrale di Lund, tra suoni di campane, parate e solenne cerimoniale in latino. È l’epifania, come spiega magistralmente il compianto Eugenio Borgna,

la conclusione di un percorso di “conversione” che gli ha consentito di prendere coscienza dell’insignificanza di ogni vita risucchiata nel gorgo dell’indifferenza emozionale e dell’egoismo, e di riscoprire gli sconfinati valori degli affetti e delle relazioni umane nutrite di generosità e di partecipazione emozionale: di ascolto e di donazione. Nel riconsegnare questi nuovi e unitari significati agli avvenimenti della giornata il dottor Borg recupera falde inattese e nascoste di umanità e di solidarietà, di dialogo con la propria e l’altrui interiorità: aprendosi agli orizzonti dell’amore e della speranza che sono i soli capaci d’illuminare anche le notti oscure dell’anima, quelle dell’angoscia e dell’angoscia della morte (Borgna, 2006).

La vicenda intima e umana narrata da Bergman si colloca all’interno dell’opera di decostruzione dei miti della società moderna, incentrati sulla scienza e sul progresso scientifico innalzati a valori teleologici dell’umanità sganciati dalla dimensione umana, psicologica e spirituale. Nel film il regista compie un’opera di disincanto nei confronti del progresso tecnico-scientifico, per inaugurare il “ritorno alla realtà autentica troppo spesso abbandonata all’astrattezza di una razionalità fredda, non più metafisica, ma estremamente logico-deduttiva. È l’emergere di un pensiero altro, che era stato fagocitato dall’incalzare di una modernità fondata sul razionalismo cartesiano”. (Amendola, 2019, p. 396). Heideggerianamente, il percorso di Isak Borg si colloca nel passaggio dall’inautentico all’autentico (Heidegger, 2002), verso quella “nostalgia di autenticità” (Amendola, 2019, p. 402) ritrovata nella relazione intima con gli altri, superando l’angoscia del deserto esistenziale.

4 Il posto dell’umano: percorsi educativi di mediazione e governance dell’I.A.

Prendendo spunto dal testo di Vittorio Gallese, neuroscienziato, e Ugo Morelli, psicologo, scritto per rispondere alla domanda fondamentale, Cosa significa essere umani? (Gallese & Morelli, 2024) Daniele Bruzzone allarga la voragine da loro aperta rispetto alla mancata identificazione dell’umano con l’intelligenza, per definire la specificità umana come qualcosa che non si colloca “nella mente e nei suoi processi computazionali, bensì nel corpo e in tutti quei processi ‘embodied’ che consentono a una persona umana di essere e di percepirsi come soggetto di esperienza e di relazione” (Bruzzone, 2024, p. II), fondata sulle dinamiche relazionali e sul primato dell’unità somatopsichica (Di Profio, 2022). A dispetto di una valutazione dell’intelligenza focalizzata sulla mente è sorta la consapevolezza circa l’unione indissolubile fra mente e corpo anche nell’ambito dell’I.A. applicata alla robotica. “Alla concezione disincarnata dell’intelligenza viene opposta, da decenni, l’idea di intelligenza o di cognizione incarnata (in inglese embodied) che sarebbe resa più letteralmente da «incorporata»” (Andler, 2024, p. 185), in cui il corpo è “una caratteristica costitutiva dell’intelligenza – che un’intelligenza disincarnata (e malgrado l’apparenza) una nozione vuota e incoerente” (Andler, 2024, p. 185). L’essere umano, attraverso il corpo, esperisce la realtà anche sotto l’influenza delle emozioni, dei sentimenti e degli affetti che configurano la cognizione umana come evento complesso che nessun sistema intelligente, SAI, potrà mai contemplare. L’affetting computing (informatica affettiva), già da anni cerca di comprendere il peso degli affetti sul pensiero umano complesso, tuttavia, la fenomenologia degli affetti descrive uno scenario di tale ampiezza che “non sappiamo come render conto del fenomeno dell’affetto nel vocabolario del trattamento dell’informazione” (Andler, 2024, p. 247). Oltre ad affetti, sentimenti ed emozioni, manca ai sistemi intelligenti, non situati, la motivazione all’agire e alla messa in atto di comportamenti intelligenti, spinti dal motore più potente, ovvero quello della necessità rispetto alle condizioni poste in essere in un certo ambiente e in una certa situazione, in senso sartriano. L’ingegno e l’intelletto deriverebbero, quindi, anche dalla necessità intrinseca di doversi attivare per il superamento di una criticità o per la soluzione a un problema incombente, facoltà di avere coscienza, necessità, scopo, intenzione e motivazione che soltanto gli animali, e quindi gli uomini, possiedono (Andler, 2024, p. 263). Ma non solo, Andler espone in maniera dettagliata anche tutte quelle forme di soluzioni ai problemi contestuali in cui gli esseri umani danno vita a una sorta di forma sociale di cooperazione, che amplifica e alleggerisce i compiti intellettivi. Antropologia, etologia, sociologia, psicologia sociale, scienze cognitive “ci suggeriscono che l’intelligenza quotidiana risulta da una connessione tra meccanismi cognitivi individuali e dispositivi sociali” (Andler, 2024, p. 298).

L’irriducibilità dell’umano, un caleidoscopico misto di dubbio, ragione, irrazionalità, intuizione, coscienza di sé, poesia, estetica, sentimento, emozione, analisi esistenziale, libero arbitrio, relazionalità e cooperazione sono ciò che identificano l’umano più della sua ragione e della sua intelligenza, e rappresentano “qualità umane non surrogabili” (Bruzzone, 2024, p. III) sulle quali l’educazione dovrebbe concentrare la sua azione e la sua intenzione pedagogica ed educativa: “la capacità di conoscere se stessi, la capacità di decidere, la capacità di pensare, la capacità di sentire” (Bruzzone, 2024, p. III). L’I.A. avrà quindi l’effetto di renderci irriflessivi, superficiali, egocentrici e meno curiosi (Chamorro-Premuzic, 2024), o di ridurre la nostra attenzione profonda a un’iperattenzione in cui prestiamo attenzione su tutto, per non prestare attenzione a nulla, semplificando il nostro pensiero sulla realtà, con un peggioramento del lessico, della sintassi, della qualità del pensiero, della logica e delle capacità relazionali? Una delle questioni etiche circa l’uso dell’I.A. in ambito educativo e formativo riguarda proprio il processo di deterioramento e depotenziamento delle prestazioni cognitive, determinando un generale ottundimento delle facoltà di giudizio e di pensiero, già compromesse da euristiche, bias, distorsioni cognitive e forme subdole di condizionamento che hanno spinto alcuni psicologi a definire l’essere umano un “avaro cognitivo” (Fiske & Taylor, 2009).

Spostando lo sguardo non sulla dimensione strumentale ed utilitaristica dell’apprendimento alla sua dimensione squisitamente formativa, Bruzzone chiude la sua riflessione sull’I.A. rimarcando l’attenzione su quanto possiamo pericolosamente perdere di qualità propriamente umane nell’ambito della cura educativa, potenzialmente amputata dell’aspetto essenziale della relazione educativa, quella del fattore emozionale nell’apprendimento. Nello spazio educativo di prossimità fisica ed emotiva, fatta di stupore, curiosità e desiderio di conoscenza “il lavoro educativo, detto in estrema sintesi, consiste nel coltivare questo eros, ospitando emozioni come la meraviglia, l’attesa, ma anche l’inquietudine e il dubbio (in luogo della noia o dell’ansia, che invece sono oggi ricorrenti tra i banchi di scuola)” (Bruzzone, 2024, p. III). Ben consapevole degli aspetti positivi dell’I.A. nel campo dell’istruzione, a partire dall’uso intelligente delle teaching machines, Bruzzone ne sottolinea i pericoli e le possibili deviazioni giacché l’educazione non potrà mai essere ridotta al solo binomio insegnamento/apprendimento. “Ciò che accade nell’educazione è il divenire umano degli esseri umani grazie all’incontro con altri esseri umani. La questione in ballo, dunque, è quella dell’umanità e della sua differenza rispetto alla macchina” (Bruzzone, 2024, p. II; cfr. Malavasi, 2019; Lambert, 2023).

A supporto di queste istanze, troviamo nel Metodo Calvino, strumento di intersezione fra letteratura e scienze, una chiave interessante per la riorganizzazione della modernità nell’intreccio fra opposte tendenze e facoltà di pensiero divergente, paradigma desunto nel Visconte cibernetico (Prencipe & Sideri, 2023), saggio che delinea i principi fondanti del Metodo che affida all’uomo la capacità di trovare nuove soluzioni e più idonee strategie per il superamento delle criticità.

Il Visconte dimezzato di Italo Calvino (1993), per metà cibernetico, tagliato in due, frazionato nelle due parti opposte e contrapposte che rievocano il mito dell’Androgino e della sua ricomposizione mette in scena, da un punto di vista letterario, la necessaria armonizzazione degli elementi che caratterizzano la nostra epoca, scissa fra i poli di naturale/artificiale, umano/tecnologico, per proporne una sintesi creativa sulla base del potere dell’immaginazione e del pensiero creativo, come precisato nelle Lezioni americane (Calvino, 2016). Per mezzo dell’ars interrogandi e dell’evocazione dei possibili, si prefigura l’integrazione delle scienze e dell’I.A. nell’esistenza umana all’interno di uno spazio capace di non disperdere la dimensione creativa dell’uomo, evocando una vera e propria “pedagogia dell’immaginazione” (Prencipe & Sideri, 2023, p. 32), qualità umana per eccellenza. E presagendo le possibili deviazioni dell’uso dell’I.A. anche in letteratura, Calvino si domandava, in Cibernetica e fantasmi (Calvino, 1995), se veramente una macchina artificiale scrivente potesse mettere “in gioco sulla pagina tutti quegli elementi che siamo soliti considerare i più gelosi attributi dell’intimità psicologica, dell’esperienza vissuta, dell’imprevedibilità degli scatti di umore, i sussulti e gli strazi e le illuminazioni interiori” (Calvino, 1995, pp. 210-211. Corsivo mio). Interrogazione retorica i cui esiti sono simili a quelli concepiti da Primo Levi e Roal Dahl che vedevano nella scrittura delle macchine la messa in scena della mediocritas. Ne Il versificatore, contenuto in una raccolta di storie scientifiche e fantascientifiche, Primo Levi (1966) racconta di uno scrittore alle prese con una macchina versificatrice che, lungi dal presentarsi come poesia, appariva come la sua “mediocre simulazione” (Colamedici & Arcagni, 2024, p. 103); così Dahl (1986), con Lo scrittore automatico contenuto ne Il libraio che imbrogliò l’Inghilterra, immagina una macchina capace di scrivere racconti e romanzi, ma che, pur nella sua mediocre e poco originale riuscita, basata solo su regole combinatorie nell’articolazione di script di programmazione, prompt di comando, algoritmi e dati immessi, compresi quelli stilistici, rappresentava un cibo sufficientemente buono per un pubblico sempre meno raffinato ed esigente.

5 Quale pedagogia per l’I.A.? Recuperare i gelosi attributi umani

Quale pedagogia occorre allora oggi per recuperare quei gelosi attributi umani che Italo Calvino suggeriva di conservare come monito ai posteri? Si tratta certamente di una pedagogia euristica, capace di conoscere concentrandosi in maniera attiva sulle domande, piuttosto che sulle risposte (fornite da ChatGPT e simili); una pedagogia critica e creativa che valorizzi il pensiero divergente, metaforico, analogico, non statistico e probabilistico e una pedagogia corporea, che si metta in contatto fisico ed emotivo, stimolando curiosità, inquietudine conoscitiva, dubbio e meraviglia. E ancora una pedagogia investigativa per mezzo della promozione della logica dell’indagine (Prencipe & Sideri, 2024), sulla scorta del modello deweyano, dove combinare pensiero critico, capacità ipotetiche, sperimentazione miste a immaginazione e creatività, recupero del pensiero analogico (Colamedici & Arcagni, 2024), dell’intuizione e delle emozioni, fra studi scientifici e umanistici nell’ottica dell’interdisciplinarità e della transdisciplinarità.

Salvare e proteggere gli attributi pienamente umani rappresenta un compito necessario per la salvaguardia di ciò che più ci appartiene nel profondo anche seguendo gli esercizi spirituali proposti da Mauro Crippa e Giuseppe Girgenti, che ci invitano a tornare alla filosofia antica per un ancoraggio ai valori che hanno reso grande la nostra umanità, volgendo lo sguardo alle riflessioni filosofiche del passato, da Omero a Socrate, da Platone ad Aristotele, da Agostino a Ignazio di Loyola. Saperi che avrebbero il potere di riplasmare l’umano intorno a quanto di più bello e giusto l’essere umano stesso abbia concepito nel tempo, recuperando e conservando un’intelligenza non assoggettata e progressivamente depauperata dalle macchine, in difesa della nostra identità e della custodia delle qualità irriducibili dell’umano.

A differenza delle macchine, abbiamo una memoria non estesa ma profonda, intessuta di fragilità psicologiche, di esperienze vissute, di immaginazione creativa, capace anche di rimuovere e di attingere dall’inconscio […]. Le sacre mura della cittadella interiore che dobbiamo difendere proteggono il turbinio di passioni, il disordine di affetti che ci agitano e ci fanno gioire e soffrire. L’umano è qui. Dove sono i difensori di questo perimetro sacro? (Crippa & Girgenti, 2024, pp. 20-21).

Ricordando che i numeri e il linguaggio matematico hanno avuto origine all’interno di un sapere mistico e spirituale antichissimo e sempiterno, come possiamo facilmente rintracciare in tutte le antiche tradizioni filosofiche, compresa quella pitagorica (Colamedici & Arcagni, 2024). Rivolgersi, allora, verso di sé, conoscersi, aprirsi al duplice enigma (Andler, 2024) dell’intelligenza umana e dell’intelligenza artificiale, del sé e dell’altro e riconvergere verso un universo umano etico liberato da ogni forma di condizionamento, recuperando la nostra autonomia di pensiero e ritessendo le trame di una relazionalità fortemente compromessa dalla tecnologia (Riva, 2025), lavorando alla non smaterializzazione e sparizione del corpo. In questo cyberspazio diffuso, “multiforme e convergente che sono le tecnologie radicali, di cui la robotica è un emblema, la riflessione pedagogica deve far valere la cultura della formazione integrale della persona e dello sviluppo umano” (Malavasi, 2019, p. X) concorrendo alla creazione della “vita buona, con e per l’altro in istituzioni giuste” (Malavasi, 2019, p. XVI). Si tratta di rigenerare un nuovo umanesimo fondato sulla dimensione narrativa e interpersonale “in carne e ossa” (Malavasi, 2019, p. 14), inscritti nello statuto ontologico, critico ed ermeneutico della pedagogia come via dell’educazione autentica, qualità precipua della ratio e della progettazione pedagogica. Tornare a “esperire il mondo con la pelle” (Lavagna & Mancaniello, 2022, p. 9), nelle forme peculiari che le diverse età della vita (infanzia, adolescenza ed età adulta) presentano, presupponendo anche la restituzione di una sessualità non narcisistica, pornografica e strumentale, ma affettiva, emotiva e sentimentale. Un compito indispensabile anche in difesa delle diverse forme di violenza di genere e di assoggettamento, fortemente presenti nelle relazioni virtuali e nella pornografia digitale che non appagano, ma reificano nel nessuno digitale (Crippa & Girgenti, 2024, p. 173), la millenaria “nostalgia dell’Altro” (Crippa & Girgenti, 2024, p. 97) e che non fanno che aggravare i bias di genere in continui rimandi a un femminile dicotomizzato fra il docile, servizievole, sottomesso, accondiscendente e il loro opposto (Colamedici & Arcagni, 2024).

I principi etici che dovrebbero orientare anche l’approccio pedagogico all’I.A. riguardano la trasparenza, la giustizia e l’equità, l’innocuità, la responsabilità, la sostenibilità, la protezione della privacy, la beneficenza e il rispetto dell’autonomia e della dignità umana come il rispetto delle leggi e delle normative che stanno cercando di definire e di limitare i possibili effetti negativi dell’avvolgimento umano nella tecnologia avanzata. È il momento in cui dobbiamo, seguendo il consiglio del matematico e filosofo Daniel Andler, “abbracciare un principio di moderazione” (Andler, 2024, p. XVI. Corsivo mio), scegliendo cosa, come e quando dare spazio alle varie forme di I.A. e quando rigettarle e ricusarle, in quanto dannose e prive di vantaggi per la conservazione e il benessere dell’umanità. Questo significa mettere in campo un’educazione all’intelligenza artificiale che miri alla consapevolezza, al pensiero critico, all’AI Literacy (o Data Literacy), alla non omologazione culturale, alla governance e al corretto utilizzo in relazione al suo telos, che deve sempre rimanere focalizzato sul primato della persona umana.

Acquisire un orientamento non pessimistico e tecnofobico, ma attento alle nuove potenzialità offerte dall’intelligenza artificiale per trasformarle in opportunità per l’intera umanità con una Pedagogia algoritmica capace di cavalcare l’onda della tecnologia e dello sviluppo scientifico all’interno degli scenari educativi, ambito internazionale che viene oggi comunemente indicato con l’acronimo AIED, Artificial Intelligence in Education. Gli assi direzionali di tale impianto educativo innovativo ruotano su tre diversi versanti, “educare con l’Intelligenza Artificiale, educare all’Intelligenza Artificiale, educare l’Intelligenza Artificiale” (Panciroli & Rivoltella, 2023, p. 7). Tali livelli di educazione impongono, a livello pedagogico, una riflessione costante, sia pratica e operativa che teorica, atta a bilanciare l’utilizzo delle nuove tecnologie in un metaverso di realtà virtuali multiple e variegate, sempre più estese nell’ambito della quotidianità ordinaria, in vista di una piena cittadinanza digitale costituita da nuovi diritti e nuovi doveri e di una profonda opera di coscientizzazione.

Questa apertura etica e umana all’utilizzo dell’I.A. deve tener conto della naturale ambivalenza insita negli strumenti tecnologici che rivela, come spiegava Remo Bodei, “proprio il carattere del pharmakon, rimedio e veleno” (Bodei, 2019, p. 10). Sta dunque a noi il compito di assumere il farmaco con la giusta posologia, assumendolo come rimedio per la vita umana e per le importanti scoperte scientifiche e tecniche all’interno di una “educazione al cambiamento” (Bodei, 2019, p. 299) equa, etica e giusta.

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