Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education. Vol.29 n.71 (2025), 77–84
ISSN 1825-8670

La parola che fa liberi. Note sull’attualità di don Lorenzo Milani

Sergio ManghiUniversità degli Studi di Parma (Italy)

Già Professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università di Parma. Tra i suoi volumi: Clima diseguale (a cura, con E. Leonardi, 2024), L’altro uomo. Rivalità maschili e violenza di genere (2020), La conoscenza ecologica. Attualità di Gregory Bateson (2004, 2010), Il soggetto ecologico di Edgar Morin. Verso una società-mondo (2009).

Pubblicato: 2025-04-15

The word that makes one free. Notes on the actuality of don Lorenzo Milani

Abstract

This essay consists of a personal testimony by the author and a related sociological reflection on the reasons for the enduring relevance of the extraordinary figure of don Lorenzo Milani for our newborn community of earthly destiny. The personal testimony underlines the notable relevance of this figure in the youthful formation of the author, who was coming from an atheist-communist family and cultural background, and, more broadly, in the taking shape of that “wind of freedom” that characterised the 1960s, even before their effervescent ending. The reflection aims at highlighting how the poverty of word, the word that makes one free, at the centre of the “inverted paideia”, on the side of the last, realised by don Milani in Barbiana, characterises our vertiginous present no less than that distant post-war period, albeit in profoundly different forms, due to the radical techno-economic, socio-cultural and ecological-political transformations that have taken place since then.

Il presente saggio si compone di una testimonianza personale dell’autore e di una connessa riflessione di ordine sociologico sui motivi di perdurante attualità della straordinaria figura di don Lorenzo Milani per la nostra neonata “comunità di destino terrestre”. La testimonianza personale sottolinea la notevole rilevanza di tale figura nella formazione giovanile dell’autore, di origini famigliari e culturali ateo-comuniste, e, più ampiamente, nel prender corpo di quel “vento di libertà” che caratterizzò gli anni Sessanta del Novecento, già da prima del loro effervescente scorcio finale. La riflessione mira a evidenziare come la povertà di parola, della parola che fa liberi, al centro della “paideia rovesciata”, dalla parte degli ultimi, realizzata da don Milani nella Scuola di Barbiana, caratterizzi il nostro vertiginoso presente non meno di quel remoto dopoguerra, sebbene in forme profondamente diverse, per le radicali trasformazioni tecno-economiche, socio-culturali ed ecologico-politiche intervenute da allora.

Keywords: Don Lorenzo Milani; School of Barbiana; Word; Paideia; Community.

Tutti gli usi della parola a tutti […],
perché nessuno sia schiavo.

(Gianni Rodari, 1973)

1 Da un’altra era?

Siamo dunque qui, nel pieno di un vertiginoso XXI secolo, a lasciarci interrogare da cose accadute, si direbbe, in un’altra era. In un anfratto sperduto della montagna toscana, Sant’Andrea di Barbiana, dove la ruota delle stagioni e delle generazioni scandiva ancora i ritmi dell’esistenza.1 Cose scaturite da un incontro improbabile, come quello avvenuto nel lontano 1954 tra un gruppo sparso di famiglie contadine, immerse in quei ritmi atavici, e un appena trentunenne sacerdote fiorentino di famiglia ricca e coltissima, satura di umanesimo letterario e scientifico, religiosamente agnostica, spedito lassù dalla gerarchia diocesana come misura punitiva.

Misura alla quale don Lorenzo Milani – “quel testone” di don Lorenzo, come diceva di lui Monsignor Raffaele Bensi, suo confessore e consigliere (cfr. Fabbretti, 1971) – scelse di obbedire senza smettere mai di disobbedire. Rimanendo testardamente fedele a quel suo Vangelo bruciante e diretto, cifra della sua stessa conversione giovanile, che aveva da subito praticato, nelle sue prime esperienze pastorali, tra gli operai delle periferie “rosse” di Calenzano, tra Prato e Firenze, e che gli era costato l’esilio a Barbiana: condividere la vita degli ultimi, da lui visti anzitutto come poveri di parola. Apertamente schierato dalla parte della loro dignità e dei loro diritti costituzionali.

E cosa mai può continuare a dirci, quella vicenda, accaduta in quel tempo remoto, a noi viventi iperconnessi di questo XXI secolo? Il secolo dell’intelligenza artificiale generativa e del caos climatico degenerativo? Dell’unificazione comunicativa della specie, e insieme della sua più aspra disunione sociale e politica? Quali note continuano a risuonare, della Scuola di Barbiana, nelle sfide formative di questo nostro tempo così tanto diverso?

Domande, è chiaro, inesauribili. Non foss’altro perché interpellano ciascuno e ciascuna di noi nel vivo di sfide educative diverse, e in continua metamorfosi. Si potrebbe anche rispondere, naturalmente, che è meglio lasciar perdere. E non manca del resto chi l’ha fatto e lo fa, anche con argomenti demolitori dell’esperienza di Barbiana (inventandosi spesso un “donmilanismo sessantottino” caricaturale, che ritroviamo anche tra gli attuali consiglieri del Ministero dell’Istruzione).

Ma se noi siamo qui, a lasciarci investire da quelle domande, va da sé che abbiamo scelto diversamente. Che abbiamo scelto di sondare i motivi di perdurante attualità di quell’esperienza. Forse anche noi un po’ “testoni”, e tuttavia, possiamo dircelo, tutt’altro che solitari, tanto vasta è la mole di sperimentazioni e avventure educative che ad essa si sono ispirate, e degli studi minuziosi che ad essa si sono dedicati (cfr. Roghi, 2015; Aglieri & Augelli, 2020). L’opera omnia di don Milani figura ormai da alcuni anni, significativamente, tra i preziosi “Meridiani” dell’editrice Mondadori (Milani, 2017).

Per parte mia, cercherò di sottolinearne alcuni, di questi motivi d’attualità, ancorati a quella che mi sembra essere una marcata analogia di fondo, tra le sfide educative di allora e quelle emergenti oggi: la scandalosa povertà di parola, in breve, con la quale si trova confrontato oggi diffusamente il “mestiere impossibile” dell’educare, così come in quel dopoguerra di modernizzazioni accelerate. Povertà di parola che fa tutt’uno, continua a dirci Barbiana, con la fatica di vivere da liberi, ovvero di saper riconoscere il proprio posto nel mondo e la propria capacità di incidere, con la politica, insieme agli altri, sulle sue storture. La propria capacità di averne cura – l’I care di Barbiana.

Parole chiave, dunque: parola, libertà, politica, cura. Una paideia rovesciata, a partire dagli ultimi e non dai primi, si potrebbe dire, ripassando “contropelo” l’album di famiglia “ateniese”. Prima di sviluppare queste riflessioni, però, vorrei chiarire la prospettiva personale dalla quale mi viene di proporle. Non lo farò per concetti, ma per via biografica. Con una testimonianza, appunto personale, su come a un giovane di origini famigliari, sociali e culturali molto distanti da quelle di don Milani, qual era il sottoscritto nella prima metà degli scorsi anni Sessanta, capitò di imbattersi in quella pietra d’inciampo – e a rimanerne da allora, se così si può dire, inciampato.

2 Una testimonianza personale

Avevo 18 anni, quando uscì la Lettera ai cappellani militari: l’obbedienza non è più una virtù (Milani, 1965). E con quel libro, i nomi di don Milani e di Barbiana iniziarono a diventare per me, come per diversi giovani di allora, diciamo irrequieti, non solo cattolici (io non lo ero), nomi suggestivi e cari.

Ero cresciuto in una periferia lontana e povera della “città ducale”, come amava e ama chiamarsi Parma. Da adolescente, ero iscritto alla Federazione giovanile comunista. Famiglia comunista per entrambi i rami, padre partigiano, poi funzionario e dirigente locale del PCI fino agli inizi degli anni Sessanta, per cui “prendere la tessera”, come si usava dire, fu quasi automatico.

Non frequentavo però le riunioni e le attività del circolo al quale ero iscritto. Non mi veniva spontaneo, né mi sentivo del resto pressato dai miei, devo dire, a farlo. Frequentavo invece, con qualche vaga apprensione in famiglia, il Circolo culturale Nuovo Umanesimo, fondato nel 1962 dall’insegnante di religione, don Luciano Zanivan. Prete alquanto anomalo, ai miei occhi, dal momento che in classe non “faceva religione” ma faceva discutere. Ed è in quel contesto, che mi è accaduto di inciampare nella vicenda, ben più anomala, di don Milani e di Barbiana.

Pur non battezzato, frequentavo tuttavia l’ora di religione. Non fruivo della dispensa, per non aggiungere, in sostanza, col mio banco vuoto, un segno in più di “devianza” a quello già insolito, allora molto raro, di non avere i sacramenti. Ma il “Nuovo Umanesimo” non era un circolo confessionale – com’erano invece, nella stessa epoca, quelli della neonata Gioventù Studentesca. Pur promosso da un sacerdote, era aperto a tutti. E i temi discussi erano quelli, tra l’esistenziale, il culturale e il politico, che interessavano a noi giovani irrequieti del tempo. Temi che, volendo comprimerli in una formula sintetica – assai più netta di quelle nostre spesso brancolanti ansie adolescenziali –, potremmo riassumere così: l’impegno (parola chiave di sapore “sartriano”, allora essenziale) ad affacciarsi alla società da protagonisti invece che da integrati (altra parola ricorrente, non a caso posta da Umberto Eco [1964] nel titolo di un suo noto pamphlet).

Il nome “Nuovo Umanesimo” veniva da un libro di trent’anni prima, Umanesimo integrale, del filosofo francese Jacques Maritain (1962/1936), figura rilevante di quel “personalismo cristiano” che tanta influenza ebbe sul Concilio Vaticano II. Quanto a me, la frequentazione del circolo, e in particolare proprio la lettura di quel libro, mi fece riposizionare il comunismo “canonico” di tradizione familiare in una luce diversa. Una luce, sempre per dirla molto in breve, più ampia, proiettata nell’esperienza esistenziale e sociale del presente, anche al di là dei confini ideologico-comunitari, all’epoca ancora molto marcati, del pur vasto “popolo comunista”.

Un altro “vecchio” libro per me importante di quegli anni, che leggevo in questa stessa luce, fu Il Samaritano, di don Primo Mazzolari (1963/1938), parroco di Bozzolo, nel mantovano, che fu anche attivo sostenitore della Resistenza (le Brigate Fiamme Verdi, fondate da intellettuali cattolici), e con il quale don Milani ebbe peraltro, come noto, a collaborare.

Sfogliavo poi pagine, per me in verità quasi indecifrabili, di un misteriosissimo mistico gesuita, geologo e paleoantropologo francese, esiliato in Cina dalla gerarchia, Theilard de Chardin (1957), che avrei inaspettatamente reincontrato, e iniziato con gusto a comprendere, tanti anni dopo, nei miei tentativi sociologici di intendere le relazioni umane in una prospettiva eco-evoluzionistica (presente, pur senza menzionarlo, in Manghi, 1990, 2004; citato, invece, in Manghi, 2009).

Con tutte queste frequentazioni eterodosse, mio padre dovette forse temere che potessi convertirmi, così come l’Arcivescovo di Firenze – mi si perdoni il paragone irriverente… – dovette temere che quel “testone” di don Lorenzo diventasse comunista. Ma mio padre rispettò, come sempre, la mia libertà. Rimase, diciamo così, in attesa fiduciosa. E fu anzi felice, di lì a poco, di vedermi avviato, proprio grazie a quelle frequentazioni “eterodosse”, verso lo studio della Sociologia, presso l’allora neonata e sconosciutissima Università di Trento, dove mi iscrissi nel 1966, insieme ad altri del “Nuovo Umanesimo”. Avviato, incredibilmente, verso il primo titolo di studio superiore delle nostre amate stirpi contadine e micro-artigiane.

Nel frattempo, don Luciano, sotto gli auspici, va detto, della non comune potenza di fuoco adozionale di mia madre, si avvicinò talmente – sorella e madre incluse – alla nostra famiglia da farne quasi parte per alcuni anni. Nessuno convertì nessuno. Ma nel frattempo accaddero tante cose, belle e importanti per tutti noi.

E così, per concludere questa testimonianza, quando uscì Lettera a una professoressa, nel 1967, ero già introdotto – o per così dire, battezzato – alla singolare anomalia di Barbiana. Di più: con quel libro, dove amare la parola, la parola che fa liberi, e stare con gli ultimi, erano una cosa sola, mi fu anche un po’ più chiaro, cresciuto com’ero da bambino a pane e Rodari (che negli anni Cinquanta, pochi sanno, scriveva sul Pioniere, il “giornalino” dei giovanissimi comunisti) -– mi fu un po’ più chiaro, dicevo, perché mai mi fosse accaduto di inciampare, in quella mia irrequieta adolescenza “comunista”, in una pietra così vistosamente “altra”, come mi appariva allora quella “cristiana”.

3 Gli anni Sessanta, vento di libertà

Il 1967, per una triste coincidenza, fu anche l’anno della scomparsa, a soli 44 anni, di don Lorenzo Milani. Che non potè neppure avere fra le mani quel libro scritto insieme ai suoi ragazzi e alle sue ragazze. Fu anche però l’anno nel quale il suo nome iniziò ad assumere la vasta notorietà che gli sarebbe presto toccata. Poiché in quell’anno prese vita nel nostro Paese, come in tutto l’Occidente, e non solo, con una accelerazione sorprendente, un vasto movimento collettivo giovanile, convergente su un medesimo obiettivo, quale la fine della sanguinosa guerra del Vietnam, che non poteva non risuonare con i temi della ricordata Lettera ai cappellani militari. Un movimento che tracimò poi, la primavera dell’anno successivo, nel “fatidico” Sessantotto, con l’occupazione simultanea di decine di università, intorno a questioni che nell’anfratto remoto di Barbiana, come testimoniava lucidamente Lettera a una professoressa, erano state pane quotidiano: la scuola come dispositivo di riproduzione, intrinsecamente autoritario, della cultura dominante, e insieme delle disuguaglianze esistenti. Questioni allora talmente vive e coinvolgenti – quasi impossibile immaginarlo oggi (o anche senza “quasi”), – da entrare addirittura, di lì a poco, sull’onda del successivo 1969 “operaio”, nei contratti collettivi di lavoro, con il diritto a 150 ore annue retribuite di studio, a partire dalla categoria dei metalmeccanici.

Potrebbe essere tuttavia fuorviante, per gli scopi di questo nostro incontro, identificare tout court l’essenziale dell’esperienza di Barbiana con le vicende accadute nell’insieme del mondo occidentale in quella primavera effervescente. Lo si è fatto spesso, e si continua a farlo. E di più, pare a me, da parte dei detrattori di Barbiana. Spesso evocando un’immagine più fantasmatica che realistica del Sessantotto e delle sue molteplici, eterogenee dimensioni. Meglio scansare, in questa sede, quelle diatribe ideologiche confusive, per restare nei binari della nostra discussione. Mantenendo l’attenzione sul tema chiave di Barbiana, enunciato in apertura: il tema della libertà, e dell’importanza, per essa, della parola. Tema che costituì il contributo originale di quell’esperienza, certo, alle effervescenze collettive del 1967-1969, e alle vicende successive dei nostri mondi educativi. Ma che lo fu prima ancora, vorrei sottolineare, per un più vasto insieme di tumultuosi processi sociali e culturali avviatisi da tempo. Dei quali quel triennio non costituì che il momento culminante.

Le stesse lotte contro la lunga guerra del Vietnam, ricordate sopra, avevano ampiamente investito l’opinione pubblica, partendo dai campus americani, da ben prima del 1967. La nota canzone di Gianni Morandi contro quella guerra, per dire, è del 1966. E ancor prima, fu da quelle lotte non-violente che don Milani trasse il motto per eccellenza della Scuola di Barbiana, I care, come ricorda lui stesso nella Lettera ai giudici, scritta nel 1965, durante il processo subito per la Lettera ai cappellani militari: “Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande «I care». È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. «Me ne importa, mi sta a cuore». È il contrario esatto del motto fascista «Me ne frego»” (Milani, 1965, p. 35). Del resto, l’enciclica Pacem in terris, di Papa Giovanni XXIII, era del 1963: l’anno seguente alla “crisi dei missili” di Cuba e al sospiro di sollievo planetario per il conflitto nucleare evitato in extremis

Per comprendere meglio Barbiana occorre tener presente che gli anni Sessanta furono nel loro insieme, detto in estrema sintesi, un continuo lievitare e contaminarsi di stati d’animo impazienti, proiettati verso un futuro di libertà, di progresso sociale, culturale e civile percepito come a portata di mano. Si era al cuore di quell’eccezionale momento storico che seguì alla tragedia della Seconda guerra mondiale, alla sconfitta del nazifascismo europeo, e all’avvento, in tanti Paesi, tra cui il nostro, della democrazia costituzionale. Non una sola piega della società civile, in quel trentennio “glorioso”, come lo definì l’economista francese Jean Fourastié (2007), chiuso dalla grande crisi energetica dei primi anni Settanta, restò immune da quell’onda contagiosa di aspirazioni a un futuro più libero, giusto e prospero.

Di quel clima culturale furono parte cruciale anche impegnati movimenti cattolici, particolarmente vivaci proprio nella Firenze di don Milani. La Firenze dei La Pira e dei Balducci. Movimenti decisivi, come noto, per quel Concilio Vaticano II (1961-1963) che pose al centro, per la prima volta nella storia della Chiesa, il tema della libertà di coscienza. Tema quanto mai caro, come già si diceva, a don Lorenzo Milani. Caro al punto da farne il cuore stesso del “suo” Vangelo: consacrato, fin dalla Scuola popolare aperta a Calenzano a fine anni Quaranta, alla formazione di persone libere. Facendo della scuola, come ha scritto l’amico David Maria Turoldo, “la sua unica consumante pastorale, la legge del suo sacerdozio e il suo messaggio più rivoluzionario” (1997, p. 25).

4 Una paideia a partire dai Gianni

L’aggettivo iperbolico “glorioso”, riferito a quel trentennio che vide l’Italia trasformarsi rapidamente da paese contadino a potenza industriale, non vuol qui esprimere, beninteso, un giudizio di valore, ma una constatazione di ordine sociologico. I prezzi pagati a quella metamorfosi accelerata, non lo sto dimenticando, furono elevatissimi. Sradicamenti, migrazioni, dolorose urbanizzazioni. E non visto, ma micidiale, il balzo di soglia gigantesco della crisi ecologica, effetto per così dire “collaterale” della “guerra fredda” – ideologica, tecnoscientifica, economica e militare insieme – tra le due potenze geopolitiche vincitrici di quella, rovente, chiusa emblematicamente da due spaventosi funghi atomici.

Ma resta tuttavia innegabile, venendo ai giudizi di valore, che quel dopoguerra vide anche affermarsi, in forme molto diverse, spesso pure aspramente conflittuali, un “vento di libertà” mai conosciuto prima, per milioni di donne e di uomini, sorretto da garanzie costituzionali di uguaglianza e di welfare – tra cui l’istruzione pubblica – quali mai erano comparse in passato. Ed è in quella temperie politico-culturale, che quel rampollo di una famiglia fiorentina satura di parole importanti, sublimate nella forza essenziale della parola evangelica, decise di fare della scuola la sua “consumante pastorale”. Con la radicalità che sappiamo, resa una volta di più dalle parole del suo confessore: “Quel ragazzo partì subito per l’assoluto, senza vie di mezzo. Voleva salvarsi e salvare, ad ogni costo. Trasparente e duro come un diamante, doveva subito ferirsi e ferire. E così fu” (in Fabbretti, 1971).

La scuola di don Milani, così intimamente unita alla sua persona, e insieme alle persone e ai luoghi concreti cui si legava, non si poneva come “modello” da replicare, né come “utopia” da perseguire. Ma proprio per la sua assoluta, radicale singolarità, seppe concorrere attivamente ai movimenti culturali del tempo. E continuare a ispirare, soprattutto, numerose esperienze educative, incoraggiandole a coltivare, a loro volta, le loro concrete, irriducibili singolarità. Declinando in vario modo la duplice radicalità di Barbiana: formazione integrale e schieramento con gli ultimi.

Formazione integrale, anzitutto, perché assunta come fine: non strumentale ad altro – la pur necessaria acquisizione di nozioni, regole, tecniche, lingue, arti, mestieri –, ma volta anzitutto a rendere la vita degna di essere vissuta; non disgiunta dalla vita ma sua parte integrante. E integrale, ancora, perché non impartita da fuori e dall’alto ma condivisa e concretamente situata; non sezionata per “materie” ma unitaria e “politecnica”; non al servizio dei “curricula” individuali, ma dello sviluppo di sensibilità insieme individuali, relazionali e collettive. 365 giorni all’anno, 9 ore al giorno. Integrale al punto da poter richiamare la paideia ateniese, potremmo dire.

Ma paideia, tuttavia, capovolta: non calibrata sui figli dei benestanti, com’era in Atene, e ha continuato a essere intesa in vari sviluppi successivi, ma schierata con i figli dei poveri. Poveri, come dicevamo, anzitutto in quanto carenti di parola: poiché “la povertà dei poveri – si legge in Esperienze pastorali – non si misura a pane, a casa, a caldo. Si misura sul grado di cultura e sulla funzione sociale” (Milani, 1958, p. 209). E siccome la parola “poveri” viene qui ovviamente dal Vangelo, e il Magister assunto a modello è ovviamente Gesù, è di una paideia cristiana, che dovremmo parlare. Ma di un cristianesimo, dobbiamo sottolineare ancora, decisamente singolare. Radicalmente conficcato, senza vie di mezzo, nella viva relazione di don Milani coi suoi ragazzi e le sue ragazze. Niente “ora di religione”, nella scuola di Barbiana, né crocifisso sul muro. Ma condivisione di destini. E come orizzonte comune, la Costituzione della Repubblica.

La scuola ufficiale, in questa esigentissima prospettiva evangelica, non poteva che apparire, nei suoi criteri di neutralità pedagogica e valutativa, come una scuola pensata a partire dai primi. Dai Pierini e non dai Gianni della Lettera a una professoressa. Complice, pertanto, nel mantenimento delle disuguaglianze di partenza. Ma non si pensi con ciò che a Barbiana si ignorassero le “grane” portate in aula dai Gianni. Leggiamo infatti nella Lettera:

L’abbiamo visto anche noi che con loro la scuola diventa più difficile. Qualche volta viene la tentazione di levarseli di torno. Ma se si perde loro, la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati (Scuola di Barbiana, 1965, p. 15).

Tenere a mente questo monito significava, don Milani lo sapeva bene, trovarsi di fronte una montagna da scalare alquanto impervia, se non disperante. Ma poteva essere questa una ragione sufficiente per non guardare in faccia la verità? La verità della vistosa divaricazione tra i valori egualitario-fraterni della nostra democrazia e la soggezione della scuola alle logiche diseguaglianti della società? Per quel “testone” di don Lorenzo, certo che no.

5 Per concludere

E noi, oggi? Non ci troviamo forse anche noi, oggi, di fronte alla medesima, sfidante divaricazione, anche più vistosa? A una disperante montagna di questioni che nel frattempo abbiamo preso a nominare, chiamandole “povertà educativa”, “disagio scolastico” e altro ancora, e anche a misurare con dovizia di indicatori statistici?

Naturalmente, il contesto delle nostre sfide educative non è più quello, novecentesco, di mondi tradizionali trascinati nel vortice trasformatore dei processi di modernizzazione, che rendevano quei “vecchi mondi” obsoleti. Sfide da cui sorsero le fondamenta degli attuali servizi scolastici, d’impronta nazionale e universalistica, mobilitando un vasto stuolo di insegnanti, investiti della sacra missione di “vestali della classe media”, secondo la bella formula di Marzio Barbagli e Marcello Dei (1969).

Il nostro contesto è quello di mondi modernizzati a marce forzate, fattisi a loro volta ormai “vecchi” e obsoleti: trascinati da una poderosa accelerazione tecno-economica planetaria nel vortice di arene sociali quotidiane sempre più precarie e duramente competitive. Dove il “vento della libertà”, pervertito in vento liberista, soffia soltanto per élite esclusive, “secessioniste”, che alla massa della popolazione, sempre più massa di abbonati allo spettacolo perpetuo della società dell’immagine, sospinta da venti di paura del futuro, offrono l’illusione di una sicurezza gregaria. E quanto alla formazione, una scuola buro-aziendalista, volta a sfornare legioni di presunti “imprenditori di se stessi” – ovvero: una vasta massa di forza lavoro precarizzata, soggetta ai modi e ai ritmi delle grandi piattaforme del capitalismo digitale.

La formidabile rivoluzione tecnoscientifica oggi in atto, associata a dinamiche economiche planetarie, va abbattendo le soglie, ancora fino a poco tempo fa intangibili, dei nostri circuiti genetici, e ibridandosi intimamente con quelli neuronali, emozionali e relazionali. Ciò mentre l’intrecciarsi di rivolgimenti economici e climatici alimenta movimenti migratori di dimensioni mai viste. E mentre una nuova cieca escalation planetaria, una nuova “guerra fredda” – multipolare, ma a dominante USA-Cina –, va ulteriormente occultando i costi ambientali smisurati che essa comporta. E con essi, l’urgenza crescente di “fraternità terrestri”, all’altezza di questo nostro inedito, vorticoso presente relazionale continuo (Manghi, 2024).

L’autonoma forza regolativa della politica, che nel corso del trentennio “glorioso” aveva saputo incidere, seppure parzialmente, in direzione egualitario-solidale, sulle prorompenti trasformazioni in atto (si era persino dato avvio al processo di unificazione europea), ha ceduto sempre più all’arroganza “deregolamentata” degli “spiriti animali” che a partire dagli scorsi anni Ottanta hanno messo al mondo l’attuale, inedito capitalismo globale, di marca speculativo-finanziaria e tecno-digitale – “marca” che la nuova leadership americana mette in scena, è facile osservare, plasticamente.

Differenze enormi, com’è evidente, rispetto al tempo di Barbiana. Epocali, come si dice. Ma anche, insieme, in fatto di sfide formative, evidenti analogie di fondo, tra ora e allora, che conferiscono all’inattuale esperienza di Barbiana una nuova, e ancor più esigente, attualità. Analogie relative alla povertà di parola, oggi in rapido aumento, che gli insegnanti di ogni ordine e grado conoscono bene: abbandono scolastico, difficoltà a vivere la scuola come valore in sé, impatto “analfabetizzante” delle forme espressivo-comunicative “digitali”, crescita della popolazione di lingua madre straniera, dinamiche bullistico-vittimarie, ricorso a certificazioni medico-psicologiche per stare al passo con standard formali “positivi”, rapporti conflittuali scuola-famiglia.

E insieme analogie relative alle disuguaglianze, già oggi, e ancor più in prospettiva, in crescita esponenziale, per gli effetti sul mercato del lavoro globale di una nuova rivoluzione industriale che è appena solo iniziata: disparità crescenti tra i Gianni e i Pierini, in una scuola non più orientata da una politica divenuta ormai ancella del turboreattore tecno-economico globale.

A fronte di condizioni così radicalmente sfidanti per i nostri istituti, saperi e mestieri educativi – non solo scolastici –, la paideia rovesciata di Barbiana conserva la sua bruciante attualità, in quanto continua a richiamarci al valore assolutamente prioritario, con tutti gli investimenti ideali e materiali del caso, che siamo chiamati a saper assegnare ai processi formativi. E più che mai, in questo vertiginoso inizio di una inedita “comunità di destino terrestre” (Morin & Kern, 1994), ecologicamente e politicamente fuori controllo, che va mettendo al mondo straordinarie conoscenze e tecnologie, potenziali portatrici di nuova libertà, mentre rende rapidamente obsolete le nostre più consolidate facoltà relazionali, cognitive, discorsive, immaginative e politiche. Moltiplicando a dismisura le nostre povertà di parola. E dunque, insieme, le nostre illibertà, le nostre impotenze politiche, le nostre inattitudini alla cura – all’I care, al mi sta a cuore.

Non rimane, a questo punto, che concludere. Restituendo la parola, con gratitudine, a Barbiana: “La cultura vera, quella che ancora non ha posseduto nessun uomo, è fatta di due cose: appartenere alla massa e possedere la parola” (Scuola di Barbiana, 1967, p. 105).

Riferimenti bibliografici

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  1. Il presente testo è la rielaborazione dell’intervento alla Conversazione “I care. La figura di don Milani nell’anno del Giubileo”, promossa dalla Città di Luni (SP) insieme alla Accademia Albericiana di Carrara e alla Sezione Apuo-lunense di Italia Nostra, e svoltasi presso la Sala Consiliare della Città di Luni il 18 gennaio 2025.↩︎