“Posso realizzare me stesso, vivendo,
soltanto se mi protendo al di là di me stesso
verso ciò che non sono; verso l’ente che mi è davanti:
le cose, le persone, le idee, le opere e i compiti che mi attendono”(R. Guardini)
1 La dispersione scolastica, un fenomeno complesso
Dati recenti alla mano, nel nostro Paese la dispersione scolastica costituisce un fenomeno dalle dimensioni preoccupanti. Per quanto concerne la sua forma esplicita, ad esempio, le stime ISTAT del 2023 sugli Early Leaving From Education And Training (ELET)1 certificano che il 10,5% dei giovani italiani tra 18 e i 24 anni ha abbandonato precocemente gli studi (a fronte della media europea del 9,5% e del benchmark fissato dall’UE al 9% per il 2030) (Eurostat, 2024). Nondimeno, dall’ultimo rapporto OCSE che raffronta la situazione dei sistemi educativi di 38 Paesi, emerge che il 20% degli italiani tra i 25 e i 34 anni non ha completato il ciclo di istruzione secondaria di secondo grado, laddove la media OCSE è del 14% (OECD, 2024, p. 46). Anche sul piano della dispersione implicita la situazione appare piuttosto scoraggiante. Dal Rapporto INVALSI del 2024, infatti, emerge che il 6,6% delle studentesse e degli studenti presenta, al termine del secondo ciclo di istruzione, fragilità negli apprendimenti in italiano, matematica e inglese. Seppur si registri un miglioramento rispetto alle rilevazioni degli anni precedenti,2 ciò lascia comunque intravvedere aspetti significativi circa la situazione in cui versa la nostra scuola e, in particolar modo, il disagio che la attraversa (di cui la dispersione non è che l’effetto più evidente).
Naturalmente, quando si parla di dispersione scolastica – vale a dire, della “mancata, incompleta o irregolare fruizione dei servizi dell’istruzione e formazione da parte dei giovani in età scolare” (AGIA, 2022, p. 20) – ci si riferisce a un tema che non è nuovo. È oggetto di dibattito e approfondimenti da molti anni, specie in occasione delle statistiche che periodicamente vengono diffuse dall’ISTAT sulla dispersione esplicita (ovvero, sui giovani che abbandonano precocemente la scuola in modo formale), così come in relazione alle percentuali sulla dispersione implicita (relative a chi non ha raggiunto i livelli minimi di apprendimento, secondo quanto certificato in ambito nazionale dalle prove INVALSI e, sul piano internazionale, dai test OCSE-PISA).3 Ma accanto a tali indicatori occorre considerare come il costrutto della dispersione scolastica, alla luce della complessità che lo contraddistingue, nondimeno comprenda gli abbandoni di fatto, le frequenze irregolari e le ripetenze. “Nei rapporti ufficiali si tende, invece, nel presentare i dati, a focalizzare l’attenzione soltanto sugli abbandoni formali e a commettere l’errore di usarli come sinonimo di dispersione scolastica: la parte per il tutto non è qui un’elegante figura retorica, è una drammatica sottovalutazione e una gravissima dimenticanza” (Batini, 2023, p. 21). Tale precisazione, dunque, risulta cruciale ai fini della corretta individuazione delle dimensioni del fenomeno, poiché “si parla di un ragazzo ogni cinque «colpito» dalla dispersione scolastica esplicita o implicita, ma sarebbe, probabilmente, più corretto e realistico parlare di un ragazzo ogni tre” (ibidem).
Anche la letteratura scientifica ha riflettuto e continua ad interrogarsi sugli aspetti che connotano tale fenomeno (Batini, 2002, 2023; Chiappelli & Guetta, 2020; Indellicato, 2020; Triani, 2016; Batini & Bartolucci, 2016; Triani, Ripamonti & Pozzi, 2015; Alivernini & Lucidi, 2011; Colombo, 2010; Batini & D’Ambrosio, 2009), indubbiamente complesso e multifattoriale e al tempo stesso cruciale nell’evidenziare le difficoltà in cui versa la scuola italiana e le sue criticità educativo-didattiche (Chiusaroli, 2023).
L’entità della dispersione scolastica, infatti, costituisce il costrutto principale attraverso il quale si fotografa lo ‘stato di salute’ del sistema di istruzione di un Paese.
Se negli anni ’60-’70 l’abbandono e l’insuccesso scolastico venivano sostanzialmente connessi a situazioni di marginalità economica e di deprivazione socio-culturale (Colombo, 2010, p. 35), negli anni ’80 si riconosce “il ruolo, di maggior rilevanza, esercitato dalle cause personali” (Batini, 2002, p. 27). Le problematiche scolastiche vengono dunque correlate alle caratteristiche individuali dei giovani: soprattutto a difficoltà di apprendimento, ad atteggiamenti di rifiuto, di resistenza e di scarsa motivazione nei confronti della scuola. Influenti sembrano essere, inoltre, una bassa autostima e la percezione soggettiva di inadeguatezza, nonché gli insuccessi scolastici precedenti (Dalton et al., 2009). Altri studi confermano che gli studenti con una buona considerazione delle proprie capacità risultano maggiormente motivati allo studio e presentano, quindi, minori probabilità di abbandonare la scuola (Alivernini & Lucidi, 2011).
Pertanto l’attenzione, lungi dall’essere focalizzata su acclarate situazioni di deficit o su condizioni di particolare marginalità socio-culturale, viene rivolta ai vissuti e ai comportamenti dei soggetti: a tutti quei ragazzi e a quelle ragazze che “presentano difficoltà, a volte gravi, di contenimento, scarsa capacità di instaurare relazioni positive con gli adulti e con i propri coetanei, oltre a ritardi nell’acquisizione di competenze chiave (leggere, comprendere, far di conto) non riconducibili a disturbi specifici dell’apprendimento o a situazioni di disabilità conclamata” (Triani, Ripamonti & Pozzi, 2015, p. 31). Su questa linea, assumendo sempre più importanza il modo in cui lo studente reagisce al contesto scolastico, un peso rilevante è attribuito ai disturbi d’ansia (AGIA, 2022, p. 8), ovvero alla percezione di alti livelli di stress associati all’ambiente della scuola.
Accanto a tali spiegazioni si affiancano studi che si concentrano sull’organizzazione dell’istituzione scolastica e sulla qualità dell’offerta formativa. Non si risparmiamo critiche a “strategie didattiche poco attente ai bisogni soggettivi, che diventano fattori di concausa della decisione di abbandonare gli studi” (Colombo, 2010, p. 36). In particolare, attraverso la lente dell’approccio interazionista, vengono indagati non solo i fattori didattici, ma anche quelli relazionali: ovvero, le interazioni tra insegnante e alunni, lo stile comunicativo del docente e di conduzione della classe (Batini, 2002, p. 28). Fra tutti gli aspetti contestuali, emerge come la qualità dell’insegnante e dell’insegnamento costituisca quello maggiormente influente per il successo o il fallimento nell’apprendimento: gli altri, seppur importanti, sembrano rivestire un ruolo minore (Hattie, 2008).
Quella che si evince, a partire dagli anni ’90, è “una visione contestualizzata del fenomeno” (Colombo, 2010, p. 36), che identifica nelle esperienze di insuccesso scolastico il “preludio immancabile dell’irregolarità e dell’abbandono” (ibidem). In questo senso, altri contributi mettono in risalto come un insegnamento efficace risulti collegato non solo a esperienze positive di apprendimento, ma anche a tassi di abbandono ridotti (Momo et al., 2019; Lloyd et al., 2003; King et al., 2016).
In relazione a quanto emerso fin qui, la dimensione implicita della dispersione costituisce una condizione strettamente legata – e precedente – alla sua manifestazione esplicita. Tuttavia, appare sostenibile anche il contrario: vale a dire, che dalla scarsa frequenza scolastica (dovuta a qualcuno dei fattori estrinseci o intrinseci sopra citati) può derivare un basso livello di rendimento e perfino la bocciatura. In questo caso, è il versante esplicito della dispersione (la frequenza saltuaria e situazioni di abbandono non formalizzato) a fungere da matrice di quello implicito.
In ogni caso, al di là delle letture di tipo individuale o contestuale che, di volta in volta, mettono in luce le varie condizioni associate alla dispersione scolastica (le difficoltà soggettive, gli svantaggi socio-culturali, l’organizzazione della scuola e la qualità della sua offerta formativa) sembra opportuno evidenziare come il comune dato di partenza consista in rilevazioni statistiche che convergono nell’assegnare un ruolo centrale agli esiti scolastici negativi, sia in termini di rendimento (si parla, in tal caso, di insuccesso e di dispersione implicita), sia in termini di frequenza (riferendosi agli abbandoni e alla dispersione esplicita). Il focus si fonda, infatti, su analisi quantitative, che indagano elementi visibili e oggettivi, concretamente misurabili: i voti negativi e le assenze. Pertanto su aspetti che, lungi dal rappresentare il processo dispersivo nel suo farsi, costituiscono invece dei fatti ex-post che registrano le dimensioni della dispersione – sia esplicita che implicita – quando gli abbandoni e gli insuccessi sono già accaduti. Ma ciò non consente di cogliere il fenomeno della dispersione “nel suo formarsi e di intervenirvi in modo preventivo” (Batini, 2023, p. 22). Basti considerare, a questo proposito, che l’indicatore degli ELET (Early Leaving From Education And Training) – ovvero dei giovani tra i 18-24 anni che, come citato in apertura, possiedono al massimo un titolo di scuola secondaria di primo grado – rileva gli abbandoni solo dopo che questi si sono verificati. Nondimeno, anche l’indicatore della dispersione implicita individua coloro che non hanno sviluppato le competenze e le abilità previste quando il percorso formativo è ormai concluso, quando cioè il mancato apprendimento è già avvenuto. Dal punto di vista pedagogico, un tale modo di rilevare e interpretare la dispersione scolastica non permette di approcciare il fenomeno in itinere, nel suo dinamismo formativo e, soprattutto, di individuare efficaci strategie di contrasto e prevenzione.
Nella prospettiva della pedagogia fenomenologica (Iori, 1988; Bertolini, 2001; Caronia 2011; Bertolini & Caronia, 2015) non sono tanto i comportamenti visibili – in questo caso gli abbandoni e gli insuccessi – ad assumere rilevanza, quanto la qualità dell’esperienza che li motiva e la struttura intenzionale che vi soggiace: sono dunque gli aspetti emotivi e soprattutto esistenziali che andrebbero esplorati.
In altri termini: esistono molteplici forme di ‘abbandono’ che, pur non essendo rilevate dalle indagini ISTAT, INVALSI, OCSE ecc., vanno comunque ad alimentare l’ampio bacino del disagio legato alla scuola e ne rappresentano probabilmente la matrice sommersa.
2 Oltre la superficie: una lettura fenomenologico-esistenziale
Vicende di rifiuti, frequenze irregolari, insuccessi e fatiche nello studio: “si tratta evidentemente – come rilevano Piero Bertolini e Letizia Caronia nell’accostarsi al fenomeno della devianza giovanile – di storie diverse, di comportamenti non omogenei, di percorsi di vita non sovrapponibili eppure tutti condividono una implicazione comune: in ogni caso si tratta di ragazzi e ragazze i cui comportamenti sono percepiti come dissonanti rispetto ad un certo modello condiviso di competenza sociale e che per questo marcano la diversità di chi li compie” (Bertolini & Caronia, 2015, p. 35). Trasponendo questa riflessione sul piano della dispersione scolastica, il riferimento va a studenti e studentesse i cui risultati vengono percepiti non in linea rispetto ad un certo modello condiviso di competenza scolastica, essenzialmente legato alla frequenza regolare e all’apprendimento dei contenuti, delle conoscenze e competenze previsti dalle Indicazioni Nazionali e dalle Linee Guida ministeriali vigenti (ripresi dai Quadri di Riferimento di INVALSI).4 Viene perciò individuato uno scarto “dall’immagine-norma del bambino o dell’adolescente” (ibid., p. 36), in questo caso dall’immagine-norma del ‘bravo’ studente o, perlomeno, dello studente ‘sufficientemente buono’, che non eccede nelle assenze e che raggiunge gli standard attesi di apprendimento. Tali immagini, però, non sono innocue: esse “possiedono una loro forza direttiva nell’indirizzare la costruzione delle rappresentazioni di un certo fenomeno e l’agire sociale nei suoi confronti” (ibidem). Di talché, rispetto a questi assunti, uno studente può essere considerato ‘bravo’ o ‘a rischio’. E sempre sulla base di parametri oggettivi, misurabili.
In virtù di tali considerazioni, la lente fenomenologica consente di guardare allo ‘stato di salute’ delle scuole – e, quindi, al processo dispersivo che ne è espressione – non arrestandosi sul piano degli aspetti visibili e quantitativamente rilevabili. Ciò nella convinzione che la dispersione scolastica, al pari di altri fenomeni indagabili scientificamente, “non può che rispondere, e lasciarsi conoscere, solamente negli aspetti e nei dati su cui è stata «provocata» («chiamata davanti»)” (Iori, 1988, p. 1), mantenendo di fatto nascosto tutto ciò su cui non è stata invitata a manifestarsi.
In questa linea, può risultare appropriato accostare al fenomeno della dispersione scolastica la questione del senso, quale profilo nascosto che spesso non viene sollecitato a disvelarsi. Il che si traduce nel volgere lo sguardo al di là dei voti scolastici e delle condotte più o meno problematiche degli studenti in difficoltà: ovvero, al “significato racchiuso in quelle azioni, atteggiamenti, stili di vita con cui ogni singolo individuo traduce quella difficoltà” (Bertolini & Caronia, 2015, p. 46). Lo ‘stato di salute’ di una scuola non può essere ridotto – e ricondotto – ai soli indicatori della dispersione scolastica esplicita e implicita, poiché coincide con qualcosa di più complesso e plurisfaccettato, spesso invisibile. Esso può comprendere, infatti, anche le dimensioni emotive e, nello specifico, esistenziali dell’esperienza scolastica: quelle che concernono il modo in cui i ragazzi percepiscono e si rappresentano la scuola, i loro vissuti e significati. O, meglio, la loro capacità di investire di senso la realtà che sperimentano. Non è per nulla assodato che le scuole ‘migliori’ siano necessariamente quelle che registrano un basso tasso di abbandoni, scarse assenze e/o buoni risultati nelle prove INVALSI. Pur trattandosi di indicatori indubbiamente importanti, vi sono tuttavia aspetti che sfuggono a tali rilevazioni e che, nondimeno. contribuiscono fortemente alla qualità della scuola stessa e, dunque, al suo stato di salute: dove per ‘salute’ non si intende semplicemente l’assenza di “malattia” (leggi: di abbandoni, di frequenze saltuarie o di insuccessi nell’apprendimento), quanto il grado di benessere mentale, emotivo, relazionale ed esistenziale che gli studenti vi sperimentano (Daniele, 2024).
Può essere allora opportuno ampliare il costrutto di dispersione scolastica, nella convinzione che possa essere tematizzato anche in riferimento ai ragazzi che frequentano regolarmente e che ottengono risultati buoni o soddisfacenti. La situazione di tali studenti, benché non preoccupante sul piano degli apprendimenti e delle presenze, non è di default avulsa da eventuali elementi di criticità. Sarebbe miope, oltre che profondamente ingiusto, rimanere irretiti nel pregiudizio che associa il disagio all’insuccesso scolastico, così come – in modo uguale e contrario – restare in ostaggio di stereotipi che vedono nel ‘bravo studente’ (corrispondente al modello scolastico vigente) colui/colei che non ha particolari esigenze, né problematicità. Con il rischio che lo sguardo di chi educa sorvoli su tali ragazzi e ragazze, rendendoli di fatto invisibili.
È sulla scorta di tali riflessioni che, nel presente contributo, l’attenzione va ai ragazzi che “si adattano meglio a una tipologia di studio che premia la docilità e le capacità di attenzione” (ibid., p. 50): quelli i cui bisogni non sono ‘gridati’ ma, non per questo, inesistenti. È nei cosiddetti ‘studenti modello’ che si possono celare forme latenti di disagio, sotto un’apparente normalità, “a dimostrazione di come l’elevato profitto non sia necessariamente sinonimo di benessere” (Fontana, 2011, p. 184). Talvolta, addirittura, si può avere l’impressione che proprio coloro che risultano più docili e conformi alle aspettative del contesto scolastico siano anche i meno brillanti dal punto di vista del pensiero critico, della consapevolezza di sé e delle proprie aspirazioni.
Su questa scia, si tratta di prendere in considerazione non solo agli aspetti comportamentali e le competenze cognitive dei soggetti (rilevati, ad esempio, dalle prove INVALSI), ma anche le loro dimensioni emotive, alla luce peraltro di quanto attestato da diversi studi che hanno evidenziato la stretta correlazione tra la dimensione affettivo-relazionale e il successo scolastico (Cattelino, 2010; Formella, Iacomini & Szpringer, 2012; Riva, 2015; Konishi & Wong, 2018), oltre che da recenti ricerche circa l’impatto delle competenze non-cognitive sugli esiti di apprendimento (Folloni, Sturaro & Vittadini, 2021; Gentile et al., 2023).5 Tuttavia, pare altresì importante non trascurare le competenze esistenziali dei giovani: quelle che consentono loro di scorgere un senso e un significato nelle situazioni che vivono e di intravvedere percorsi futuri di sviluppo e progettazione di sé. Risulta perciò quantomai opportuno affiancare alle consuete rappresentazioni della dispersione una lettura che non ne estrometta gli aspetti più sommersi legati alla significatività o all’insignificanza che le ragazze e i ragazzi percepiscono in relazione alle esperienze scolastiche e in rapporto alla costruzione della propria identità e del proprio progetto di vita.
Nondimeno, la necessità di ampliare il costrutto di dispersione scolastica ha già fatto la sua comparsa allorquando al concetto di dispersione esplicita fu affiancato dall’INVALSI quello di dispersione implicita, integrando l’attenzione alle condotte assenteiste e agli abbandoni con quella per i risultati negli apprendimenti. “La disponibilità di dati sugli apprendimenti confrontabili su base nazionale – scriveva qualche anno fa il Presidente di tale Istituto – permette di individuare quegli studenti che, pur non essendo dispersi in senso formale, escono dalla scuola senza le competenze fondamentali” (Ricci, 2019, p. 1). Ciò ha consentito di spostare il focus dal numero di giovani che non conseguono un titolo di studio al livello di impreparazione raggiunto e, allo stesso tempo, di orientare lo sguardo verso quell’ampia fascia di studentesse e studenti a forte rischio di marginalità sociale, perché “difficilmente in grado di elaborare le informazioni a loro disposizione per assumere decisioni basate su dati e coerenti con i loro progetti di vita” (ibid., p. 4). A ciò si aggiunga che, in un’accezione estensiva del fenomeno caleidoscopico della dispersione scolastica, esso può arrivare a comprendere diverse forme di non-presenza, fino ad includere la “frequenza passiva” (AGIA, 2022, p. 20). In altri termini, coloro che abbandonano la scuola o che non conseguono i risultati previsti, rappresentano solo la punta di un iceberg: la parte emergente di un disagio molto più diffuso.
Nell’intento di non sottostimarne le proporzioni, si conferma allora sensato estendere ulteriormente il costrutto di dispersione alle dimensioni emotive e, in particolare, esistenziali dell’esperienza scolastica, considerando il senso (o il vuoto di senso) che i ragazzi attribuiscono alla scuola. Ciò al fine di non sottovalutare l’entità del malessere scolastico, il quale non coincide riduttivisticamente con le bocciature o gli abbandoni, ma comprende forme più sottili, implicite e meno visibili di disagio. Forme delle quali la scuola si deve occupare, poiché spesso costituiscono l’anticamera della dispersione conclamata, esplicita o implicita. Se, infatti, è vero che un basso livello di apprendimento può portare a una frequenza saltuaria e infine all’abbandono, risulta altrettanto ammissibile che un vissuto di estraneità e insensatezza nei riguardi della scuola può incidere sulla qualità degli apprendimenti oltre che, eventualmente, su assenze sempre più prolungate nel tempo. Come dire: l’abbandono e l’insuccesso scolastico vengono da lontano, giacché una matrice sommersa di tali fenomeni – che lavora sottotraccia, e per lo più nell’indifferenza generale – può essere legata alla mancanza di senso. Sicché, se un soggetto non comprende l’attinenza di quello che sperimenta a scuola con la propria vita; se non si sente stimolato ad approfondire le proprie conoscenze; se non si entusiasma per qualcosa; se non si accende in lui/lei un interesse; se non individua una sfida che metta alla prova le sue capacità, sarà probabile che non si impegni (rientrando nei dati INVALSI) o che si assenti di frequente (rientrando negli indici ISTAT). Appare quindi ipotizzabile che tale mancanza di senso influisca sulla demotivazione (nonché, a cascata, sugli apprendimenti e sulle frequenze) sebbene ciò non sia – è bene sottolinearlo – affatto scontato: potrebbe accadere che tale insensatezza si esprima non come insuccesso scolastico, bensì in un atteggiamento apatico, distaccato, impersonale.
In ogni caso, è proprio tale dimensione esistenziale (quella legata, per l’appunto, al senso o al non senso dell’esperienza scolastica) che sfugge alle rilevazioni quantitative sulla dispersione e il malessere scolastico, rischiando pertanto di rimanere silente. Eppure tale questione è comunque presente tra i banchi. E vi è nella forma di un disagio latente, “asintomatico” (Mesa, 2006, p. 59), per lo più silenzioso ma non per questo meno insidioso, che può manifestarsi come pervasiva mancanza di interesse, come sostanziale passività e arrendevolezza. Come una postura caratterizzata da un incedere quasi per inerzia, propria di soggetti ‘spenti’, che non si danno ‘a vedere’, rispondendo tutt’al più agli stimoli, ma senza iniziativa o presa di posizione alcuna.
Si è di fronte a una forma dispersione che, come accennato, non viene intercettata dai modelli di tipo misurativo, esattamente come non vengono colti – per quella via quantitativa – i fattori che rendono significativa un’esperienza educativa e che alimentano un vissuto di benessere esistenziale (non solo scolastico e legato alle esperienze di apprendimento, ma che si irradia agli altri contesti dell’esistenza). Il riferimento va a “competenze di vita” (Daniele, 2004, p. 122), dunque, che possono maturare in un ambiente scolastico capace di stimolare nell’adolescente la personale ricerca di senso, attrezzandolo a vivere con senso non solo le situazioni proposte dalla scuola, ma l’insieme delle esperienze che costellano i molteplici ambiti (anche informali) che sperimenta. A risorse esistenziali che, in altri termini, strutturano il suo modo di stare nel mondo (Arioli, 2013).
Così, al paradigma misurativo – che sembra oggi caratterizzare l’educazione e la ricerca pedagogica (Biesta, 2009; Biesta, 2010) – si intende affiancare uno sguardo fenomenologico-esistenziale sulla scuola e il benessere/malessere scolastico, in un’ottica integrativa rispetto all’impiego di dispositivi di accountability (essenzialmente concentrati a verificare il raggiungimento dei risultati attesi) e alla sempre più diffusa “cultura dell’evidenza” (la cosiddetta EBE – Evidence Based Education) attenta ai dati delle performance di apprendimento (Caronia, 2022). Un approccio, in altri termini, che non lasci in ombra – sia nel valutare gli studenti, che nel leggere le forme di malessere scolastico – dimensioni che, come quelle esistenziali, sembrano essere meno indagate non solo nel tempo attuale, se già Dewey scriveva: “il guaio dell’educazione tradizionale non consisteva già nel porre l’accento sulle condizioni esterne che partecipano al controllo delle esperienze, ma che si facesse così poca attenzione ai fattori interni che pure fanno sentire il loro peso sul genere di esperienza che si avrà” (Dewey, 1999, p. 29). Su questa linea, se si intende comprendere quale siano le motivazioni sottostanti i comportamenti e i risultati degli studenti, occorre riferirsi alla dimensione intenzionale dell’esperienza scolastica, nella convinzione che “ogni individuo in quanto soggetto vivente ha nell’intenzionalità della coscienza, nella sua capacità di investire di senso il mondo naturale e sociale, la sua caratteristica essenziale” (Bertolini & Caronia, 2015, p. 61).
Si tratta, in altri termini, di interrogare il fenomeno della dispersione scolastica a partire dal presupposto antropologico della coscienza intenzionale, che consente di mettere al centro il significato soggettivo che lo studente attribuisce all’esperienza: il valore e il significato che rivestono le situazioni che vive e, al contempo, la sua stessa persona, gli altri, le cose. Di cogliere come il processo di significazione influisca sulla qualità dell’esperienza scolastica e, quindi, sugli effetti di quella stessa esperienza.
Il tutto assume particolare rilievo se si considera che, proprio in adolescenza, si avverte fortemente il bisogno di rivestire di senso il reale. Infatti, “più viva si presenta all’adolescente la problematicità dell’esistenza, mentre matura spiritualmente e spiritualmente si tortura (giacché i giovani) si trovano nello stadio di ricerca del senso della vita” (Frankl, 2005, p. 64). La scuola, allora, non può prescindere dal considerare l’esigenza dei giovani di scorgere un significato in ciò che esperiscono, nonché dal promuovere attivamente il processo della ricerca di senso.
Da tale quadro si evince come, all’ampliamento del costrutto della dispersione alle dimensioni emotive ed esistenziali dell’esperienza scolastica vada associata la dilatazione del concetto di apprendimento, che non si riduce all’acquisizione di conoscenze e di cognitive skills (quelle rilevate dalle prove INVALSI), ma che concerne altresì la maturazione delle competenze esistenziali: quelle che hanno a che fare con la capacità di individuare le possibilità di significato racchiuse nelle situazioni dell’esistere e di avvertirle come esigenze pro-vocanti (che ‘chiamano davanti’), alle quali rispondere. Su questa linea sembra porsi Gerard Biesta, quando avanza la necessità di “guardare all’apprendimento da una prospettiva diversa e considerarlo come una risposta (…) a ciò che ci sfida, irrita, o anche disturba, invece che come l’acquisizione di un qualcosa che vorremmo possedere” (2023, p. 39).
3 Il volto silenzioso della dispersione: tra le maglie di un disagio sommerso
La letteratura sulla dispersione scolastica per lo più si occupa, s’è detto fin qui, dei soggetti che hanno abbandonato precocemente, oppure che sono a forte rischio di abbandono e/o con problemi di rendimento scolastico. Il concetto stesso di dispersione “fa riferimento ai tassi di abbandono e di ripetenza, ovvero all’insuccesso scolastico, per il quale si verifica una dispersione, appunto, dell’insieme di aspettative formative” (Batini, 2002, p. 9). Tuttavia, accanto a tali situazioni v’è un’ampia gamma di studenti e studentesse che, come accennato, non rientrano nelle rilevazioni quantitative sulla dispersione esplicita e implicita. Un’ampia gamma che non fa rumore,6 che non fa notizia: che può rimanere invisibile non solo alle statistiche, ma anche agli occhi talvolta poco accorti di un mondo adulto poco avvezzo a prestare considerazione a ciò che non disturba. E quindi, se è vero che “ogni abbandono è da comprendere nella dispersione scolastica” (Batini, 2023, p. 27), non è vero il contrario, poiché “la dispersione scolastica non è esaurita dall’abbandono (e l’abbandono non è soltanto quello formalizzato)” (ibid., p. 27). Vi può essere ‘abbandono’ anche quando si continua a frequentare, ma con una postura di rinuncia, di distacco, di disinteresse. Come emerge da una ricerca finlandese sui giovani tra i 16 e i 18 anni, infatti, un atteggiamento cinico e distante nei confronti della scuola risulta significativamente correlato allo sviluppo del burnout scolastico (Bask & Salmela-Aro, 2013), che non sempre si risolve in allontanamento conclamato.
Si è così di fronte a una forma di abbandono non fisicamente percepibile né documentabile, ma più sottile, che concerne il vuoto di senso avvertito – più o meno consapevolmente – da quegli studenti che a uno sguardo superficiale tutto sommato ‘vanno bene’, non avendo problemi di apprendimento né di comportamento. Tali riflessioni si avvicinano a quanto asserito da Heyne e collaboratori (2019) quando, nel definire le diverse tipologie della non frequenza scolastica (School Attendance Problems – SAPs), considerano non solo l’assenteismo (truancy), il ritiro dalla scuola (school withdrawal) o l’esclusione dalla stessa (school exclusion), ma anche lo school refusal, ovvero il rifiuto della scuola associato a difficoltà emotive, che costituisce “un problema di presenza distinto dall’assenteismo” (ibid., p. 11) dal momento che non implica necessariamente l’interruzione della frequenza scolastica. Implica piuttosto un altro tipo di ritiro: quello di chi permane sulla soglia, non essendo realmente coinvolto, né ingaggiato in ciò che fa.
Su questa scia, non sembra azzardato comprendere nelle maglie della dispersione scolastica quelle studentesse e quegli studenti che a scuola vivono un disagio esistenziale ed emotivo: una frustrazione della loro esigenza di senso. Dunque, tutti quei soggetti che, nel mentre frequentano la scuola, sprecano di fatto la possibilità di viverla in modo significativo; di scoprire interessi e passioni autentiche. A ben vedere, proprio “la combinazione tra etimologia e significato porta a evocare con il termine dispersione la dissipazione di intelligenze, di risorse, di potenzialità dei giovani” (Cetorelli, 2002, p. 75). Il pensiero va a tutti quei giovani che, formalmente, corrispondono alle aspettative della scuola, ma che siedono tra i banchi in modo passivo, apatico, spento, quasi anestetizzato. Tutto – o quasi tutto – ciò che fanno e che imparano scivola loro addosso, in una sorta di indifferenza, di impermeabilità, di atrofia del desiderio di senso, di “addormentamento spirituale” (Frankl, 2005, p. 143).7 Ragazze e ragazzi che dispongono di risorse – materiali, cognitive, relazionali – per vivere, ma che faticavo a individuare un significato in ciò che vivono (nel qui-ed-ora), ma anche uno scopo per cui vivere (nel non-ancora). Rispondono agli stimoli, ripetono la lezione e i contenuti diligentemente, ma senza interiorizzarli in modo critico, personale e profondo. Si tratta di giovani che la scuola non raggiunge appieno: che comunque ‘perde’, poiché le esperienze di apprendimento vengono attraversate (o, meglio, li attraversano) senza lasciare un segno, di fatto non incidendo nello sviluppo integrale e integrato della loro personalità. Se può verificarsi, sottotraccia, una dispersione di ‘capitale umano’ anche quando i ragazzi continuano a sedere tra i banchi di scuola e a essere promossi, possono allora essere comprese nel concetto stesso di dispersione scolastica tutte quelle situazioni “che vanno dall’evasione scolastica […] fino al disagio esistenziale di giovani che, pur ottenendo un certo successo scolastico, hanno difficoltà a tradurre questo in un orientamento nella vita e in un progetto di partecipazione sociale” (Cetorelli, 2002, p. 75).
Naturalmente, il disagio esistenziale non riguarda solo la scuola, ma anche la scuola nella misura in cui essa non riesce a intercettarlo e contrastarlo, o addirittura finisce per acuirlo irrimediabilmente. Il sentimento di insignificanza, infatti, sovente affonda le radici nella storia educativa del soggetto (all’interno della quale l’istituzione scolastica riveste un ruolo cruciale). È nelle tante ore trascorse a scuola, nella molteplicità delle esperienze che i ragazzi vi vivono e negli incontri che vi accadono, che essi vengono allenati (o meno) a interrogarsi sul senso del qui-ed-ora e del non-ancora. La scuola costituisce, potenzialmente, una insostituibile palestra esistenziale. Ciò non significa che quanto i giovani sperimentano nei contesti extrascolastici (che attengono al vasto sistema non formale e informale dell’educazione diffusa) non sia incisivo per la loro formazione: tutto concorre a intessere la biografia formativa soggettiva. Non tutta la responsabilità, dunque, va addossata alla scuola: l’incapacità di trovare un significato nelle situazioni dell’esistenza costituisce un fenomeno complesso e multifattoriale, che trova alimento in una società – come la nostra – dove conformismo, fatalismo e nichilismo sembrano costituire i tratti culturali dominanti (Bauman, 2002; Benasayag & Schmit, 2004; Galimberti, 2007; Ammaniti, 2018; Barone, 2018).
Un disagio, quello esistenziale, che pur maturando durante il percorso formativo, all’interno della scuola può sussistere in modo mascherato e rimanere di fatto celato, manifestandosi con maggior probabilità al di fuori di tale contesto istituzionale e negli anni a venire: ad esempio, nella difficoltà a compiere scelte consapevoli e decisioni autentiche; nell’assenza di scopi e compiti ai quali dedicarsi; nel vissuto di mancanza di senso che accompagna, non di rado, le vite di molti adulti che non hanno coltivato – nel periodo della formazione adolescenziale – le dimensioni esistenziali della loro personalità, in una “oscillazione continua tra sensazione di vuoto e di falsa pienezza” (Massa, 1997, p. 7). I frutti della disattenzione alle esigenze di senso dei giovani, infatti, si danno a vedere negli ambiti di vita meno formalizzati: quelli dove i soggetti sono chiamati non tanto a rientrare nei confini di un percorso predefinito, né a rispondere a sollecitazioni o a dimostrare di aver recepito dei contenuti, quanto ad assumere delle iniziative, a raccogliere delle sfide, a perseguire interessi e curiosità. Quando, cioè, si trovano in seguito a dover intraprendere traiettorie esistenziali in modo libero e responsabile, nel rispetto sia delle proprie aspirazioni che di quanto li attornia.
Emerge così la relazione non solo tra dispersione e disagio scolastico, essendo quest’ultimo “qualcosa di precedente e di molto meno palpabile e quantificabile” (Batini, 2002, p. 9), ma anche tra dispersione, disagio scolastico e malessere esistenziale dei giovani. Un fenomeno, quest’ultimo, che nella quotidianità della vita scolastica può viaggiare nell’implicito e non essere riconosciuto, perché “affatto eclatante” (Barone, 2009, p. 114) ma che, proprio perché incapace di trovare vie di espressione, può risultare particolarmente insidioso.
In ragione di ciò esso richiede a chi riveste il compito di educare e non solo di istruire (Massa, 1997) la presenza di uno sguardo affinato, capace di cogliere – anche da pochi indizi – il malessere derivante dal non percepire un senso in ciò che si vive, al fine di ingenerare un “apprendimento non fine a sé stesso ma come strumento di interesse per la vita, curiosità per la conoscenza, impegno di crescita, costruzione del proprio progetto personale” (Viganò, 2011, p. 11).
Il tutto nella convinzione che la finalità ultima dell’educazione – e di quella che rappresenta ancora la più importante agenzia educativa, ovvero la scuola – sia quella di fornire ai giovani gli strumenti necessari per progettare la propria vita in modo autonomo, responsabile e socialmente significativo. Come ricorda Gert Biesta (2022): “Il nostro compito è equipaggiare le nuove generazioni affinché possano vivere nel mondo, farlo proprio, fornendo loro le conoscenze e competenze di cui potrebbero avere bisogno” (p. 16).
E sono proprio i giovani a evidenziare, attraverso la difficoltà a operare scelte consapevoli e l’incapacità di coltivare percorsi personali e/o professionali coerenti con le proprie condizioni e aspirazioni, il fallimento della mission educativa della scuola stessa: basti accennare all’altrettanto allarmante fenomeno dei NEET (Not engaged in Education, Employment or Training).8 Dal punto di vista fenomenologico, allora, coloro che la scuola ‘disperde’ sono anche quei giovani che – pur concludendo il percorso di studi e pur conseguendo un diploma – una volta usciti dal percorso scolastico permangono in una situazione di disorientamento e di immobilità, perché non maturati dal punto di vista esistenziale, perché caratterizzati dalla difficoltà a “diventare soggetto” (Bertolini & Caronia, 2015, p. 38). Si tratta dei ragazzi che la scuola, infondo, non prepara alla vita.
4 Dispersione, disagio scolastico e vuoto di senso: quale connessione?
Poiché il benessere/malessere scolastico non si riduce al successo/insuccesso delle prestazioni, può accadere che studenti con sufficienti o buoni profitti non stiano volentieri a scuola, che non vi sperimentino un autentico appagamento, perché di fatto non vi trovano un senso. Nell’intento di mettere a fuoco questa particolare forma di dispersione o, meglio, dissipazione scolastica coincidente con il vissuto di insignificanza, può essere utile riprendere una vecchia indagine mantovana (Vezzani & Tartarotti, 1988) che evidenzia come, già allora, il 48,2% degli studenti esprimesse una sostanziale e diffusa indifferenza nei confronti della scuola, e il 24,4% indicasse vissuti di insoddisfazione e malessere. Il dato interessante è che, proprio tra gli studenti con un livello di profitto buono, il 46,9% dichiarasse la propria indifferenza per la scuola, e che lo stesso vissuto fosse espresso dal 35,5% degli alunni con un livello ottimo di rendimento. Dunque, anche in presenza di un buono e/o ottimo rendimento la scuola può essere percepita come un ambiente insignificante e non incisivo per il benessere personale. Questa ricerca, seppur datata, da un lato ha il pregio di mostrare come il dato sul rendimento scolastico non costituisca un indicatore sicuro di benessere; dall’altro evidenzia il rischio che la scuola sia equiparata – da un’ampia gamma di giovani – a un ambiente permeato da mancanza di entusiasmo e di interesse, quasi fosse ‘fisiologico’ convivere con la noia, l’apatia, il disinvestimento: una condizione imprescindibile, insomma, alla quale assoggettarsi e rassegnarsi in modo più o meno passivo.
Venendo a ricerche più recenti (Lucangeli, 2019, p. 69), pare che il 73% degli studenti italiani denunci di stare male a scuola (tra questi, il 60% stabilmente). Tra le tonalità emotive più diffuse spicca, oltre l’ansia, la noia. L’immagine che si profila è che persista, nelle aule scolastiche, una percentuale consistente di soggetti che la scuola stessa non riesce ad attivare; che vivono le esperienze scolastiche come insignificanti, senza ‘sapore’, perché incapaci di suscitare interessi, progettualità e interrogativi di senso. Si tratta di fare i conti col fatto che “molti alunni subiscono passivamente la scuola e i successi” (La Marca, 2016, p. 78): essa può essere fonte di preoccupazione, senza però costituire un ambiente di vita sensato. L’ipotesi è che, contrariamente al pensiero comune, non sia da escludere una correlazione tra successo scolastico e vissuto di insignificanza. Una correlazione generalmente poco considerata, per un duplice motivo: innanzitutto perché si tratta di una forma ‘carsica’ di disagio scolastico (che, come accennato, difficilmente si esprime attraverso problemi comportamentali o scarso profitto). In secondo luogo, perché gli studenti con buoni risultati e perlopiù diligenti (benché passivi) collimano sostanzialmente con il modello del ‘bravo studente’: quello che risponde puntualmente alle aspettative, senza disturbare. Viene da chiedersi, al tal proposito, quanto la scuola continui a esporsi “al pericolo di plasmare un’immagine ideale di studente, conforme ai parametri da essa imposti” (Daniele, 2024, p. 47), garantendo la sua perpetrazione piuttosto che il pensiero critico, il gusto per l’originalità del proprio modo di essere, nell’ottica dell’educazione come “pratica della libertà” (Hooks, 2020). Infine, nella sua recente indagine qualitativa da poco conclusa sul disagio dei giovani dentro e fuori della scuola, Katia Daniele (2024) ha rilevato che alcuni degli studenti partecipanti ai focus group “dipingono la scuola come un ambiente di malessere e disagio (…), evidenziando segni di ritiro fisico e mentale, difficoltà nel rapporto con i pari e i docenti, mancanza di motivazione e difficoltà di concentrazione” (p. 119). La maggior parte di essi, inoltre, considera “la scuola e i docenti come estranei alla propria esistenza” (p. 152) e, in generale “sembrerebbe emergere un senso di disappartenenza alla scuola” (p. 138).
Seguendo questo filo riflessivo, si pone la necessità di porre l’attenzione a situazioni di ‘ordinaria’ mancanza di senso, che rischiano di essere lette come una condizione ‘connaturata’ alla scuola e, quindi, di essere trascurate dalla riflessione pedagogica. Infatti, se sul versante del disagio emotivo la ricerca scientifica ha considerato la connessione tra dispersione ed emozioni ‘difficili’ (prima fra tutte l’ansia, ma anche l’aggressività, la scarsa autostima e senso di autoefficacia), sembra invece meno indagato il piano delle difficoltà eminentemente esistenziali, legate al non-senso che i ragazzi vivono nei confronti della scuola e, in un’accezione più ampia, all’incapacità di scorgere un significato e uno scopo nelle situazioni della loro esistenza. “Ciò che innanzitutto va disperdendosi sono le motivazioni, l’investimento emotivo e cognitivo, le risorse personali della persona in formazione” (Triani, Ripamonti & Pozzi, 2015, p. 4).
Così, la mancata attenzione al vissuto esistenziale dei ragazzi e alla loro “volontà di significato” (Frankl, 2005, pp. 101-102) accresce la dispersione delle competenze necessarie all’attivazione del dinamismo della ricerca di senso, e costituisce altresì la radice della percezione soggettiva (ancorché non sempre cosciente) di insignificanza, della sensazione strisciante e pervasiva di indifferenza e apatia, di disaffezione e distanza rispetto a ciò che si attraversa. Un vissuto, questo, graduale, che lavora in modo latente: non un fatto eclatante o un evento puntuale, bensì un basso continuo che accompagna i giovani nella loro permanenza a scuola, e che spesso non trova le parole per essere detto. Una dispersione del senso che si manifesta piuttosto come assenza di pathos: come un modo di essere, insomma, che caratterizza chi agisce in modo condizionato, secondo schemi impersonali, seguendo scrupolosamente quello che altri dicono di fare, ma senza comprenderne il perché.
È il fatto di trascurare l’educazione della dimensione esistenziale, allora, a costituire una matrice profonda, seppur invisibile, del disagio che sottostà alla dispersione (implicita ed esplicita). Detto altrimenti, “disagio e dispersione […] possono essere filiati […] anche, e forse soprattutto, dal non riuscire a trovare senso, significato e motivazione in quello che si sta facendo” (Batini, 2002, p. 24).
Naturalmente – è bene specificarlo – l’insignificanza non sempre né automaticamente rientra nel ‘rischio di abbandono’: spesso non si tratta di ragazzi che potrebbero lasciare la scuola. E nemmeno il vuoto di senso evolve deterministicamente in difficoltà di rendimento, alla luce della “non pertinenza del paradigma causale in educazione” (Bertolini & Caronia, 2015, p. 39).
Ciò detto, la lente fenomenologico-esistenziale consente di avanzare una rappresentazione eminentemente qualitativa del processo dispersivo, che mette al centro della riflessione pedagogica lo spreco, da parte della scuola, del potenziale emotivo ed esistenziale dei soggetti in formazione, quasi si trattasse di una ‘zona’ che nessuno, negli anni, ha avuto cura di irrorare. Col risultato che la scuola stessa, anziché essere percepita come luogo di vita, viene da quei giovani vissuta come un luogo che sottrae tempo vitale. La disattenzione educativa alle esigenze di senso si ritorce così sugli stessi insegnanti i quali, non di rado, patiscono il fatto di rivolgersi a ragazze e ragazzi che faticano a scorgere un senso in quello che viene loro insegnato.
Un vero e proprio boomerang per la scuola, che tuttavia evidenzia la necessità e l’urgenza di mettere in campo una didattica sfidante, capace di promuovere il “desiderio di conoscere e imparare” (Folloni, Sturaro & Vittadini, 2021, p. 133); uno stile di insegnamento perturbante, che ponga domande scomode e irritanti, le quali richiedono a ogni studente di uscire dalla comfort zone e di rispondere con la propria voce, di prendere posizione (Biesta, 2023). Per il docente non si tratta solamente di instaurare un buon clima relazionale con i ragazzi e le ragazze, quanto di predisporre delle “interruzioni” (Biesta, 2022) che spezzino la routine, che mettano a confronto con l’imprevisto, che destabilizzino consuetudini e certezze. E ancora: metodi di apprendimento attivanti (Biglietti, 2024, p. 62) che incentivino processi maieutici, strategie per l*‘ampliamento del campo esperienziale* (Bertolini & Caronia, 2015) che, proprio attraverso le sollecitazioni “apparecchiate” (Demetrio, 1990, p. 57) e le interazioni proposte dagli insegnanti, siano in grado di stimolare il dinamismo formativo dell’autotrascendenza: vale a dire, l’andare oltre se stessi nell’impegno verso qualcosa che ’accenda’ l’entusiasmo, che appassioni. Un compito cruciale quanto complesso per chi educa poiché, per usare le parole di John Dewey (1961), colui che “sveglia tale entusiasmo ha fatto qualcosa che nessuna somma di metodi formalizzati, non importa quanto corretti, potrà mai realizzare” (p. 95).
Quanto detto riconduce, a ben vedere, al fenomeno – altrettanto inquietante per la scuola – della learnification (Biesta, 2009; Biesta, 2010), conseguente al prevalere del paradigma misurativo-quantitativo. C’è una lunga tradizione, ricorda Gerard Biesta, nella quale l’educazione viene intesa come un processo che deve produrre qualcosa: dove al centro vi sono gli obiettivi di apprendimento definiti a priori e misurati attraverso sistemi di valutazione standardizzati. Dove si riduce il ruolo dell’insegnante a mero fornitore di beni: “ovvero a una variabile dell’analisi dei dati sulla produzione educativa, valutata secondo quel piccolo insieme di risultati di apprendimento misurabili che sono, a quanto pare, gli unici che contano” (Biesta, 2022, pp. 3-4). Dove, in sostanza, lo scopo dell’educare coincide col fornire risposte e produrre uno specifico tipo di soggetto umano, con la conseguenza di trascurare le questioni esistenziali riguardanti lo scopo dell’educazione stessa (Biesta, 2023).
In tutto questo si può ravvisare il depauperamento della mission della scuola, che consiste nel non allenare – nel mentre si insegna e nel modo in cui si insegna – il processo della ricerca di senso, precludendo così una cruciale risorsa per la vita, se è vero che “esistere in quanto soggetto non significa essere con se stessi – identici a se stessi – ma significa piuttosto essere”fuori” di sé, in qualche modo “esser-fuori” (ex-sistere)” (Biesta, 2022, p. 18). Emerge quantomai necessaria la cura educativa delle competenze di natura esistenziale, quali ad esempio la riflessività sull’esperienza attraverso processi di significazione e risignificazione (Mortari, 2003); la comprensione dei personali vissuti emotivi (Bruzzone, 2022); l’intuizione di nuove possibilità di significato, la consapevolezza dei propri valori, l’individuazione di un compito da assumere come sfida, la capacità di scegliere in modo libero e responsabile (Arioli, 2013). Competenze, queste, che sole consentono di stare nelle situazioni con una “coscienza sveglia e affinata, (quale) unica realtà che possa rendere l’uomo capace di ‘prendere posizione’, in modo da non cadere nel conformismo” (Frankl, 2010, p. 78) e di soddisfare l’esigenza – particolarmente impellente durante l’adolescenza – di trovare uno scopo e una direzione nella vita.
Così, promuovere il dinamismo della ricerca di senso dei giovani significa orientare il loro sguardo oltre la preoccupazione autoreferenziale per il soddisfacimento dei propri bisogni nel qui-ed-ora (Pietropolli Charmet, 2008), alimentando piuttosto l’interesse all’altro e all’oltre. Tale dinamismo autotrascendente, infatti, non si risolve nella ricerca di sé e su di sé, ma apre verso qualcosa che oltrepassa: verso significati da intuire e da realizzare, nella pro-tensione alla dimensione temporale del non-ancora. “L’uomo – dice a questo proposito Viktor Frankl – non può realmente esistere se non ha un punto fisso nel futuro verso cui volgersi.” (Frankl, 2005, p. 136). Una tensione progettuale che lungi dal coincidere con l’autorealizzazione e con l’autocentramento (Bruzzone, 2001), si manifesta invece come risposta a qualcosa che interpella il soggetto, che lo provoca, e che egli avverte come una sfida degna di essere raccolta. D’altro canto, “non nel rivolgersi verso se stesso, ma sempre cercando fuori di sé uno scopo […] l’uomo si realizzerà precisamente come umano” (Sartre, 1946, p. 86). È dunque scoprendo e realizzando un significato che ogni persona forma e trasforma continuamente se stessa. Principio, questo, fondamentale per l’insegnamento e l’educazione, il cui fine ultimo è quello di individuare – attraverso le discipline – ogni occasione “per allenare le competenze utili per vivere, o meglio per dare senso al proprio vivere: […] per imparare, in un qui e ora protetto, a”estrarre significato dal presente”, in modo tale da poter continuare a progettare e costruire la propria esistenza” (Palmieri, 2013, p. 204). Si tratta di riscattare, alfine, la centralità formativa di quelle competenze esistenziali che contamineranno, inevitabilmente, il dispiegarsi della personalità dei giovani e li struttureranno per sostenere il processo della ricerca di senso nella loro vita, condizionandone gli esiti.
5 Conclusioni. Se la scuola disperde il senso
Purtroppo, “è sotto gli occhi di tutti la fatica di molte/i adolescenti che, andando a scuola, la percepiscono come luogo di chiusura ed esclusione nei confronti delle loro attese e fatiche, al punto che […] finiscono per abbandonare anzitempo il percorso formativo” (Biglietti, 2024, p. 62). La forma di dispersione esistenziale fin qui delineata, benché silenziosa, non può non interpellare gli insegnanti, spesso alle prese con una quota considerevole di studenti e studentesse magari attenti, esecutivi e finanche zelanti, ma sostanzialmente ripiegati su se stessi, apatici e ‘addormentati’ dal punto di vista esistenziale. Come se, di fatto, permanessero ‘imbozzolati’ in una sorta di corazza che non consente loro di ‘uscire fuori’, perché incapaci di trovare qualcosa che ne attivi il desiderio e la motivazione interiore. Una forma di dispersione, s’è detto, che lavora nel sommerso e fa sì che i ragazzi si allontanino emotivamente dalla scuola, pur continuando a frequentarla.
In un tale clima di distanziamento e di disaffezione, è così che la scuola ‘perde’ (o disperde) i propri alunni, sperperando prezioso capitale umano e denunciando sostanzialmente il fallimento della propria mission educativa, che non coincide unicamente con la trasmissione di nozioni e la coltivazione della sfera cognitiva, bensì con la promozione dello sviluppo integrale della personalità delle giovani generazioni. Per dirla con le parole di Viktor Frankl: “il compito dell’educazione non è quello di trasmettere delle conoscenze e delle nozioni, ma piuttosto di affinare la coscienza in maniera tale che l’uomo possa scorgere le esigenze racchiuse nelle singole situazioni” (Frankl, 2000, p. 108). In modo tale, cioè, che i ragazzi siano allenati a chiedersi che impatto abbia sulla loro vita quello che apprendono; a individuare dei possibili significati in relazione ai propri valori; a rispondere creativamente e responsabilmente a quanto riescono a percepire come una sfida, un compito.
In questo quadro, la scuola è chiamata ad interrogarsi non tanto (o non solo) su come contrastare gli abbandoni e gli insuccessi scolastici dei ragazzi, quanto su come rispondere al loro bisogno di senso, cercando di individuare quali siano i fattori che ne influenzano la percezione soggettiva. Ciò richiede di superare l’idea prevalente dell’insegnamento come prestazione tecnica e l’opinione – ancora molto diffusa – secondo la quale “gli insegnanti migliori e più efficaci sono quelli in grado di guidare il processo educativo verso una solida produzione di ‘risultati di apprendimento’ predefiniti” (Biesta, 2022, p. 8). Si tratta, piuttosto, di investire su una didattica meaning-oriented, atta ad integrare ciò che si fa e si propone ai ragazzi con la promozione indiretta del dinamismo della ricerca di senso. Intendendo, con il termine ‘indiretta’, la convinzione che sia possibile per l’insegnante coltivare le competenze esistenziali dei giovani non già predisponendo insegnamenti ad hoc (suonerebbe alquanto singolare l’ora di educazione esistenziale), bensì attraverso la scelta attenta degli argomenti disciplinari da trattare (quali mettere in primo piano, in relazione ai soggetti che si hanno in aula? E quali invece posporre?), delle metodologie da adottare (quali processi di apprendimento e dinamiche relazionali stimolare?) e, soprattutto, mediante la qualità delle interazioni che, con il proprio atteggiamento, si intendono incoraggiare. Detto altrimenti: l’attitudine a ricercare il significato di ciò che si vive, nonché il desiderio di scoprire nuovi orizzonti di senso, non si possono formare in momenti ‘dedicati’ ed estemporanei, connotati dalla straordinarietà. Essi costituiscono piuttosto l’effetto collaterale, nella quotidianità dell’esperienza scolastica, dell’esercizio costante di “uno scambio e una co-costruzione di significati” (Bruzzone, 2007, p. 149, n. 12), proprio a partire dalle provocazioni poste in essere dall’insegnante, le quali fungono così da pre-testi per avvicinare la scuola alla vita dei ragazzi. Se le conoscenze, stando a quanto dicono questi ultimi (Daniele, 2024), assumono un significato nel momento in cui non vengono percepite come una realtà avulsa dalla propria esistenza, allora la scuola può essere risignificata se supera la chiusura su logiche performative volte a risultati immediati, per “formare soggetti desideranti” (Daniele, 2024, p. 151): per consentire ai ragazzi di scoprire la propria soggettività (Biesta, 2022) in relazione al mondo.
Un’attenzione ‘ordinaria’ e continuativa alla questione del senso che tuttavia non va lasciata al caso: essa trova alimento in una precisa intenzionalità educativa dell’insegnante la quale, a sua volta, abbisogna di cura: di percorsi formativi incentrati sull’esplorazione di possibili strategie che possano connotare un insegnamento centrato non tanto sulle conoscenze, quanto sul significato della conoscenza stessa. In questa prospettiva, occorre operare un ripensamento della scuola affinché, da luogo dove è già predisposto un curricolo, divenga “il luogo dove si costruisce un curricolo come percorso di vita” (Guasti, 1999, p. 147): dove si approfondiscono i problemi ritenuti significativi per i soggetti che li affrontano; dove si mettono al centro le principali “operazioni fondative del dinamismo del soggetto” (p. 148): lo sperimentare, il comprendere, il valutare e il decidere. Competenze, queste, eminentemente esistenziali, che costituiscono una sfida per la scuola non più procrastinabile, considerando che non vi sono solo i soggetti che si perdono, ma vi è anche un sistema che “produce dispersione” (Batini, 2002, p. 75). Raramente, infatti, il tema del senso e del non-senso viene messo a fuoco quando si parla dell’esperienza scolastica.
Si tratta, allora, di non accontentarsi di puntare alla riduzione degli indici di dispersione e di disagio, bensì di perseguire il benessere esistenziale dei giovani, incentivando il loro desiderio di vivere attivamente e consapevolmente. Perché la scuola stessa, alfine, non venga passivamente subita, bensì vissuta come un ambiente generativo di senso.
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La quota dei giovani tra i 18 e i 24 anni che possiedono un titolo di scuola secondaria di primo grado o, al massimo, una qualifica di due anni (gli ELET) costituisce “l’indicatore più utilizzato istituzionalmente per rappresentare la dispersione scolastica” (Batini, 2023, p. 22). Tuttavia, come si specificherà anche in seguito, il costrutto della dispersione non è sovrapponibile ai soli abbandoni formalizzati, comprendendo altresì le frequenze irregolari, le non frequenze, l’evasione dell’obbligo e le ripetenze (ibid., p. 21).↩︎
I dati ISTAT del 2022 sulla dispersione esplicita si attestano sull’11,5% %, e quelli INVALSI del 2023 sulla dispersione implicita sull’8,7%.↩︎
“I test INVALSI sono raccordati nell’impianto con il sistema PISA, ma non sono direttamente trasponibili sulla stessa scala che, in generale, in INVALSI risulta più restrittiva nel valutare la sufficienza delle competenze. Ne risulta un’incidenza degli insufficienti più elevata nella valutazione nazionale” (AGIA, 2022, p. 31, nota 20).↩︎
A questo proposito l’istituto INVALSI specifica che i Quadri di Riferimento elaborati “definiscono puntualmente quali competenze, conoscenze e abilità devono essere misurate attraverso le prove standardizzate, e che a loro volta costituiscono il riferimento per gli autori delle prove stesse. I Quadri di Riferimenti si trovano al seguente link: https://invalsi-areaprove.cineca.it/index.php?get=static&pag=qdr.” (INVALSI, 2024, p. 8, nota 5).↩︎
Il rimando va alle non cognitive skills che la Commissione Europea – nel quadro di riferimento LifeComp – suddivide in tre aree: personale, sociale, imparare ad imparare (Sala et al., 2020). Come accennato, vi sono evidenze empiriche circa la correlazione tra queste e i risultati di apprendimento delle prove INVALSI: infatti “la presenza di più robuste competenze non cognitive favorisce la crescita anche delle competenze cognitive (Folloni et al., p. 107). Vale a dire, delle”abilità quali ragionare, ricordare, comunicare, capire un testo scritto, imparare nuove informazioni” (ibid., p. 108).↩︎
Interessante la definizione di ‘drop-out silenziosi’ rilevabile da un’indagine croata che, attraverso un approccio qualitativo, ha sondato il significato attributo dagli adolescenti alla scuola (e all’eventuale decisione di abbandonarla). Tra le varie tipologie messe in luce, questa dei drop-out silenziosi (che contempla i soggetti che vivono la scuola con uno stato ‘depressivo’) è, a detta degli stessi autori, poco indagata: “this type is especially important as the relationship between internalizing problems and high school dropout is mostly unexplored” (Ogresta et al., 2021, p. 15).↩︎
Dalla recente ricerca su Il disagio degli adolescenti. Tornare a educare a scuola per promuovere la salute mentale (Daniele, 2024) emerge un interessante elemento: “gli adolescenti dei focus group sembrano propendere verso”l’essere tranquilli” come uno scopo principale, non necessariamente associato alla progettazione del proprio futuro, ma piuttosto all’individuazione di un equilibrio nel presente, apparentemente statico e privo di preoccupazioni, ma anche, purtroppo, di aspettative e desideri” (p. 141). Un segnale che sembra in linea con l’addormentamento citato sopra e che, concordando con l’autrice della ricerca, potrebbe essere letto come “un appello implicito alla comunità educativa, inclusi i docenti, affinché si impegnino attivamente nella creazione di esperienze educative che stimolino il desiderio dei loro studenti di pensarsi nel futuro” (ibidem).↩︎
Secondo recenti dati Eurostat (2023) nove Stati membri dell’UE hanno registrato nel 2023 tassi di NEET superiori alla media dell’UE dell’11,2 %. Tra questi, i tassi più elevati sono stati registrati in Grecia, Italia e Romania. In particolare, il tasso dei NEET – tra I 15-29enni del nostro Paese – è del 14,9%. La media europea dovrebbe essere inferiore al 9% entro il 2030.↩︎