Ogni contesto socioculturale e ogni epoca generano e utilizzano parole chiave riferite a pensieri e azioni considerati rilevanti. Questi concetti costituiscono al tempo stesso una risorsa e un pericolo. Una risorsa perché indicano, orientano, aggregano, ma anche un pericolo perché, quando si trasformano in slogan, si auto-banalizzano e perdono la problematicità e la capacità di “sospendere il giudizio” che dovrebbero accompagnarli.
Un termine oggi molto diffuso è inclusione. Propongo allora un’indagine sul significato dell’inclusività associandola a quattro concetti analoghi o antinomici: accoglienza, segregazione, esclusione, integrazione.
Questi termini indicano comportamenti differenti e, a due a due, antitetici.
L’accoglienza occupa uno spazio semantico assai ampio. Essere accoglienti o meno è una caratteristica individuale che riguarda gli stili relazionali, e non solo le scelte etico-politiche: può essere o no accogliente chi gestisce lo sportello di un pubblico servizio, negoziante, un vigile urbano, il gestore di un bar, un insegnante…
Le tre parole: esclusione, segregazione e integrazione, alludono a un dentro o un fuori, ma, nel caso della segregazione, gli esclusi sono anche inclusi in un insieme a sé stante. Includere deriva dal latino in, ‘dentro’ e claudēre ‘chiudere’. A ben vedere dunque letteralmente, e paradossalmente, il carcere è un perfetto luogo di inclusione, anche se accoglie soggetti segregati. L’integrazione riguarda soggetti che entrano a far parte di un insieme di cui prima non stavano, ma ne rimangono comunque separati, raggruppati in un sottoinsieme distinto. Antropologicamente si tratta del modello definito multiculturale, il Melting pot in cui culture (o subculture) diverse convivono nello stesso territorio, ma il singolo quartiere (cinese, afro-americano…) rimane separato e distinto. Nell’inclusione invece, almeno in teoria, tutti si trovano liberi, con le stesse opportunità, all’interno dello stesso spazio, senza che le caratteristiche culturali o personali determinino la posizione sociale all’interno del gruppo. È, quest’ultimo, il modello definito interculturale.
Inclusione e integrazione sono parole spesso utilizzate come sinonimi, ma, pur avendo in comune il presupposto dell’accoglienza, l’integrazione mantiene una visione “speciale” del soggetto, e presuppone la necessità di intervenire con strategie particolari (a scuola corrisponde al modello della classe speciale nella comunità scolastica), mentre l’inclusione prevede che le regole e le routines del contesto devano essere riformulate avendo presenti tutti i componenti, ciascuno con la propria specificità. Nel secondo caso si afferma cioè “il valore della differenza” (Callari Galli, 1988). Quest’ultima, peraltro, è la scelta che, almeno nelle intenzioni e nelle formulazioni programmatiche, ha compiuto la scuola italiana, dove qualsiasi persona portatrice di qualsiasi attributo di diversità entra nella comunità alla pari degli altri. E, dalla scuola, questo principio dovrebbe passare a tutto il contesto sociale, dove l’inclusione è dichiarata un diritto fondamentale ed è collegata al concetto di appartenenza, condizione necessaria per “star bene” in un luogo, in una comunità.
Il paese dei ciechi è un racconto di fantascienza, pubblicato nel 1904 da Herbert George Wells, che può aiutarci a riflettere sugli argomenti di cui ci stiamo occupando.
A seguito di una rovinosa caduta lungo una montagna della cordigliera andina, il protagonista, Nuñez, si risveglia in una bella e rigogliosa vallata che ospita il Paese dei Ciechi, isolato dal mondo da trecento anni a seguito di un’eruzione vulcanica e di un terremoto. Nuñez è sorpreso dalla bellezza della natura, dalla perizia regolare delle coltivazioni e delle strade che costeggiano case dotate di porte ma senza finestre. L’incontro con i nativi, dopo un’iniziale e comprensibile diffidenza, ha buon esito. Gli abitanti sono accoglienti e ben disposti nei confronti dello straniero. D’altra parte la loro prudenza è comprensibile: sono tutti ciechi. I bambini nascono senza gli occhi, probabilmente a causa di un’infezione protrattasi nei secoli, ma quello stato non è vissuto da essi come una menomazione e rappresenta, anzi la normalità. Le stesse parole “vista”, “cecità”, “occhi”, sono per loro sconosciute e prive di significato, il mondo è percepito e rappresentato, perfino nel loro mito cosmogonico, attraverso l’olfatto, l’udito e il tatto. Ogni volta che Nuñez prova a spiegare la differenza che distingueva lui da loro, le parole che descrivono la facoltà del vedere vengono vissute dai suoi interlocutori come suoni privi di senso. Per gli autoctoni il mondo (ossia la loro valle) era stato vuoto roccioso e vuoto, poi erano venute cose inanimate, i lama e alcune altre creature di poco senno, e poi gli uomini, e infine gli angeli che si udivano cantare e frullare per l’aria ma non si potevano toccare; e Nuñez capì che quelli, in realtà erano gli uccelli.
Promuovere il benessere di un individuo significa favorire la sua interazione con l’ambiente in modo che esso possa risultare inclusivo. Ma se i detentori della presunta rappresentazione “normale” hanno un’idea dell’ambiente del tutto differente da quella che il soggetto accolto costruisce attraverso requisiti percettivi differenti, che succede? Nuñez vede, ed è convinto che questa facoltà sia un vantaggio, considera “disabili” i suoi ospiti e fantastica di diventare il capo della comunità in nome del principio secondo il quale “in terra di ciechi il monocolo è re”, ma per i nativi il disabile è lui e va incluso e integrato attraverso un processo di rieducazione.
Wells ci mostra con grande sapienza narrativa come le migliori intenzioni e i più apprezzabili sentimenti siano sempre carichi di ambivalenze. L’ambivalenza, d’altra parte, caratterizza l’autenticità, perché un sentimento univoco, senza contraddizioni e oscillazioni, è lo stereotipo di sé stesso. Sentimenti e comportamenti considerati positivi, come l’amore, la cura, portano sempre con sé ombre ambivalenti, come quelle del possesso e del controllo. E l’ambivalenza fra desiderio di integrarsi e pulsione di ribellione occupa la mente di Nuñez, che inscena una fuga, per poi pentirsi e accogliere la convinzione dei suoi ospiti che la vista sia una dannosa fantasticheria. Poi si innamora di una ragazza della vallata, Medina-Saroté, che ricambia il suo sentimento. Il processo di inclusione sta per concludersi, già si parla di matrimonio, anche se non mancano, nella comunità, dubbi e diffidenze. Finché il medico-stregone, diagnostica che la follia di Nuñez dipende dalla presenza, sul suo volto, di quelle strane protuberanze munite di ciglia che si muovono e provocano nel cervello uno stato di irritazione e logoramento. E sentenzia:
E io penso di potere dire con ragionevole certezza che per guarirlo completamente altro non occorre se non una semplice e facile operazione chirurgica: asportare cioè questi corpi irritanti (Wells, 2008, p. 43).
E Nuñez, dopo essere stato tentato dall’idea di sacrificare la sua vista per amore e per desiderio di inclusione, pur pieno di dubbi e di dolore, scappa, scala la parete lungo la quale era caduto. Lacero, ferito e sfinito, si avvicina al picco che ancora lo separa dal mondo, pur allontanandolo definitivamente dal paese dei ciechi, e si ferma per riposarsi:
[…] giaceva immobile, sorridendo come fosse semplicemente soddisfatto di essere scampato dalla valle dei ciechi, dove aveva creduto di essere re. Il bagliore del tramonto si spense, e scese la notte, ed egli giacque contento, pacificato, sotto le fredde stelle (Wells, 2008, pp. 48-49).
La letteratura costituisce un’occasione insuperabile per esercitare il pensiero critico e l’incontro con la complessità. Per questo sono importanti i racconti, le narrazioni e il dialogo e il commento che portano con sé. Leggere, discutere, commentare, a scuola, il racconto di Wells, consente di affrontare un tema delicato e complicato come l’inclusione senza formulare giudizi e prescrivere schieramenti. Non è in discussione il valore etico e politico dell’accoglienza, ma è giusto chiarire che la pratica dell’accoglienza comporta curiosità, prudenza e capacità di decentrarsi, perché l’inclusione è una questione di reciprocità, e chi siano gli accoglienti e chi gli accolti, come ci mostra Wells, non è sempre chiaro.
Jonathan Bazzi, giovane romanziere dalla solida formazione filosofica, in un bell’articolo sul periodico Finzioni, sostiene che frequentare la letteratura significa
tornare al sentimento dell’ampiezza della nostra esperienza e del nostro desiderio, desiderio che spesso è cangiante, opaco. […] Tornare alla letteratura significa non lasciarsi ridurre a corpi che in eterno urlano solo il loro rancore, i loro bisogni primari, le loro ferite: riprenderci il privilegio di quel libero gioco tra le facoltà, liberatorio, ri-creativo, che per Kant costituiva l’esperienza estetica, quella legata all’arte grazie alla quale riconoscere che in noi, anche in noi, come diceva Jung, convivono il ladro, la prostituta, il folle, l’omicida (Bazzi, 2024, p. 7).
Di questo abbiamo, oggi, una profonda ed urgente necessità.
Riferimenti bibliografici
Bazzi, J. (2024, 12 dicembre). L’intelligenza della letteratura può salvarci dal brutalismo degli algoritmi. Finzioni, supplemento del quotidiano Domani.
Callari Galli, M. (1988). Il valore della differenza. In P. Bertolini, M. Dallari (a cura di), Pedagogia al limite. Firenze: La Nuova Italia.
Wells, H. G. (1904). Nel paese dei ciechi (F. Salvatorelli, trad., con una nota di S. Modeo). Milano: Adelphi.