1 La prospettiva ecocritica, ecomaterialista, neomaterialista
Da quando esistono, i libri per bambini – quelli pensati espressamente per loro e quelli ritenuti adatti a loro – riservano spesso al non-umano (animali, giocattoli, luoghi, oggetti) un ruolo centrale. La letteratura per l’infanzia, nel tempo, è diventata per eccellenza lo spazio in cui un lupo, un burattino, un capriolo, un giardino, un fiume, un insetto, una montagna, un peluche, un artefatto di qualsiasi tipo può venire rappresentato come il protagonista assoluto del racconto.
Accade anche nei libri per l’infanzia realizzati, dagli anni Ottanta ad oggi, dall’autore e illustratore Roberto Innocenti,1 qui analizzati collocando la sua opera nell’alveo di quella letteratura che meglio si presta a sviluppare riflessioni ecocritiche ed ecopedagogiche.
La cornice teorica di riferimento di questa indagine è riconducibile agli studi sul Post-umano (Braidotti & Hlavajova, 2018) e in particolare a quelli che prendono il nome di Ecocriticism (Garrard, 2004), Ecomaterialism (Iovino & Oppermann, 2014; Cohen & Duckert, 2013) o New Materialism (Barad, 2007; Coole & Frost, 2010; D’Angelo, Pozzolo & Pinzoni, 2021). Questi ultimi rappresentano una delle tante declinazioni del più ampio ‘material turn’ che ha investito gli studi culturali nonché la critica letteraria a partire dagli anni Novanta del Novecento e che ha come scopo la costruzione di un pensiero/sguardo capace di cogliere come ‘semiotico’ tutto il mondo fisico e di vedere perfino la materia inorganica come un campo di azione portatore di significato (Iovino & Oppermann, 2014). Il narrare, in quest’ottica, non è qualcosa che appartiene o pertiene solo ad una particolare specie di viventi, quella umana. Ogni cosa racconta, ossia contiene, esprime, comunica una qualche storia. Ogni cosa è ‘significativa’, in un’accezione che non è solo semantica, ma anche, evidentemente, valoriale.
Il nuovo paradigma rappresentato dall’Ecomaterialism (un approccio teorico che coniuga i saperi delle scienze umane e quelli delle scienze naturali) mette in discussione le narrazioni dominanti della cultura umanista (dicotomica in tutto, a partire dalla distinzione tra soggetto e oggetto) e promuove invece un modello rivoluzionario di relazioni – anche di potere – basato sull’idea che la materia di cui è fatto il mondo (si pensi ai virus, alle forze telluriche, agli eventi atmosferici) abbia una propria, autonoma, capacità di azione, che si intreccia con quella umana anziché subirla, e che solo tenendone conto si potranno comprendere e affrontare le presenti e future complessità ecologiche (Braidotti & Hlavajova, 2018).
Intenzionati, come tutti gli studiosi del Post-umano, a superare la prospettiva antropocentrica che ha portato ad irreparabili disequilibri negli ecosistemi del pianeta, i teorici dell’Ecomaterialism, o Material Ecocriticism, considerano i paesaggi, i minerali, gli animali, le piante, i microbi, i metalli, come parte dell’elementale impulso cosmico a produrre significato, un impulso che si incarna anche, ma non solo, negli umani. Nel sostenere questo, sfidano l’idea convenzionale che attribuire una capacità narrativa a ciò che non è umano antropomorfizzi il mondo fisico e quindi falsifichi la vera natura della materia.2 Al contrario, i teorici dell’Ecomaterialism ritengono che riconoscere un impulso narrativizzante condiviso e in comune tra l’umano e la materia non-umana possa aiutarci a percepire la nostra radicale parentela con il mondo fisico e possa favorire una visione antropo-decentrata (Iovino & Oppermann, 2014).
Il non-umano ha una voce che sarebbe importante sentire e ascoltare, come spiegano Cohen e Duckert nel loro saggio intitolato Howls, parola traducibile con ‘ululati’, ‘ruggiti’, ‘latrati’, ‘gemiti’, ‘grida’… ovvero con tutto ciò che, come suono, viene emesso da quel che consideriamo pre-umano, animale, incapace di esprimersi a parole: “Ecomaterialism asks us to hear the howls of heterogeneous life forms – everywhere and from every thing” (Cohen & Duckert, 2013, p. 5). In tutte le forme in cui si presenta, ciò che è altro-da-noi ‘parla’, si esprime, vive, diviene, incarna un significato, proprio come noi. Ma niente, nella cultura occidentale, o nella sua versione dominante, ci educa a coglierne la presenza, la capacità di azione, la funzione di ineliminabile controparte in una interlocuzione con l’umano.
L’idea di una ‘agency’ distribuita orizzontalmente tra le cose del mondo umane e non-umane, naturali e artificiali, e prima ancora di una ‘vitalità’ della materia, in tutte le sue forme, teorizzata al meglio da Jane Bennett nel suo seminale volume Vibrant Matter. A Political Ecology of Things (Bennett, 2010), porta a un ripensamento di tipo ontologico – prima ancora che ecologico, politico ed etico – del posto e del ruolo dell’uomo nell’universo. Un posto che, in questa prospettiva ecocritica, e in particolare in quella ecomaterialista, non è più centrale, separato e diverso da quello occupato dalle ‘cose’ del mondo, ma immerso in esse e ad esse intrecciato: “[Ecomaterialism] is an attempt to re-describe human experience so as to uncover more of the activity and power of a variety of nonhuman players amidst and within us” (Cohen & Duckert, 2013, p. 109).
La prospettiva ecomaterialista ha come funzione quella di potenziare la nostra percezione di ciò che è altro-da-noi, e di affinare la nostra comprensione della densa rete di relazioni in cui la materialità della nostra vita e della vita dell’ambiente sono inestricabilmente mescolate (Bennett, 2010).
La letteratura per l’infanzia, come si diceva, e come dimostrato tra gli altri da Jacques nel suo Children’s Literature and the Post-human (2015), offre un contributo prezioso agli studi multi- e interdisciplinari che hanno come obiettivo quello di smantellare l’idea fortemente radicata di un uomo ‘misura di tutte le cose’, disposta come è, da sempre, a rendere protagonista attivo delle proprie storie anche qualcosa che umano non è.3
2 Protagoniste: le cose
È ciò che fa anche l’opera di Roberto Innocenti, con la particolarità che, in essa, è sorprendentemente sistematico, potremmo dire totalizzante, lo sforzo di togliere centralità all’umano per restituire importanza, significato, valore, rilevanza al mondo delle cose, per riportare quelle, anziché noi, semanticamente e visivamente in primo piano. Così in primo piano che, ancor più delle cose, nelle pagine di Innocenti vediamo i componenti essenziali da cui le cose sono costituite: il legno, il ferro, il fango, la sabbia, l’erba, i mattoni, l’asfalto, le lamiere, i ciottoli del selciato, le tegole di un tetto…
L’approccio ecomaterialista si rivela più che mai adeguato ad analizzare libri come quelli di Innocenti perché si tratta di opere dalle quali trapela una passione insolita per la materia di cui è fatto il mondo, passione che si traduce in una capacità eccezionale di renderla visivamente presente, viva, ‘vibrante’ (Bennett, 2010) sulla pagina.
Indipendentemente dalla storia che sta raccontando/illustrando, nella scelta delle inquadrature, o degli elementi da rappresentare con dovizia di dettagli, troviamo, nelle tavole di Innocenti, più attenzione alle venature di un’asse del pavimento, alle crepe di un infisso, alle scrostature dell’intonaco, a un muro rotto, alle pozzanghere di un viottolo, alla neve che si sta sciogliendo, al gioco optical di coppi visti dall’alto o delle lamelle dello stomaco di un pesce mostrato dall’interno, che non ai personaggi umani, tenuti se mai a distanza, resi parte dell’ambiente, mai presentati – quantomeno visivamente – come i protagonisti veri della narrazione.
Nel visivo di Innocenti4 l’ottica dominante in Occidente viene rovesciata e il mondo della res extensa, degli oggetti, degli elementi del paesaggio – ovvero la dimensione solitamente ritenuta di contorno e di sfondo rispetto all’azione degli umani intesi come unici soggetti degni di racconto – prende il sopravvento, si impone come la dimensione più interessante, particolareggiata, investita di pathos, capace di assurgere al ruolo di ‘personaggio’. Fino a diventarlo pienamente, nei suoi due libri più recenti dedicati uno a una casa e alle sue trasformazioni nel corso di un secolo (Casa del tempo, Innocenti & Piumini, 2009) e l’altro a una nave da quando viene costruita a quando affonda, dopo varie peripezie, negli abissi dell’oceano (La mia nave, Innocenti, 2018). Protagonisti totali di questi libri sono appunto due ‘cose’, raccontate come fossero persone di cui è opportuno scrivere la storia, il romanzo della vita, a tutti gli effetti la ‘biografia’. Ci sono umani che abitano la casa, e umani che viaggiano con la nave, ma sono presenze minuscole e mutevoli, viste sempre da lontano e delle quali non importa al narratore e all’illustratore raccontare molto, perché la trama del libro riguarda non loro, bensì quell’imponente oggetto guardato, descritto, raffigurato con grande partecipazione emotiva. Partecipazione per quella che è la sua storia e il suo destino: è dalla casa sull’Appennino e dalle sue molteplici metamorfosi negli anni, nonché durante le diverse stagioni, che il lettore è catturato sfogliando il libro; è della nave che salpa e attraversa molti momenti storici e paesaggi geografici che si vogliono conoscere le avventure e si brama di sapere come e dove andrà a finire.
In questi libri, Innocenti racconta anche indirettamente episodi della Storia del Novecento, comunque sempre vista attraverso gli effetti che gli eventi politici, bellici, sociali, hanno sulle due ‘cose’ che ha scelto di rendere protagoniste.
Nella sua opera, proprio come sostengono i teorici dell’Ecomaterialism, gli oggetti hanno vite, divengono, si trasformano, sono esseri di questo mondo con storie da raccontare, a saperle ascoltare, riconoscere, vedere, come sa fare solo chi non soffre di un ottundimento della percezione causato dalla convinzione che solo ciò che è umano conti, racconti, abbia qualcosa da dire, dei significati da comunicare (Cohen & Duckert, 2013; Gosh, 2017).
In questo senso, Innocenti ricorda un altro autore che, nella storia della letteratura per l’infanzia, si era distinto per una simile visione, cioè per un’attenzione tutta rivolta agli oggetti, capace di ‘animarli’, di renderli interessanti, attivi, frementi, anziché banali, passivi, inerti: Hans Christian Andersen, che nell’Ottocento popolò le sue fiabe di ogni tipo di ‘cose’ e delle loro specifiche storie, esistenze e passioni. Non a caso, il premio internazionale che prende il nome dal grande scrittore danese e che viene assegnato ogni due anni ai migliori autori e illustratori per l’infanzia di tutto il mondo – l’Hans Christian Andersen Award – è arrivato puntualmente, nel 2008, a Roberto Innocenti (unico illustratore italiano ad averlo vinto), sancendo anche ufficialmente questa eredità prospettica, percettiva, epistemologica che del resto assomiglia al modo di vedere il mondo, di conoscerlo e di rapportarsi ad esso proprio dell’infanzia. Per i bambini il mondo intorno – soprattutto quello non-umano (gli animali, i giocattoli, le conchiglie, i sassi o gli altri oggetti raccolti da terra e tenuti in tasca come amuleti) – è ancora incredibilmente interessante, affascinante, ‘parlante’, pieno di un misterioso palpito (Cobb, 1977). Poi, crescendo, si può finire col non notarlo/sentirlo/ascoltarlo più. Fanno eccezione gli adulti che mantengono uno sguardo meravigliato, straniato, poetico (Pascoli, 1903; lo stesso Andersen, 1871), uno sguardo che risulta fondamentale anche per creare capolavori – narrativi e visuali – per l’infanzia (Lurie, 2002).5
Nel caso di Innocenti, questo sguardo rivolto con ostinata attenzione a tutto ciò che c’è oltre ed intorno all’umano, fa sì che, anche quando non dedica un intero libro alla vita di uno specifico oggetto tradizionalmente considerato inanimato (rendendolo protagonista di appassionanti avventure), il mondo nella sua matericità, o anche solo squarci di esso portati in primo piano, riempiano comunque le pagine dei libri da lui illustrati, anche di quelli ufficialmente dedicati a vicende che hanno al centro gli umani.
3 Metalli, rotaie, mimetiche, mattoni: la storia del Novecento narrata diversamente
Che si dedichi ad illustrare fiabe, romanzi, o racconti (classici e contemporanei), l’occhio di Innocenti si sofferma, al di là della trama, più che altro sugli ambienti, sugli spazi esterni o interni in cui – insieme a tantissime ‘cose’ – sono collocati gli uomini, le donne e i bambini di cui si narra nel testo. Perché il contesto a lui interessa evidentemente più del testo, al punto che molti libri da lui illustrati – si pensi soprattutto a La storia di Erika (Van der Zee & Innocenti, 2003), a Cappuccetto Rosso. Una fiaba moderna (Frisch & Innocenti, 2013) e allo stesso Casa del Tempo (Innocenti & Piumini, 2009) – potrebbero benissimo esistere come wordless books, anzi, forse sarebbero addirittura intensificati nel loro significato potenziale dall’assenza di parole. C’è una eloquenza, nelle immagini create da Innocenti e nella ricchezza di dettagli di cui riempie le sue tavole, che le rende sempre tavole ‘parlanti’, anche al di là del testo a cui sono riferite. E nel racconto ulteriore, solo visivo, offerto dalle illustrazioni, gli umani, con le loro vicende, non sono che una parte infinitesimale di un ‘tutto’ costituito da mille altre forme, essenze, presenze non-umane che diventano parte fondamentale di ciò che Innocenti sembra sempre voler narrare: l’intreccio irriducibile – ecologico e ontologico – tra noi e le cose, la distribuzione orizzontale e multiforme di significato, di significati, di storie che si possono rinvenire, intravedere, prendere in considerazione. Che è esattamente quanto i teorici dell’Ecomaterialism invitano a fare.
Fin dall’inizio del suo operare come autore e illustratore, con il libro intitolato 1905. Bagliori a Oriente (Bin & Innocenti, 1979) incentrato sul conflitto bellico russo-giapponese, si può notare in che proporzione (o, meglio, sproporzione) stanno, nelle tavole, gli spazi riempiti dal metallo della grande corazzata Potëmkin, dalle sue fiancate, dai suoi cannoni, e quelli in cui si intravedono al suo interno i marinai e i soldati, pedine di una guerra più grande di loro, palesemente soverchiati dalle macchine, dai macchinari, così come dal destino che su loro incombe.
A un altro evento tragico del Novecento, l’Olocausto, sono dedicati anche i libri Rosa Bianca (Gallaz & Innocenti, 1990) e La storia di Erika (Van der Zee & Innocenti, 2003), illustrati a distanza di quasi quindici anni l’uno dall’altro. Nel primo, è minuziosa la ricostruzione dell’ambiente – un villaggio tedesco negli anni Trenta – in cui si svolge la vicenda raccontata da una bambina che è l’unica a vedere – perché è l’unica a guardare – cosa stia davvero accadendo nella realtà. C’è un esercito e un popolo che si prepara alla guerra, si esalta per essa e inizia a deportare persone caricandole su camion militari e facendole misteriosamente sparire. Ma tutto questo evidentemente non viene visto, o non viene visto come grave, dalle persone del paese, che continuano a vivere la loro vita come se tutto fosse normale. Per dare forma a questa collettiva ‘distrazione’, per riprodurre sulla pagina, con gli strumenti tecnico-stilistici consentiti all’illustrazione, quello che deve essere stato, per molti, un difetto di visione, Innocenti dedica nelle sue tavole più spazio ai mattoni disegnati uno per uno delle case, alle tegole dei tetti singolarmente insistite, alle finestre, alla pavimentazione urbana, ai ciottoli delle strade, alle assi delle staccionate, che si impongono quasi come pattern modulari a effetto optical agli occhi del lettore. Ricostruisce minuziosamente certi angoli urbani in cui la bambina – e solo lei – vede con stupore svolgersi eventi insoliti, come il passaggio di mezzi cingolati, il caricamento di certe persone, la fuga di un bambino che viene riacciuffato e portato chissà dove. Queste scene ci sono, ma risultano quasi invisibili, trasparenti rispetto a un paesaggio dettagliatissimo – fatto di case, abbaini, cortili, capanni, muretti divisori, ponti, sottopassi, grondaie, pali, fili elettrici, vetri rotti – a cui come illustratore Innocenti dedica maniacale e iperrealistica attenzione.
Rosa Bianca decide di seguire il camion che si è portato via il bambino che tentava di fuggire, e il lettore esce con lei dal contesto urbano per inoltrarsi in un paesaggio campestre. Lo sfondo cambia, ma non cambia la sproporzione tra gli umani e la materia non-umana di cui è fatto il mondo, perché a quel punto a prendere il sopravvento, visivamente parlando, sono i solchi delle ruote dei camion nel terreno fangoso, le pozzanghere, le brume, il metallo dei cavalli di Frisia, i fili spinati, fino a quando la bambina giunge al campo di concentramento, anch’esso rappresentato, in una doppia pagina inquietante, secondo un pattern modulare, con le sue baracche disegnate asse per asse, lamiera per lamiera, e una serie di persone vestite con camicioni a righe verticali, in contrapposizione geometrica con quelle orizzontali del filo spinato che le tiene prigioniere.
Tutto il libro risulta quasi monocolore, il colore della terra, del mattone, del fango, del ferro, del verde-arancio di un paesaggio con cui l’abbigliamento e la dotazione militare si vogliono propriamente confondere, mimetizzare. È una storia di umani, quella vista e narrata in Rosa Bianca, che molti nella realtà hanno finto di non vedere e che forse per questo viene rappresentata da Innocenti sì in tutto il suo orrore, ma come fosse nascosta e offuscata dalla matericità dello sfondo, del paesaggio, delle cose. Per restituire ai lettori del libro insieme la verità della Storia e il disturbo percettivo (la comoda miopia) che in un dato periodo e contesto a qualcuno è capitato di esperire.
Il secondo libro sull’Olocausto illustrato da Innocenti, La storia di Erika, è ancora più estremo in questo senso. La vicenda che racconta è quella dell’incredibile sopravvivenza di una neonata al viaggio verso i campi di concentramento a cui era destinata insieme ai genitori, i quali però, con un gesto sorprendente, lanciano il suo corpicino fuori dal finestrino del treno nella speranza che si salvi in qualche modo. Se la storia, come recita il titolo, è quella di Erika, il libro però si presenta quasi totalmente come un libro senza umani. Nelle sue pagine, in primo piano, abbiamo angoli di stazioni, rotaie, locomotive, neve, ferro, legno, reti, fili spinati. Una carrozzina abbandonata sui binari mentre il treno si allontana all’orizzonte. E un fagottino rosa in volo, che planerà sull’erba di un prato. È una storia umana ai limiti dell’indicibile, quella delle deportazioni. Che Innocenti sceglie di raccontare con immagini di oggetti capaci di ‘parlare’, di dire, di evocare, di far capire. In momenti storici densi di tanto orrore, l’umanità viene messa come tra parentesi, viene fatta uscire di scena, perché il dramma che ha provocato o vissuto possa essere conosciuto, ma in modo indiretto, per poterlo sopportare.
In questi racconti su eventi storici traumatici può essere dunque etica, allegorica o comunque deliberata6 e molto specifica la scelta di eliminare dalla scena o dalla vista le persone umane.
4 Pinocchio e Schiaccianoci: la vibrante vita propria di ambienti e oggetti
Innocenti adotta però la stessa prospettiva anche in altre situazioni, per esempio quando illustra classici capolavori letterari, per i quali la sua concentrazione va comunque principalmente allo studio e alla rappresentazione degli ambienti, elaborati con una cura e dedizione maggiori di quella riservata ai personaggi. Il suo Pinocchio (Collodi & Innocenti, 1991) è un omaggio prima di tutto al paesaggio rurale e popolare italiano e in particolare toscano, il luogo da cui proviene Collodi e in cui lo stesso Innocenti è nato e vissuto. Le tavole con le colline di vitigni immerse nella neve, le case da contadino minuziosamente raffigurate, i fienili, i cortili, gli orti, le botteghe artigiane, le piazze e le strade di paese, i porticcioli affacciati sul mare, sono riconoscibilmente quelli che furono tipici della Toscana dell’Ottocento e che ancora oggi in certi angoli si possono ritrovare. La dovizia di dettagli con cui ogni casa, ogni strada, ogni angolo della campagna menzionato nella storia viene rappresentato è impressionante, soprattutto nelle tavole in cui Innocenti sceglie una prospettiva non classica, bensì una visione dall’alto, oppure dal basso, che gli consente di insistere con zelo nella raffigurazione di ogni tegola dei tetti, o di ogni singolo sanpietrino del selciato, o dei fiori di crocus che spuntano tra le foglie cadute dalle querce, nel sottobosco dell’Appennino.
Si veda anche la sua versione dell’Osteria del Gambero Rosso, sbirciata da un angolo in alto. I protagonisti del racconto, Pinocchio, il Gatto e la Volpe, di cui si racconta nel testo, si intravedono appena – stanno entrando da una porta collocata lontana dal nostro sguardo – mentre tutta l’attenzione dell’illustratore e quindi del lettore/osservatore va a un’immagine che ha qualcosa della dimensione nonfiction, come si trattasse di un libro di divulgazione anziché narrativo. Innocenti è evidentemente più interessato a mostrare come era fatta un’osteria toscana ai tempi di Pinocchio, col suo pavimento di cotto rotto, i tavolacci, i contadini poveri, a volte invalidi, con le toppe nei vestiti, il cibo tipico – pane, salumi, formaggio, fiaschi di vino – le carte da gioco, le madie e le mensole con i piatti, gli animali domestici che gironzolano in cerca di avanzi, le scorte di patate dentro ceste e cassette, qualche topo, e su tutto, più forte di tutto, la resa perfetta della materia di cui è fatta ogni cosa: il legno, la terracotta, l’intonaco, la stoffa degli abiti, la vernice scrostata…
Forse non è un caso che, tra tutti i romanzi classici per l’infanzia possibili, Innocenti abbia scelto di partire dall’illustrare proprio Pinocchio: un libro il cui protagonista si muove come un essere umano, ma è un burattino, è un oggetto, è un pezzo di legno. La poetica più profonda del mondo illustrativo di Innocenti è racchiusa qui: il non-umano è per lui più affascinante dell’umano, ma soprattutto il non-umano, come dimostra Pinocchio, non è qualcosa di inanimato, di inerte, di passivo. A ben guardarlo, vibra, palpita, vive di una vita propria, imprevedibile, indipendente da noi e non meno degna di attenzione della nostra.7 Anzi. È l’umano ad essere sopravvalutato, e l’opera di Innocenti non fa che tentare di ripristinare un equilibrio che la cultura occidentale ha alterato, dal punto di vista sia psicologico che ecologico. Ciò che è ‘altro’, noi fatichiamo a percepirlo come dotato di significato e di valore, e questo ci ha lentamente portati, come umani, a calpestarlo, a sfruttarlo, a devastarlo. Senza tenere conto del fatto che questo ‘altro’ (gli animali, gli alberi, il paesaggio, gli oggetti da noi stessi prodotti) è il mondo di cui facciamo parte, con il quale viviamo inesorabilmente intrecciati. In questo senso, quello che può sembrare un ‘tic’ autoriale di Innocenti, una sua personale mania – riportare in primo piano la materia non umana che abbiamo intorno – si rivela come un atteggiamento in realtà altamente etico e fortemente eco-pedagogico. È un invito a guardare fuori da noi, a de-centrarci, a trovare forme di relazione più armoniose con il resto, un resto che, nei suoi libri, prende il sopravvento, così che – quale che sia la nostra miopia o addirittura cecità (Gosh, 2017) – non possiamo evitare di notarlo.
Era quasi inevitabile, in quest’ottica, che un altro capolavoro letterario destinato ad attrarre Innocenti fosse Lo schiaccianoci di E.T.A. Hoffmann (Hoffmann & Innocenti, 1997). L’autore tedesco è stato infatti tra i primi a mettere a punto una letteratura che verrà definita ‘fantastica’ fondamentalmente perché dà vita a cose che, basandosi sulla razionalità, non dovrebbero averla. Oggetti, animali, fantasmi, doppi: il non-umano, nei racconti di Hoffmann, sfugge al controllo e si presenta in modo perturbante come ‘soggetto’ dotato di agency davanti ad umani sconvolti perché si credevano gli unici esseri volitivi e animati, nonché dominanti e capaci di tenere ‘le cose’ sotto controllo. Accade anche in questo libro diventato un classico per l’infanzia, nel quale quello che per tutti è solo uno schiaccianoci con una forma buffamente antropomorfa, si rivela una creatura animata che lotterà strenuamente per difendere, insieme a un esercito di giocattoli, la casa della bambina protagonista dall’attacco del re dei topi con il suo seguito di roditori. Al di là della nostra ridotta capacità di vedere chi non è come noi, c’è un intero mondo di esseri che vivono, lottano, sono protagonisti di storie avvincenti da raccontare. Anche in questo libro le tavole di Innocenti sono straordinariamente dettagliate soprattutto quando devono raffigurare ciò che avviene oltre l’esistenza e la coscienza degli umani, o mentre quelli dormono. E quello che avviene al di là di noi è immenso: una battaglia drammatica, devastante, all’ultimo sangue tra animali e oggetti. Solo l’infanzia, come già in Rosa Bianca, è dotata di uno sguardo non ancora assuefatto a quel senso di superiorità che impedisce agli uomini di percepire, riconoscere e ammettere la vita di chi è da loro diverso. Ma la bambina che assiste alla battaglia viene comunque rappresentata, in mezzo alla baraonda, come improvvisamente piccolissima. I protagonisti di quella scena non siamo noi, non è lei, che viene per questo ridotta ai minimi termini. In primo piano, e ingigantite, stanno le ‘cose’, i topi, i soldatini, le bambole, e tutto ciò che nel combattimento si è rovesciato, spostato o distrutto: le sedie, i mobili, le vetrinette, le gambe del tavolo, i bordi della tovaglia, i dolci natalizi caduti al suolo… L’avventura è la loro, non la nostra, ed è loro il proscenio, più ancora che la scena, dato che nell’immagine che raffigura l’apice dell’azione la prospettiva adottata da Innocenti è distorta, quasi grandangolare, tale da far sembrare che le cose fuoriescano dalla pagina venendoci incontro, perché possiamo finalmente accorgerci che esistono. In una fedeltà assoluta a quella che era l’intenzione anche di Hoffmann, che su questo soprassalto percettivo e cognitivo (provocato dalla scoperta che, oltre noi, gli oggetti vivono in modo attivo ed autonomo) fonda tutta la sua poetica.8
5 Canto di Natale e presepi napoletani
Un altro racconto classico illustrato da Innocenti è Canto di Natale di Charles Dickens (Dickens & Innocenti, 1990). Quello che fa in questo caso Innocenti è ricostruire credibilmente vicoli, strade e case di una Londra dell’Ottocento, così come aveva ricreato la Toscana rurale in Pinocchio. La sensazione, per l’osservatore, è sempre quella di essere trasportato direttamente dentro un mondo, un mondo ‘reale’ anche se letterario, tanto è stato dettagliatamente pensato, edificato, messo insieme dal punto di vista urbanistico, architettonico e di design d’interno. Se guardiamo in particolare le tavole di Canto di Natale in cui Innocenti rappresenta i vicoli di una Londra invernale brulicante di gente, notiamo che quello che davvero interessa all’illustratore è mettere in scena, ben più che una semplice ambientazione di fondo per la storia di Scrooge, un minuzioso e autonomo microcosmo. In particolare, in una doppia pagina al centro, un catalogo di antichi mestieri, oggetti, gesti che erano propri di una certa realtà ormai scomparsa (la realtà prima che diventasse contemporanea e con ciò, in Occidente, sempre più ‘dematerializzata’, virtuale, staccata dal contatto quotidiano e diretto con la natura fisica delle cose).
In questa precisa doppia pagina (78-79, nell’edizione italiana) ci sono i banchi delle botteghe con ceste di frutta, un venditore di polli e di uova, l’uomo che trasporta ortaggi su una carriola di legno, la vecchina che vende mele, quella che offre scarpe vecchie, il signore delle caldarroste, un padre che trascina sedie e due bambine su una slitta, un oste che apparecchia la tavola, uomini che spalano la neve da sopra un tetto, il suonatore di violino a un angolo, un pescatore coi suoi pesci, mamme con bambini in braccio, ragazzini infreddoliti e tante altre figure che si possono paragonare a quelle ricorrenti e tipiche dei presepi napoletani. Non a caso, dato che il presepe napoletano è una forma di artigianato altissimo, a volte propriamente un’arte, che si dedica a ricreare, come Innocenti ma a livello tridimensionale, piccoli universi brulicanti, energici, dotati di una propria vita, a tutti gli effetti ‘viventi’ (spesso, con congegni meccanici, le sue figure umane e le sue cose vengono dotate di movimento). Anche nei presepi napoletani, come nelle tavole di Innocenti, ci sono tanti umani ma lontani, piccoli rispetto all’imponenza con cui si presenta la ricostruzione degli ambienti: stradine, piazze, pozzi, fontane, case, spesso a più piani, viste da fuori ma anche squarciate perché se ne possano apprezzare gli interni, con le loro scale, i disimpegni, le stanze, il legno, gli arredi, gli oggetti, che sono quelli che ritroviamo in tutti i libri di cui stiamo qui trattando e nei quali molte illustrazioni sono dedicate a mostrare, con grande virtuosismo, in un solo squarcio, almeno tre o quattro vani di una casa, molteplici piani di profondità, e spesso gli interni con tutti i loro dettagli (carta da parati, divani imbottiti, tappeti persiani) anche visti da fuori, come se si spiasse da una finestra.
Al pari degli altri libri illustrati da Innocenti, qualunque cosa stia accadendo nel testo, troviamo preferibilmente raffigurati in primo piano bucce di mandarini, un ramo di pungitopo, una cesta di patate, un mucchio di ossa, assi del pavimento. In fondo è la sensazione che si ricava anche davanti ai presepi napoletani: c’è una storia, molto importante, che in teoria si sta raccontando, quella di un Dio che si è fatto uomo, che è appena nato come bambino, ma la dedizione, la passione, lo zelo di chi li crea va palesemente alla veridicità che si riesce a dare alle cose, alle case, alle strade, ai vestiti d’epoca, agli arnesi degli antichi mestieri, agli animali, ai fiumiciattoli, ai monti, ai cieli stellati.
Un altro aspetto accomuna i presepi napoletani ai libri illustrati da Innocenti: la ri-ambientazione.
La Natività, per narrare la quale i presepi napoletani nascono, ebbe luogo, secondo i Vangeli, nell’anno zero in Medio Oriente, ma in questi tridimensionali retold dell’evento, tutto viene spostato a un’altra epoca, a un’altra area geografica, a un’altra cultura – quella dell’Italia del Settecento, in particolare – che, nella rappresentazione viene come tale dettagliatamente resa. Opera allo stesso modo Roberto Innocenti, soprattutto quando sceglie di ri-narrare delle fiabe.
6 La fiaba riambientata
La Cenerentola di Innocenti (Perrault & Innocenti, 1985) è un libro che contiene, come testo, l’omonima fiaba nella versione scritta da Charles Perrault (ne I racconti di Mamma Oca, 1697), la più nota e diffusa. Mentre convenzionalmente, nelle infinite edizioni illustrate che ne esistono, la vicenda viene ambientata nella Francia del Seicento, cioè nella patria e all’epoca del suo autore, Innocenti decide di ri-ambientare il tutto nella Londra degli Anni Venti del Novecento. E anche in questo caso, prima e più che la trama della fiaba, è appunto la Londra di quegli anni – con le sue architetture, il suo mobilio, le sue automobili, i suoi vestiti, le sue pettinature – ciò che evidentemente più coinvolge e appassiona l’illustratore. La fiaba è quella nota, ma la sua dislocazione insieme così precisa e così straniante finisce col regalarci anche un’altra storia, fatta di strade con case di mattoncini tutte uguali come quelle di certe stradine inglesi, di un palazzo reale che rimanda a Buckingham Palace, di un Big Ben intravisto sullo sfondo, di piccoli backyard dove stendere i panni e riposare. Insomma, ancora una volta, la storia di un mondo esistente in sé stesso e con un proprio equilibrio interno in cui ‘entrare’ mentre si compie l’atto di guardare (e mentre si legge, nel frattempo, il racconto di una fanciulla perseguitata da una matrigna e dalle sorellastre, che vorrebbe ma non può recarsi al Gran Ballo del Principe, salvo riuscirci grazie a un incantesimo che si infrangerà a mezzanotte lasciandola in stracci e facendole perdere la scarpina preziosa che porterà poi a identificarla come la ragazza che il Principe vuole in sposa). Tutti i momenti topici della trama ci sono, nelle immagini, ma sono tenuti a distanza, soverchiati visivamente da altri elementi apparentemente più ‘banali’, o narrativamente poco incisivi, ma per Innocenti più sfidanti: il vetro rotto di una finestra con un corvo in primo piano, a fare da schermo alla partenza delle ragazze per il ballo; le mattonelle di un pavimento con ceste, panni, un tavolo, un ferro da stiro, e in generale l’interno ben progettato di una casa di cui si vedono, in un solo disegno, l’ingresso dal giardino, una sala, un disimpegno, un bagno, nella scena in cui Cenerentola è costretta a pulire mentre le sorelle si divertono; le assi tarlate del pavimento, una poltrona con un gatto acciambellato, un mortaio e altri strumenti riferibili alla magia, nella scena in cui la fata progetta la carrozza a partire dalla zucca; un immenso e tortuoso scalone, dietro il quale sono parcheggiate tante automobili, con un angolo di palazzo, un sottopasso, una guardia, il campanile dell’orologio sullo sfondo, come immagine che dovrebbe raccontare della perdita della scarpina da parte di Cenerentola; un ponte su un fiumiciattolo, un ragazzino che pesca, due oche, muretti, case, una piccola folla, mentre la protagonista, quasi impercettibile tra tutte queste ‘cose’, dimostra di essere l’unica fanciulla del regno a poter indossare la fatata calzatura e le sorellastre, anch’esse poco evidenziate, si allontanano umiliate.
Abbiamo Cenerentola, la nota fiaba, con questo libro in mano, ma anche molto di più, e cioè tutto quello che, di inaspettato, Innocenti le costruisce intorno. Un mondo. E il mondo esterno per Innocenti non è un luogo generico, vago, astratto, come spesso avviene nelle illustrazioni delle fiabe, bensì un contesto specifico in termini storici, architettonici, automobilistici, dell’arredo, della moda. Un contesto realistico, come quello in cui le persone vivono nel quotidiano. In questo senso, Innocenti regala, paradossalmente, alla fiaba una verità ancora più profonda e universale di quella che già è propria del suo testo. Cenerentola può nascere ovunque, in qualunque luogo e momento, nella Francia del Seicento o nell’Inghilterra di una precisa decade del Novecento, perché la sua storia è sempre valida, è sempre vera, è la storia di un’ingiustizia e di un riscatto che può accadere continuamente, in ogni ambiente familiare e/o sociale.
Viene ri-ambientata, nella versione proposta da Innocenti, anche un’altra fiaba tradizionale, quella di Cappuccetto Rosso, all’interno di un albo illustrato in cui si opera anche una ri-narrazione, in inglese intitolata The Girl in Red (Frisch & Innocenti, 2013). In questo caso, l’attualità del racconto dei pericoli in cui può imbattersi una bambina che attraversa da sola un luogo impervio e disorientante è resa ancora più evidente dal fatto che ci troviamo, con le illustrazioni, direttamente dentro una metropoli contemporanea. La minacciosità di un bosco fitto d’alberi e pieno di animali feroci è paragonata esplicitamente a quella di un contesto urbano cresciuto a dismisura e divenuto un luogo di cemento, asfalto, palazzoni, strade larghe piene di traffico, autoveicoli di ogni tipo, insegne luminose, cartelloni pubblicitari, bidoni della spazzatura, ipermercati, muri riempiti di graffiti, personaggi ambigui. Non c’è dubbio che si tratti di due spazi comunque ‘disumani’, cioè non fatti per essere abitati o frequentati dall’uomo, e meno che mai a misura di bambino. Tremiamo, per questa moderna Cappuccetto Rosso che attraversa la città verso la periferia dove si trova la roulotte della nonna, non certo meno che per la bambina fiabesca spedita dalla mamma nella foresta. Ci prende anzi un’angoscia più forte e più piena di sensi di colpa guardandola camminare per marciapiedi infestati di immondizia, attraversare al semaforo strade pericolose, avanzare verso quartieri malfamati, passare su cavalcavia di cemento armato, ossia muoversi in quello che per molti è diventato un contesto abituale e quotidiano. La fiaba, così illustrata, diventa un espediente per invitarci a riflettere su quello che abbiamo fatto al (nostro) mondo, per farcelo vedere davvero, in tutta la sua mostruosità, che altrimenti, assuefatti come siamo a questo tipo di ambiente da noi stessi edificato, non coglieremmo.
7 La creatività come lente per vedere più da vicino la realtà
Roberto Innocenti, come è evidente, non è soltanto un illustratore di libri per bambini dotato di una tecnica formidabile e di un riconosciuto talento come disegnatore. È anche un autore di molte storie da lui inventate, rinarrate, suggerite o nascoste nelle immagini che con grande dedizione sa creare. Ed è, prima di tutto, un formidabile lettore. Innocenti legge la grande letteratura e si appassiona ai suoi personaggi iconici, come è evidente nel suo libro forse più originale e sicuramente più ‘personale’: L’ultima spiaggia (Lewis & Innocenti, 2002). In esso, inventa una storia che fa convergere in una locanda sperduta nel Finistère tanti tipi umani misteriosi e strani che pian piano si riveleranno essere i personaggi di fiabe, fumetti e romanzi classici, ma in incognito, nascosti sotto mentite spoglie. Tra loro, c’è anche lui, ovvero un uomo che a ben guardare gli somiglia tanto e che viene presentato come un illustratore in crisi di ispirazione. Anche in questo libro, e anche ricreando sé stesso come personaggio, non abbiamo mai un’inquadratura delle figure ‘umane’ da vicino. Tutte sono tenute a distanza, ciò che emerge sono altre ‘cose’: l’atmosfera gotica dell’arrivo notturno sotto la pioggia alla locanda, quest’ultima vista dall’esterno, da una finestra, dall’interno, in ogni suo salone, stanza, o angolo, il suo arredamento fin de siècle definito in ogni dettaglio, la spiaggia su cui affaccia con la sabbia ondulata, le pozze d’acqua quando la marea si abbassa, le sedute di vimini, il molo di legno. Anche in un esempio di meta-racconto, di intertestualità assoluta, cioè in una storia basata su altre storie, con personaggi che appartengono a precedenti narrazioni, dove tutto è più che mai ‘letterario’, nelle tavole di Innocenti a spiccare sono gli aspetti concreti, fisici, gli oggetti, i materiali, la sostanza tangibile di cui è fatto il mondo, quello reale, quello che, fuori dai libri, abbiamo intorno.
Al di là delle trame – inventate, fiabesche, fantastiche – a cui Innocenti si dedica come autore e illustratore, la sua attenzione e il suo senso di meraviglia vanno ostinatamente alle ‘cose’, ovvero a ciò che di materiale e concreto esiste – nella letteratura come nella vita – ma normalmente resta sullo sfondo, o meglio viene fatto coincidere con lo sfondo da esseri umani che si sentono protagonisti assoluti e unici di ogni possibile racconto.
Presa nel suo insieme, l’opera di Innocenti è paradigmatica di quanto si cerca di sostenere e promuovere all’interno dei cosiddetti studi sul Post-umano. Occorre ricostituire un equilibrio oggi compromesso tra noi e il mondo. Per farlo l’uomo deve sforzarsi di uscire dal proprio antropocentrismo, o dall’idea di un eccezionalismo, e imparare a comprendere il proprio essere, conoscere e agire come momenti di “a conversation with those who are not us” (Iovino & Oppermann, 2012, p. 86). Le pagine di Innocenti, capaci come sono di restituire centralità, presenza, ‘ontologia’ a tutto ciò che ci sta intorno, si presentano come un dispositivo pedagogico piuttosto straordinario. Qualunque sia la storia che nel libro (a parole) si racconta, le sue illustrazioni contengono ed esprimono, immancabilmente, una profonda consapevolezza della relatività dell’essere umano, del suo non meritare necessariamente sempre il primo piano. Ci ‘dicono’ – mostrandolo – che esistiamo solo come parte, non eccezionale né dominante, del tessuto multiforme del paesaggio, dell’ambiente naturale e antropico, come tassello del variegato mosaico materico (e narrativo) di cui è fatto il mondo. È la prospettiva a cui ci invitano anche gli indirizzi di studio più recenti e in particolare quelli riconducibili al New Materialism, che puntano a rimettere al centro la significatività e l’agentività del non-umano.9 Ma per fare nostra questa prospettiva – che corrisponde ad un vero e proprio cambio di paradigma dal punto di vista ontologico – abbiamo bisogno di occhiali correttivi come quelli che ci presta Innocenti. Dai suoi libri, in questo senso, i lettori ricavano molto più che un corpus di avvincenti racconti corredati da illustrazioni tecnicamente mirabili: a un livello più profondo, frequentare la sua opera equivale a esercitare un nuovo, diverso, più acuto sguardo. Uno sguardo antropo-decentrato, capace di restituire soggettività, importanza, valore, esistenza, al mondo inteso come dimensione in cui l’umano non è, se non parte di un tutto, e sicuramente non è il protagonista principale o unico del racconto.
Riferimenti bibliografici
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Volumi scritti e/o illustrati da Roberto Innocenti
Bin, O., & Innocenti, R. (1979). 1905. Bagliori a Oriente. Conegliano: Quadragono libri.
Collodi, C., & Innocenti, R. (1991). Pinocchio. Storia di un burattino. Pordenone: Edizioni C’era una volta (op. orig. 1991).
Dickens, C., & Innocenti, R. (1990). Canto di Natale. Milano: La Margherita (op. orig. 1990).
Frisch, A., & Innocenti, R. (2013). Cappuccetto Rosso. Una fiaba moderna. Milano: La Margherita (op. orig. 2012).
Gallaz, C., & Innocenti, R. (1990). Rosa Bianca. Pordenone: Edizioni C’era una volta (op. orig. 1985).
Hoffmann, E. T. A., & Innocenti, R. (1997). Lo schiaccianoci. Milano: La Margherita (op. orig. 1996).
Innocenti, R., & Piumini, R. (2009). Casa del tempo. Milano: La Margherita (op. orig. 2009).
Innocenti, R. (2012). La mia vita in una fiaba. Conversazione con Rossana Dedola. Pisa: Della Porta.
Innocenti, R. (2018). La mia nave. Milano: La Margherita (op. orig. 2018).
Lewis, P. J., & Innocenti, R. (2002). L’ultima spiaggia. Milano: La Margherita (op. orig. 2002).
Perrault, C., & Innocenti, R. (1985). Cenerentola. Milano: La Margherita (op. orig. 1983).
Van der Zee, R., & Innocenti, R. (2003). La storia di Erika. Pordenone: Edizioni C’era una volta (op. orig. 2003).
Roberto Innocenti è nato in provincia di Firenze nel 1940 ed è fra gli illustratori oggi più conosciuti a livello internazionale. All’inizio degli anni Ottanta, il suo lavoro viene notato da Etienne Delessert, un illustratore svizzero che gli commissiona una versione di Cenerentola per conto della casa editrice americana Creative Editions: inizia così quello che sarà il sodalizio di una vita tra Innocenti e l’editore statunitense, che da allora ha pubblicato tutti i suoi principali titoli, poi usciti anche in altri paesi. Con i suoi libri ha vinto innumerevoli premi internazionali (come La Mela d’Oro alla Biennale di Bratislava, il Best Foreign Picturebook, il Premio per la Pace Gustav Heinemann e l’Hans Christian Andersen Award, considerato il Nobel della letteratura per l’infanzia). Le sue illustrazioni sono state esposte in mostre e luoghi prestigiosi come, tra gli altri, il Musée Tomi Ungerer di Strasburgo (nel 2014) e il Palazzo Medici Riccardi di Firenze, che ha ospitato una retrospettiva della sua opera nel 2024.↩︎
A partire da John Ruskin, che coniò l’espressione nel suo Modern Painters (1843-60), la cosiddetta ‘pathetic fallacy’, ovvero la propensione ad attribuire emozioni, azioni e reazioni simili a quelle umane agli elementi naturali e agli oggetti inanimati ha finito con l’essere considerata convenzionalmente come ingenua e sbagliata.↩︎
Un’analisi in ottica ecocritica del rapporto tra umano e ‘sfondo’ nei libri per l’infanzia si trova anche in alcuni recenti studi (si veda Campagnaro, 2024).↩︎
Un articolo come il presente, costruito interamente intorno all’analisi del codice visivo di un autore/illustratore, ha come riferimento essenziale dal punto di vista teorico-metodologico gli studi di Antonio Faeti (sopra tutti: Faeti, 1972). Più in generale, sull’ermeneutica delle immagini, preziosi sono gli studi di John Berger (1998, 2003, 2017). Sulla storia dell’illustrazione per l’infanzia in Italia si veda anche: Giorgio Bacci (2009). E sul visivo di Roberto Innocenti in particolare: Giorgio Bacci (2016).↩︎
È proprio questo tipo di sguardo che si dovrebbe promuovere più in generale nella cultura occidentale, secondo i teorici del New Materialism la cui intenzione è “to re-enchant reality, claiming that all material entities, even atoms and subatomic particles, have some degree of sentient experience and that all living things have agency of their own” (Iovino & Oppermann, 2012, p. 78). Come nel caso di H.C. Andersen e di Roberto Innocenti, questa corrente di pensiero propone “a worldview in which [reality] is, at a fundamental level, reanimated” (p. 78).↩︎
Sono tante le interviste rilasciate da Roberto Innocenti in cui risultano centrali le memorie di guerra e le sue idee su di essa. Si vedano, in particolare, Innocenti (2012) e Lepri (2010).↩︎
È questa la teoria anche alla base del Material Ecocriticism: “Matter’s self-creative, productive and unpredictable dimension is of crucial importance for material ecocriticism” (Iovino & Oppermann, 2012, p. 85).↩︎
Si vedano, oltre a Schiaccianoci e il re dei topi, anche i suoi racconti e in particolare L’uomo della sabbia, ritrovabile come pubblicazione a sé o all’interno di raccolte dei racconti di E.T.A. Hoffmann.↩︎
“Matter is not a blank slate, or immutable, or passive […] Matter is produced and productive, generated and generative. Matter is agentive, not a fixed essence or property of things” (Barad, 2007, p. 137).↩︎