Veniamo fuori dal buio, no, entriamo, fuori c'è buio, qui si vede qualcosa, in mezzo al fumo, la luce è fumosa, forse di candele, però si vedono i colori, dei gialli, del blu, sul bianco, sulla tavola, macchie colorate, rosse, anche verdi, coi contorni neri, disegni su rettangoli bianchi sparpagliati sul tavolo. C'è dei bastoni, rami fitti, tronchi, foglie, come fuori prima, delle spade che ci danno addosso colpi taglienti, d’in mezzo alle foglie, le imboscate nel buio dove c'eravamo perduti, per fortuna alla fine abbiamo visto una luce, una porta, c'è degli ori che brillano, delle coppe, questa tavolata con bicchieri e piatti, scodelle di zuppa fumante, boccali di vino, siamo in salvo ma ancora mezzo morti dallo spavento, possiamo raccontarla, ne avremmo da raccontare, ognuno vorrebbe raccontare agli altri cosa gli è successo a lui, cosa gli è toccato di vedere, con i suoi occhi nel buio, nel silenzio, qui adesso c'è amore, come farò a farmi sentire, la mia voce non la sento, non mi esce la voce dalla gola, non ho voce, non sento nemmeno la voce degli altri, si sentono i rumori, non sono mica sordo, sento acciottolare le scodelle, stappare fiaschi, tambureggiare col cucchiai, masticare, ruttare, faccio dei gesti per dire che ho perduto la parola, anche gli altri stanno facendo gli stessi gesti, sono muti, abbiamo perso la parola tutti, nel bosco, tutti quanti siamo intorno a questa tavola, uomini e donne benvestiti e malvestiti, spaventati, anzi, spaventosi a vedersi, tutti con i capelli bianchi, giovani e vecchi, anch'io mi specchio in uno di questi specchi, di queste carte, ho i capelli bianchi anch'io dallo spavento. Come faccio a raccontare, adesso ho perduto la parola, le parole, fosse pure la memoria, come faccio a ricordare cosa c'era di fuori, e una volta ricordato come faccio a trovare le parole per dirlo […]. Meno male sono queste carte, qua sul tavolo, un mazzo di tarocchi, di quelli più comuni, marsigliesi, come li chiamano, detti anche bergamaschi, oppure napoletani, piemontesi, se non sono gli stessi s’assomigliano […]. Ci mettiamo le mani sopra tutti insieme, sulle carte, qualcuna delle figure messa in fila con altre figure mi riporta nella memoria la storia che mi ha portato qui, cerco di riconoscere cosa mi è successo e di mostrarlo agli altri che intanto sono lì e che cercano nelle carte pure loro, e mi mostrano col dito una figura o l'altro, niente va bene con niente, ci scopriamo le carte di mano, e le sparpagliamo per il tavolo. (Calvino, 1973, pp. 53-55)
Nel racconto La taverna dei destini incrociati, Italo Calvino costruisce una raffinata metafora che si rivela, oggi, una profezia: un gruppo di persone ha attraversato terribili vicissitudini e non riesce più a mettere insieme la propria storia di vita, non può esprimerla, condividerla. E non perché, come sembra, abbia perso la parola; ciò che manca a queste persone per ritrovare il filo della propria coscienza, della propria storia e della propria identità sono immagini, o meglio, figure. Sarà, infatti, soltanto utilizzando le immagini ad alto tasso simbolico-metaforico di un mazzo di tarocchi che i protagonisti riusciranno a ricostruire e condividere le proprie storie di vita.
Le conoscenze e le rappresentazioni del mondo, così come la conoscenza e la rappresentazione di sé (coscienza identitaria) si servono di due percorsi simbolici ed eidetici: quello razional-concettuale e quello metaforico-figurale. Nell’uso di queste due strategie cognitive la mente utilizza due fondamentali funzioni del pensiero: logica e analogica. Il percorso razional-concettuale si serve soprattutto (anche se non solo) del pensiero logico, quello metaforico-figurale utilizza prevalentemente il pensiero analogico.
Logica, dal greco logos, è l'insieme delle regole che organizzano il pensiero attraverso una connessione di giudizi che garantiscono la validità dell'argomentazione o dell'operazione da esso compiuta. È, dunque, la teoria dell'inferenza valida, ossia dell’insieme delle condizioni stando alle quali un ragionamento risulta corretto, qualunque sia l'universo di discorso o di applicazione cui esso appartiene. Logos, nella tradizione greca (e poi nella cultura latina che l’ha ereditata), aveva sia il valore di calcolo che di discorso. È, dunque, la tecnica di pensiero, di argomentazione e di operazione simbolica capace di distinguere il vero dal falso. Secondo Eraclito, e lungo tutta la tradizione razionalista che arriva fino all'illuminismo, la dottrina del logos era una legge universale, insieme di ragione e necessità. Ragione e logica, secondo questa concezione, sarebbero, dunque, caratteristica stessa della realtà, qualità cosmica che le mente umana riconosce, decifra e codifica. Secondo la Filosofia dello spirito di Friedrich Hegel, tutto ciò che è razionale è reale, tutto ciò che è reale è razionale (Hegel, 1807/2005).
Oggi molti studiosi, pur fedeli alla tradizione filosofica del primato della ragione, a partire da Wittgenstein fino a molti esponenti della scuola analitica statunitense, vedono nella logica, soprattutto, una capacità del pensiero di organizzare secondo categorie e schemi di tipo razionale la rappresentazione del mondo, della realtà e della storia che tuttavia restano, nella loro essenza, sostanzialmente insondabili, e che spesso si manifestano in maniera tutt'altro che razionale. Il pensiero logico, lineare, sequenziale, formalmente predefinito, viene utilizzato per fare calcoli, per sviluppare espressione algebriche, per formulare un discorso argomentativo, ma anche per comprendere o formulare un racconto collegando fra loro le varie parti della narrazione in termini di successione temporale e rapporto di causa-effetto. Per Jean Piaget, i procedimenti logici consistono sostanzialmente nelle operazioni di seriazione, calcolo, misurazione, confronto, classificazione; per Georg Cantor è alla base delle operazioni di tipo insiemistico. Il pensiero logico ha, dunque, soprattutto funzioni pragmatiche e organizzative, mette ordine nei pensieri e nei processi di riduzione e organizzazione simbolica.
Il pensiero analogico è trasversale, discontinuo, pluriverso, spesso imprevedibile e casuale. Grazie a queste caratteristiche è generativo: suggerisce e avvia, cioè, processi di invenzione, di creazione, di modificazione del reale e del “già dato”. Il pensiero analogico produce libere associazioni e, evolvendosi ed affinandosi, consente la comprensione e la produzione di metafore ed è responsabile di tutto l’universo delle manifestazioni simboliche da cui l’essere umano, come ci ha rivelato la psicoanalisi, è attraversato, ma di cui, come accade nei sogni, non ha il pieno controllo. Il pensiero analogico è, dunque, il principale motore dell’intuizione, che per Henry Poincaré è lo strumento dell’invenzione, mentre la logica può dare soltanto certezza, e dell’immaginazione, a proposito della quale Albert Einstein era solito ribadire ai giovani studenti e ricercatori come la logica possa portare da A a B, mentre l’immaginazione può portare dappertutto.
1 Metafore
La filosofa Francesca Rigotti (2014) ci ricorda come la ricognizione culturale sull’avventura della conoscenza abbia bisogno di una riflessione relativa alla storia delle idee e alla storia delle metafore.
La storia delle idee parte dal presupposto che il pensiero di un autore, il corpo dottrinale di una filosofia individuale o di una scuola è un aggregato composito ed eterogeneo ed è altresì un composto instabile. Perciò lo storico delle idee, similmente al chimico analista, andrà alla ricerca dei componenti, fino a giungere a quelli di base, la molecola o addirittura l'atomo […]. L'analisi dei concetti cerca insomma di identificare nei concetti stessi una specie di nucleo strutturale che rende possibile riconoscere e valutare i mutamenti da cui sono scandite e delimitate le grandi epoche della storia e della loro discontinuità […]. La storia concettuale esamina i concetti attorno ai quali si sono costruite le teorie, offrendosi come strumento per costruire modelli di interpretazione e anche di costruzione di nuove teorie morali e politiche. (pp. 14-15)
La stessa idea di scienza, che nel settecento era sinonimo di verità ed esattezza incontestabile, oggi, dopo la rivoluzione epistemologica del novecento e l'introduzione della nozione di paradigma di Thomas Kuhn (1985), viene individuata più come luogo del rigore metodologico piuttosto che della verità. E Francesca Rigotti (2014) ci ricorda come sia necessario integrare la storia dei concetti con la storia di metafore.
Accanto e spesso intrecciati ai concetti […] si trovano, infatti, le metafore, ovvero immagini verbali (“Sprachbilder”) che abbracciano contenuti semantici e si sottraggono alla forza espressiva del linguaggio rigidamente concettuale. La metafora nasce, infatti, nell'ambito della fantasia, ambito che non è qui considerato subordinato al logos, semplice sostrato di questo, ma viene invece inteso come sfera catalizzatrice con la quale il mondo concettuale di continuo interagisce arricchendosi. Le metafore […] costituiscono un orientamento attivo, permanente e incancellabile del pensiero, una maniera originaria di donazione di senso alla realtà (pp. 48-50)
Francesca Rigotti ci fa, dunque, notare come il filosofare, la costruzione delle idee e delle rappresentazioni, la ricerca della verità, abbiano bisogno sia del lavoro del pensiero logico che di quello analogico.
Con il termine concetto si intende solitamente un contenuto, un oggetto mentale. Nella filosofia greca concetto era l’universale, la corretta definizione che sottrae la conoscenza alla variabilità delle opinioni e all'accidentalità dell'esperienza. Nella logica tradizionale, a partire dalla scolastica medioevale, per concetto si intende ogni termine componibile con altri a formare un giudizio. Va detto, però, che già nel medioevo il sospetto che la chiarezza razionale e concettuale del mondo non fosse caratteristiche del mondo stesso ma piuttosto della nostra mente e del linguaggio che organizza pensieri e rappresentazioni era già presente (Eco, 2004). Nel pensiero contemporaneo viene operata una distinzione fondamentale tra comprensione (o intensione) del concetto e la sua estensione, vale a dire le sue caratteristiche di connotazione e di denotazione. I filosofi contemporanei, in particolare quelli impegnati attorno ai problemi relativi alla teoria del significato, come Charles S. Peirce e Gottlob Frege, si pongono il problema della distanza più o meno ampia che può esistere tra la formulazione simbolica di un concetto e l'oggetto o gli oggetti designati da tale concetto. Resta comunque evidente come la costruzione delle conoscenze attraverso processi di riduzione concettuale (associati alla loro organizzazione tassonomica) abbia a che fare soprattutto con la dimensione logica e la concezione razionalistica della conoscenza stessa.
Umberto Eco ha sottolineato in più occasioni il valore conoscitivo della metafora e il fatto che essa non vada considerata una semplice strategia dello stupore o dell’abbellimento ma sia capace, proprio per la sua capacità di stimolare funzioni cognitive legate ai procedimenti analogici, di svelare nuovi aspetti di ciò che è oggetto dell’approccio cognitivo. Già in Opera aperta (Eco, 1962), Eco segnalava come nella metafora fosse evidente il legame fra approccio cognitivo, capacità di suscitare inferenze, e dimensione estetica legata alla capacità della metafora di presentare una verità o un’evidenza negandola, poiché, come ribadisce in Semiotica e filosofia del linguaggio, “chi fa metafore, letteralmente parlando mente – e tutti lo sanno” (Eco, 1984, p. 144).
D’altra parte che il congegno metaforico sia un indispensabile strumento di costruzione della conoscenza, e che, per le sue specifiche caratteristiche, non sia mai assoluto ma storico, contestuale e intersoggettivo, lo ribadiscono anche gli studiosi di area cognitiva. Nelle scienze cognitive è oggi diffusa l’affermazione secondo la quale il cervello e la mente umana funzionano come un computer, ma è proprio uno scienziato cognitivista, John Searle (1988), a ribadire la storicità e la relatività, cioè la metaforicità, di questa immagine:
Nella mia infanzia ci veniva sempre assicurato che il cervello era una centralina elettrica (“Che altro potrebbe essere?”). Mi ha divertito vedere che Sherrington, il grande neurologo britannico, pensava che il cervello funzionasse come un sistema telegrafico. Freud comparava spesso il cervello ai sistemi idraulici ed elettromagnetici. Leibniz lo comparava a un mulino, e mi è stato detto che alcuni degli antichi greci pensavano alle funzioni del cervello come a una catapulta. Al presente, è ovvio, la metafora è il calcolatore digitale. (p. 37)
Ma se è indiscutibile il valore e la funzione della metafora quando le risorse linguistiche hanno come oggetto la ricerca e l’espressione di contenuti scientifici e filosofici, essa appare ancora più evidentemente necessaria nella formulazione e nell’espressione di contenuti in cui prevale, o ha comunque rilevanza, la dimensione affettiva ed emozionale, al punto che potremmo tranquillamente affermare che non può esserci competenza emotiva senza competenza metaforica.
Daniel Goleman (1996), con il volume Intelligenza emotiva. Che cos'è e perché può renderci felici, introduce nell’universo culturale il concetto di competenza emotiva, definito come “l'insieme di abilità pratiche (skills) necessarie per l'autoefficacia (self-efficacy) dell'individuo nelle transazioni sociali che suscitano emozioni” (Ibidem). La competenza emotiva presuppone conoscenza delle emozioni proprie e altrui e capacità di gestirle e regolarle per affrontare diverse situazioni relazionali. Goleman esamina questo problema dal punto di vista della qualità delle relazioni con se stessi e con gli altri, intendendo con questo termine la capacità di riconoscere, accettare, esprimere correttamente i propri stati emozionali, comprenderne il senso e saperli utilizzare. Essere dotati di competenza emotiva significa, dunque, saper riconoscere, nominare, accettare e gestire i propri e altrui stati emozionali ed essere dotati di capacità empatiche. Per potersi definire emotivamente competenti, quindi, accanto all’esercizio dell’introspezione e dell’empatia, è importante saper nominare e descrivere emozioni, affetti, sentimenti e passioni, occorre saper trovare e porgere riferimenti, modelli e figure nel patrimonio culturale disponibile, delle categorie emozionali. E senza l’apporto di un ben attrezzato repertorio metaforico questo compito risulta piuttosto arduo.
È opportuno precisare che in questo contesto, per metaforica, cioè avente le caratteristiche simboliche e generative della metafora, propongo di intendere ogni forma di espressione analogica e allusiva: il paragone, l'esempio, l'allegoria, l'analogia, il paradosso, ecc., mentre tra i traslati, oltre alla metafora (intesa in senso stretto) considero significativi prodotti del pensiero analogico riconducibili all’universo metaforico la metonimia, la sineddoche, l'antonomasia, la perifrasi, l'iperbole, l'ironia, la litote (Dallari, 2008). Il costrutto metaforico, allora, non risulta legato esclusivamente alla sua dimensione letteraria, ma si riferisce a un modo di pensare e creare rappresentazioni mentali i cui esiti possono andare oltre l’ambito della lingua delle parole e del suo uso canonico. La metafora non è solo un artificio retorico ma una caratteristica propria della relazione fra pensiero e linguaggio, per sua natura metaforica e aperta al traslato, all’analogia, all’invenzione.
Il filosofo Paul Ricoeur, ci ricorda come la metafora sia “la capacità creativa del linguaggio” (Ricoeur, 1981, p. 5) e che la sua infinita attitudine a rinnovare pensiero e comunicazione orienta in una direzione tensionale, mai definitiva e sempre orientata verso l’ulteriorità, il discorso e le conoscenze a cui dà forma. La metafora e la sua implicazione nella costruzione di conoscenze e rappresentazioni è, per Ricoeur, ciò che consente di “allargare alla sfera affettiva e volitiva l’analisi eidetica delle operazioni della coscienza” (Ricoeur, 1960/1995, p. 33).
Il filosofo Roberto Martinengo, mente sottolinea come la metafora, per Ricoeur, sia ciò che introduce nel discorso elementi di visualizzazione, ci fa notare come
a voler ridurre a uno schema la definizione che Ricoeur dà della metafora, si dovrebbe ricorrere a una formula del genere: la metafora è una funzione in grado di produrre innovazione linguistica e, al tempo stesso, è un dispositivo di visualizzazione, ovvero di costruzione di immagini. (p. 34)
Metafora è sempre trasgressione rispetto al modo consolidato, canonico e “giusto” di dire qualcosa. L’atto metaforico comporta sempre il tradimento di una norma. Ed è, proprio per questo, prova vivente che nulla nella cultura e negli apparati simbolici che la rappresentano è dato e codificato una volta per tutte, perché le regole esistono ed è necessario conoscerle, ma non è detto che sia altrettanto necessario rispettarle sempre e comunque.
Hans Blumenberg, creatore della metaforologia, conia il termine metafora assoluta. Una metafora assoluta non è riducibile a un modo di dire retoricamente suggestivo o un derivato da altre metafore già utilizzate e linguisticamente consolidate, ma un costrutto simbolico capace di esprimere una concezione del tutto originale del mondo. Le metafore assolute sono, dunque, strumenti ermeneutici di primaria importanza, espedienti interpretativi capaci di indirizzare e strutturare il giudizio. La rilevanza delle metafore assolute, la loro verità storica, è, perciò, in una accezione molto lata, pragmatica (Blumenberg, 1960/2009). Questo significa che il loro contenuto determina un orientamento nel mondo generato e strutturato dalla metafora. Attraverso le metafore un’epoca esprime le proprie certezze, ma anche dubbi, paure diffusa, aspirazioni, azioni e interessi (l’epoca dei lumi, i secoli bui, gli anni del terrore…). Le metafore assolute, per Blumenberg consentono di costruire
una rappresentazione del tutto della Realtà, che come tale non è mai del tutto esperimentabile né dominabile. […] Una domanda come “Che cosa è il mondo?” […] manifesta con evidenza un implicito bisogno di sapere, il quale nel “come” di un comportamento si sa portato sul che cosa di un Tutto portante, e cerca di orientare il suo stesso dirigersi. Questo chiedersi implicativo è vissuto sempre di rinnovate metafore […] La verità della metafora è una verité a faire. (Blumenberg, 1960/2009, pp. 23-24)
2 La risorsa delle immagini
Quello che molti studiosi della metafora trascurano è il ruolo svolto dalle risorse del repertorio visuale interiorizzato da ciascuno nell’attività del pensiero analogico e nel prezioso e complesso lavoro di elaborazione e di produzione metaforica. A questo proposito Annamaria Contini, che compie un’accurata e preziosa analisi comparativa fra il funzionamento del congegno metaforico visuale e quello verbale, ricorda che “i processi metaforici non riguardano esclusivamente il linguaggio verbale: esiste ormai una consistente letteratura che ha indagato le regole di costruzione e interpretazione delle cosiddette ‘metafore visive’ in una pluralità di domini: in particolare nell’arte pittorica e nella pubblicità” (Contini, 2012, p. 193). Nonostante i procedimenti metaforici legati alla visione prendano forma, tecnicamente, secondo procedure differenti da quelli riferibili alla dimensione verbale, le metafore “anche nell’ambito visivo ricorrano le stesse operazioni fondamentali di una retorica generale: operazioni di aggiunzione, di soppressione, soppressione-aggiunzione e di permutazione” (Ibidem, p. 202).
Malgrado queste evidenze la sottovalutazione della cultura visuale e delle risorse iconiche nei processi di elaborazione del pensiero individuale e collettivo, ancora persistente e diffusa, ha una lunga storia. Gotthold Ephraim Lessing, scrittore, filosofo e drammaturgo tedesco del Settecento, teorizzò l’opposizione fra letteratura e arti visive come espressione l’una di temporalità e l’altra di spazialità. Questa convinzione, unita al pregiudizio romantico-idealistico che attribuisce a naturalità e spontaneità l’uso del simbolo visivo e ad acculturazione e conoscenza acquisita le competenze relative alla lingua delle parole, ha creato una separazione nelle modalità di approccio alle produzioni, anche a livello artistico, dei due campi simbolici che ha anche delle evidenti ricadute istituzionali in ambito educativo, vedi la separazione, a livello universitario, dei corsi di laurea di ambito filosofico-letterario dalle Accademie di Belle Arti, o il paradosso per cui nel curricolo liceale di indirizzo classico-umanistico l’arte visiva non è materia contemplata. È piuttosto diffusa la convinzione che il linguaggio delle immagini sia più naturale e spontaneo di quello delle parole, che le parole si imparano e le figure si riconoscono naturalmente, ma questa convinzione è del tutto infondata. Quando una percezione avviene al di fuori della dimensione di sinestesia (cioè di uso congiunto di tutti i sensi) che caratterizza la relazione naturale con il mondo, ci troviamo evidentemente all’interno di una dimensione simbolica che non riguarda la natura ma la cultura. I linguaggi, tutti i linguaggi, sono, dunque, i media culturali che consentono ai sensi, agli affetti e all’intelletto di collaborare nell’esercizio dell’intelligenza. E il linguaggio verbale e quello delle immagini sono entrambi legittimamente definibili come media in quanto non si limitano a trascrivere i prodotti del pensiero, ma sono essi stessi pensiero e lavoro del pensiero (Arnheim, 2002).
La nostra cultura e il nostro sistema scolastico hanno separato i linguaggi secondo uno schema analitico (le materie scolastiche) non sempre funzionale alla comunicazione, al pensiero creativo e alla formazione, e questa è proprio una dei principali motivi di arretratezza della nostra formazione scolastica. Non a caso nelle esperienze pedagogico-didattiche più avanzate (soprattutto nelle istituzioni scolastiche del nord Europa) è sempre più diffusa la didattica per progetti che, scelto un tema o un argomento da trattare, lo fa servendosi di un approccio inter e trans-disciplinare. È, dunque, importante recuperare e valorizzare materiali culturali, testi e occasioni in cui immagini e parole collaborano, e nella contemporaneità non mancano autorevoli pareri e studi attendibili che ci suggeriscono di andare in questa direzione.
William John Thomas Mitchell (1980) interpreta letteratura e arti visive come luoghi in cui avviene una proficua collaborazione: “noi dobbiamo guardare alla letteratura e al linguaggio delle immagini come […] l’arena in cui ritmo, forma e articolazione convergono balbettando canto e discorso, schizzando scrittura e disegno” (p. 566).
Jean François Lyotard (2008), nel saggio Discorso, figura, sostiene la necessità di integrare parola e immagine per svelare e superare l’inganno (leurre) di un modello di pensiero e di conoscenza basato solamente sulla lingua delle parole. In questo modo i linguaggi svelano la loro dimensione metaforica e figurale, e annettono alla costruzione di queste rappresentazione l’universo degli affetti e del desiderio che il modello della ragione, rappresentata dal ‘Logos’ tende ad escludere. Per Lyotard occorre
disfare il codice senza tuttavia distruggere il messaggio ma, al contrario, liberandone il senso e le riserve semantiche laterali, che la parola ben strutturata maschera, è comunque una serie di operazioni che Freud denominava lavoro onirica, che consiste, come cercheremo di mostrare, nella trasgressione degli scarti stabili che formano la trama della lingua e che, a ben vedere, è trama della sorte, “appagamento del desiderio”. Una tale descrizione esige il ricorso almeno a due tipi di negatività: quella della struttura della lingua e quella dell'esperienza visiva, entrambe incluse nel nostro uso del discorso. La prima è compresa come codice invariante comune agli interlocutori e a tutte le parole proferite in questa lingua […], la seconda come distanza da superare che indica il luogo in cui si rende ciò che io dico, come orizzonte aperto davanti alle parole e in grado di attirarle a sé, negatività al fondamento della nostra esistenza spaziale, mobilità che costituisce la profondità. Una volta eliminata la censura, sembra abbattersi sulla ratio della lingua quella mobilità del gesto che Merleau-Ponty chiamava parola parlata, in cui si nasconde l’energetica e la folgorazione del desiderio, producendo nella lingua stessa il “disordine” del sogno, della poesia, della figura, per rivelarvi, in realtà, l’“ordine” instabile, impossibile, di un essere diviso fra Eros-morte e Eros-realtà, fra variante e invariante, fra figura e discorso. (p. 88)
Nell’introduzione a Discorso, figura, Elio Franzini nota come
la metafora, si potrebbe dire per esemplificare, è un “sintomo”, la manifestazione poetica di atti che conducono sul “terzo spazio” dell'inconscio, in cui si rivela che la decostruzione si realizza introducendo nel linguaggio operazioni extra linguistiche che ritardano la comunicazione, che sono lusinga e verità insieme, manifestazione visibile delle operazioni della seduzione e dell'inconscio, realizzazione di quella funzione critica della poesia di cui già parlava Mallarmé, in cui l'ordine del discorso si mantiene aperto al suo altro, all'ordine del processo inconscio che si rivela come figura. (Franzini, 2008, p. 25)
Maurice Merleau-Ponty, filosofo seguace di Edmund Husserl e della sua fenomenologia, nonché studioso dei processi percettivi, conia per noi il termine surriflessione (surréflexion). La surriflessione, per Merleau-Ponty (1964/2007), è un “livello superiore” delle conoscenze e delle rappresentazioni del mondo che, per conferire autenticità e spessore fenomenologico al proprio pensiero, ritiene utile praticare quel disordine del logos che consente di aggiungere autenticità e carica estetico-emozionale alla riduzione simbolica e al suo uso relazionale. Al fine di ottenere questo risultato suggerisce, fra l’altro, la collaborazione del linguaggio delle immagini con quello delle parole. Mentre ricerca una particolare e più efficace strategia di costruzione della conoscenza, il filosofo francese si accorge di riuscire a mantenere, nella con-fusione dei due linguaggi, la tensione costitutiva tra il mondo della percezione e il mondo del linguaggio. Jocelyn Benoist nota a questo proposito:
La “surriflessione” è una riflessione alla quale è consentito lasciar emergere l’immediatezza come tale e, per dirlo con il lessico di Merleau Ponty, conservare una dimensione “esistenziale” – invece di intellettualizzare ciò che è tematizzato come farebbe quella che viene definita tradizionalmente “riflessione” […]. Se una “surriflessione” è auspicata, è dunque contro una certa ontologia dello spirito in quanto entità separata e accessibile in sé, indipendentemente dal mondo, sulla quale sembra reggersi il concetto tradizionale di riflessione. (Benoist, 2013, p. 237)
Merleau-Ponty (1964/2007) nota come quando un essere umano percepisce qualcosa, tende, per la natura simbolica che lo costituisce, a trasformare la sua percezioni in coscienza attraverso la ricostruzione simbolica del percepito; cerca o crea, cioè, le parole che possono nominare e descrivere l’oggetto della percezione. Questo processo, che per l'essere umano evoluto è del tutto spontaneo, rischia però di farci dimenticare l'autenticità originaria e misteriosa dell'oggetto che, nella sua trasposizione simbolica, può perdere le tracce e il senso di quella tensione che aiuta a mantenere la consapevolezza di come nella trasformazione dell'oggetto in una parola, o in una frase, ci sarà comunque, inevitabilmente, uno scarto, una perdita. Perdita generata, secondo Merleau-Ponty (1964/2007), dalla presunzione di svelare attraverso il logos l’essenza di ciò di cui stiamo costruendo la rappresentazione annullando (censurando) la zona di ulteriorità e di mistero che comunque la riguarda. Dall'enciclopedia di Diderot e D’Alambert fino ai testi scolastici, da almeno tre secoli stiamo correndo il rischio di scambiare le cose, il mondo, l'identità stessa delle persone, con i testi linguistici che pretendono di descriverli “oggettivamente”. Passare dalla riflessione alla surriflessione attraverso l’attenzione al costrutto metaforico e l'associazione del linguaggio delle immagini e quello delle parole, senza privilegiare uno dei due poli, consente di mantenere viva la memoria e la coscienza del passaggio simbolico, della “metamorfosi” che avviene quando la rappresentazione va dall'una parte (la dimensione percepibile) all'altra (il protocollo simbolico) e viceversa.
Altrimenti detto, noi intravediamo la necessità di una operazione diversa dalla conversione riflessiva, più fondamentale di quest'ultima, intravediamo la necessità di una specie di superriflessione che tenga conto anche di se stessa e dei mutamenti che essa introduce nello spettacolo, che quindi non perda di vista la cosa e la percezione grezze, e che infine non le cancelli, non recida, attraverso una ipotesi di inesistenza, i legami organici della percezione e della cosa percepita, e assuma viceversa il compito di pensarli […], di parlarne non secondo la legge dei significati delle parole, inerenti al linguaggio dato, ma grazie a uno sforzo, forse difficile, che impiega questi significati per esprimere, al di là dei significati stessi, il nostro contatto muto con le cose, quando esse non sono ancora cose dette. (Merleau-Ponty, 1964/2007, pp. 26-27)
La collaborazione di immagine e parola offre, per Merleau-Ponty, l’opportunità di pensare e di formulare pensiero senza perdere l’autenticità dell’indeterminatezza. È, tuttavia, evidente come la collaborazione fra i due linguaggi non possa avvenire, per essere significativa e autentica, utilizzando la lingua delle parole in maniera raffinata e complessa, e quella delle immagini avvilita al livello della banalità e allo stereotipo. Non a caso per Merleau-Ponty per accogliere l’imperativo del maestro Edmund Husserl che raccomandava ai filosofi di “tornare alle cose stesse” e per costruire, del mondo, una visione di insieme e arrivare così a coglierne il senso, l’arte visuale è altrettanto importante quanto lo è la metafisica. Merleau-Ponty analizza a questo proposito la pittura di Cézanne, che nelle sue opere non cerca di raffigurare la realtà così com’è, ma di mostrarla all’origine del suo manifestarsi come fenomeno (nel suo modo di apparire), chiarendo implicitamente l’impossibilità di distinguere il limite fra la realtà e la sua rappresentazione, fra la cosa e il modo di vederla del soggetto percipiente, fra cosa in sé e cosa vissuta.
La surriflessione auspicata da Merleau-Ponty è, dunque, quella in cui la relazione con gli altri e con il mondo recupera la sua dimensione estetica, dove cioè si ritrova la centralità del corpo, dei sensi, dell’esercizio e dell’allenamento della sensibilità, come raccomanda con rigore e chiarezza Daniele Bruzzone (2016) quando sottolinea l’importanza dell’aisthesis nella relazione educativa come esercizio di autenticità e antidoto a quella visione dualistica (separazione mente-corpo) e gravida di pregiudizi “oggettivistici” che ancora pesa nelle pratiche e nelle relazioni educative del nostro paese.
Come i modelli della letteratura e della saggistica possono ispirare e alimentare il repertorio della competenza verbale, così è necessario che le risorse del pensiero visuale, che come abbiamo visto è ingrediente della competenza simbolica ed eidetica, siano ricercate, trovate, raccolte, soprattutto nei repertori dell'arte e nell’universo delle produzioni simbolico visuali di qualità, fra le quali si annovera anche tutto l’universo dell’immagine in movimento, vale a dire il cinema e i suoi derivati multimediali.
Avere a disposizione un patrimonio di immagini di qualità, capaci di interagire e collaborare con le parole, serve principalmente a questo: guardare e pensare se stessi e il mondo con maggiore lucidità e chiarezza. Da questo punto di vista l’esperienza dell’arte visuale si rivela un’occasione da non perdere per continuare a educare ed autoeducare, senza limiti di età, sguardo e pensiero. E non dimentichiamo che così come un patrimonio linguistico ricco e raffinato affina e dilata le potenzialità del pensiero, un repertorio iconico ricco e complesso educa e potenzia le risorse e la qualità dello sguardo.
È vero che gli studi di neuroscienze, come quelli di Stanislas Dehaene (2009) hanno mostrato la parziale distinguibilità delle aree cerebrali deputate all’elaborazione delle immagini rispetto a quelle coinvolte nei processi linguistici. Questo però non giustifica una separazione culturale e epistemologica quando è evidente che dal punto di vista della costruzione di conoscenze, rappresentazioni, pensiero e relazioni intersoggettive queste differenti aree collaborano. Proprio Dehaene (2009), peraltro, sottolinea come per i bambini piccolissimi il miglior avviamento alla lettura sia il gioco e la relazione simbolica con oggetti e giocattoli e come il primo, importante, approccio infantile alle lettere dell’alfabeto consista nell’osservarle con curiosità non come simboli culturalmente codificati ma come semplici immagini. Ma sono proprio studiosi e ricercatori di area cognitiva a sostenere addirittura la superiorità dell’universo delle immagini rispetto a quello delle parole, nella creazione di conoscenza e rappresentazioni nella contemporaneità.
Gottfried Boehm (2009) utilizza il termine Iconic Turn per indicare quella che a suo avviso è una vera e propria svolta iconica a caratterizzare la contemporaneità; una svolta iniziata, per Bohem, fin dal XIX secolo quando immagine e parola hanno cominciato ad integrarsi in un medesimo modello interpretativo. William John Thomas Mitchell (2008), nel suo libro Pictorial Turn, saggi di cultura visuale, sostiene che la straordinaria potenza del linguaggio delle immagini, unita alla sua diffusione nella cultura odierna, è tale da surclassare la lingua delle parole e la pratica del discorso, ed è dunque tempo di riflettere e comprendere l’importanza di questa svolta per le scienze cognitive e il generale per la riflessione antropologica sulla contemporaneità. Mitchell, ancora più di Bohem, usa la forza dell’universo iconico come un ariete per sostenere la necessità di abbattere “l’imperialismo della testualità” fondata sul primato del logos. Mitchell non sostiene, ovviamente, che si possa fare a meno della parola, ma esplora “le convenzioni e i codici che sottendono i sistemi simbolici non linguistici e, aspetto ancora più importante, non assumono il linguaggio come paradigma del significato” (Mitchell, 2008, p. 20).
Qui non si tratta di condividere necessariamente la convinzione di Bohem e di Mitchell riguardo all’autonomia semantica dell’immagine. L’idea di Iconic Turn (o Pictorial turn) si presta piuttosto a riaffermare la necessità di integrare immagine e parola in un medesimo modello interpretativo, non soltanto per le considerazioni antropologiche relative alla diffusione del linguaggio iconico nel mondo contemporaneo, ma anche in ragione dell'impossibilità di distinguere, oltretutto, dove finisce il ruolo dell’immagine e dove comincia quello della parola nell’attività di pensiero e di immaginazione, auspicando il radicamento di una sensibilità visuale (nella cultura e nell’educazione) non superficiale o di maniera e neppure riservata agli “specialisti”. Le sollecitazioni visive abbondano e, secondo alcuni, sono addirittura egemoni rispetto alla parola, ma è drammaticamente latitante la promozione e la diffusione di un sapere adeguato a decifrarle. Il rischio di una “dittatura iconica” non sta tanto nella diffusione sempre più consistente delle immagini ma in un inadeguato livello di competenza e di capacità critica dei suoi utenti.
Peraltro uno dei più suggestivi e interessanti stimoli alla riflessione sul rapporto parola-immagine nei processi di costruzione delle conoscenze e delle rappresentazioni ci viene proprio da un’opera d’arte visuale: Una tre sedie di Joseph Kosuth. Kosuth è considerato il capostipite della cosiddetta Arte concettuale, che appare per la prima volta riferito alla ricerca del gruppo anglo-americano Art & Language. Gli artisti appartenenti a questa corrente, sostengono che il valore e il senso dell’arte non risiede nell'aspetto dell’opera realizzata, ma nell'idea, nella parola o nel pensiero utilizzato per realizzare tale opera. Joseph Kosuth, anche nella sua veste di insegnante di materie artistiche, riflette e ci invita a riflettere sulla natura eminentemente linguistica e concettuale dell’arte. Per Kosuth non è la cosa prodotta ed esposta a essere “artistica”, ma è il discorso che si costruisce attorno ad essa a renderla tale. È questo il tema (e il senso) della sua prima serie di opere famose realizzate con tubi al neon, e della celeberrima installazione Una e tre sedie, costituita da una sedia, dalla foto in bianco e nero della stessa sedia a grandezza naturale e da un pannello sul quale è riprodotto il testo del lemma sedia tratto da un dizionario.
La sedia, ci suggerisce Kosuth, esiste e ne abbiamo coscienza perché, oltre a esserci indubitabilmente come oggetto, è riconducibile a un nome, a una descrizione, a un’immagine. Kosuth, che non si sa quanto consapevolmente sembra citare il Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein, si chiede (e ci chiede): se una cosa esiste in ragione della sua riduzione simbolica, ciò che risulta da tale riduzione è la cosa o, ben che vada, una parte di essa? Ciò che appare con chiarezza, anche se non è la risposta alla domanda implicita nell’opera, è che il lemma-logos del dizionario, pur limitandosi ad una descrizione funzionale e convenzionale dell’oggetto, induce però l’impressione di esaurirne qualità e caratteristiche, anche se questo non è vero perché non dice, per esempio, quali e quante infinite funzioni simboliche può avere una sedia quando un bambino la usa per giocare, né cita le infinite volte in cui, in molti film e in qualche situazione reale, l’oggetto in questione è utilizzato per fare “a seggiolate” in una rissa al bar. L’immagine, più ambiguamente onesta, svela esplicitamente di riprodurre un solo lato dell’oggetto e di essere portatrice della rappresentazione di una sedia particolare, facendoci immediatamente riflettere sul fatto che ci sono innumerevoli altri tipi di sedie. Ciò che appare evidente nell’interazione parole immagine è che essa svela la parzialità e la relatività di ogni rappresentazione che, pur nella logica che presiede la costruzione del protocollo verbale della sua definizione, appare comunque sostanzialmente una sineddoche, una parte, per quanto esemplare, dell’universo categoriale della “sedietà”.
Italo Calvino, riflettendo sul proprio lavoro di inventore di storie, scrive: “Possiamo distinguere due tipi di processi immaginativi: quello che parte dalla parola e arriva all'immagine visiva e quello che parte dall'immagine visiva e arriva all'espressione verbale” (Calvino, 1988, p. 93). Ed è sempre Calvino a farci notare come
nell'ideazione di un racconto la prima cosa che mi viene in mente è un'immagine e per qualche ragione mi si presenta come carica di significato, anche se non saprei formulare questo significato in termini discorsivi o concettuali […] sono le immagini stesse che sviluppano le loro potenzialità implicite, il racconto che esse portano dentro di sé. (Ibidem)
Per Italo Calvino pensare parole (per dirle, per scriverle) è un processo che dialoga costantemente con l’immagine visiva anche quando essa non è visibile nel testo: un racconto è spesso concepito a partire da un'immagine o da una serie di immagini nate nella mente dell'autore, e genera immagini nella mente del lettore o dell’ascoltatore.
Certamente uno dei prodotti culturali che da tempo, e con indiscusso e riconosciuto successo, pratica la collaborazione del linguaggio delle parole con quello delle immagini è quello del libro illustrato e in particolare dal cosiddetto albo (l’anglofono picture book). Mentre nel libro illustrato il testo letterario è autosufficiente ed è una scelta editoriale affiancare ad esso il valore aggiunto dell’illustrazione, l’albo è concepito e realizzato facendo interagire immagine e parole nella costruzione del testo narrativo, ed è dunque evidente come questa collaborazione fra codici sia preziosa per offrire la possibilità di interiorizzare, fin dalla prima infanzia, un repertorio visivo capace di trasformarsi in un immaginario visuale comune fra adulti e bambini all’interno della scena educativa. Scenari (il bosco, il mare, le mappe, i percorsi di viaggio e di avventura, le case e gli altri luoghi del rifugio e della protezione, ecc.) e personaggi (eroine ed eroi, i loro antagonisti e aiutanti, gli animali, gli esseri magici, gli alberi parlanti e gli altri oggetti animati, ecc.) scoperti come ingredienti dei racconti e capaci di diventare paradigmi figurali modelli condivisi della “visione del mondo”, risorse di rappresentazione e di confronto dialettico tra reale e immaginario, fra conscio e inconscio.
Dal punto di vista cognitivo, l’associazione parola e immagine e l’implicazione dei processi interpretativi connessi alla dimensione metaforica che caratterizza fortemente questo tipo di testi, aiuta a disimparare a riconoscere, come dice Lyotard (2008) perché fa scoprire che non esiste un modo giusto (e unico) di rappresentare visivamente qualcosa, ma esistono, per ogni rappresentazione, infinite possibilità. La varietà di stili e strategie illustrative con cui fin da bambini è opportuno venire a contatto e che consente di rendersi conto che quello di Cappuccetto Rosso non è il lupo, ma uno dei tanti lupi possibili. Un bambino che incontra il lupo di Kveta Pacovska, Lisbeth Zverger e Fabian Negrin si accorge prima o poi che il lupo non è un essere reale ma, per l’appunto, un personaggio simbolico, una figura.
Ciò a patto che genitori e educatori abbiano la competenza e il coraggio di scegliere e utilizzare, nel rapporto narrativo ed educativo, immagini complesse, raffinate e anche un po’ allarmanti, evitando stereotipi e banalità, purtroppo assai diffuse, tipiche di quella che Antonio Faeti definiva “estetica disneyana riduttiva, falsamente consolatoria, estremamente collegata al medium cinematografico e già capace, fin dall’origine, di anticipare il senso di quello televisivo” (Faeti, 1974, p. 9). Ciò che va cercato e raccomandato, invece, è l’incontro di parola e immagine come occasione per dilatare lo spazio interpretativo, com’è proprio della metafora, superando l’illusoria oggettività della denotazione che spesso non invade soltanto l’universo delle parole ma anche quello delle immagini. È ancora Antonio Faeti, nell’introduzione al volume Guardare le figure, a ricordarci come non ci sia più quel figurinaio al quale egli rivolge l’analisi contenuta nel suo libro. Il figurinaio era, per Faeti, un artista popolare che creava le sue immagini all’interno del gusto e della cornice estetica propria del feuilleton, del santino, del senso estetico e dell’immaginario popolare, ma era per questo capace “di guardare l’infanzia sempre con gli occhi di Wilhelm Busch o con quelli di H. Hoffmann: non esitava a spaventare i bambini, non rimuoveva i corposi fantasmi di una antipedagogia popolare, bizzarra e saturnina” (Ibidem, p. 10).
Perché l’auspicio di Lyotard e di Faeti possa realizzarsi grazie al processo di lettura e condivisione delle pagine di un albo illustrato, occorre dunque che le illustrazioni rimangano complesse, anche inquietanti, disponibili a farsi scoprire, a ogni lettura e rilettura, dotate di qualche aspetto o dettaglio che ci era sfuggito. Dovrebbero cioè mantenere, pur nelle differenze tecniche ed estetiche che hanno inevitabilmente caratterizzato l’evoluzione dell’universo delle figure, le peculiarità originarie e tipiche del lavoro del figurinaio, il quale “autentico ‘pifferaio di Hamelin’, trascinava inspiegabilmente i bambini, attratti da immagini remote, che essi non riuscivano a decifrare interamente” (Ibidem). La diversità dei due linguaggi (parole e figure) richiede strategie differenti di lettura. Dalla loro interazione nasce un inedito e particolare tipo di comunicazione, un nuovo linguaggio che non è la semplice somma dei due originari ma è quello specifico dell’albo illustrato. Non dimentichiamo che l’illustratore non è un semplice disegnatore e/o pittore: collabora con altri (l’autore del testo linguistico, l’editore, il grafico, il redattore, ecc.) alla costruzione di un prodotto complesso in cui l’immagine non è soltanto rappresentazione, ma è anche invito a partecipare al lavoro di invenzione-interpretazione di una storia attraverso un linguaggio fatto di immagini e parole che ha una sua autonomia e originalità. Un linguaggio che, non a caso, è quello con cui ricordiamo e ri-costruiamo i nostri sogni. L’illustrazione, come ogni immagine, ha un’infinita capacità di aggiungere elementi alla narrazione, moltiplicando e valorizzando la complessità della lettura.
Il congegno metaforico non riguarda, dunque, soltanto il linguaggio verbale. Questo sia perché, come abbiamo già visto, abbiamo accompagnato il concetto di metafora fuori dall’ambito esclusivamente linguistico per fargli occupare lo spazio delle riflessioni sulla conoscenza e sullo scambio simbolico in ambito psicologico, in quello delle scienze cognitive, in quello della semiotica ecc. Possiamo, dunque, parlare di metafora anche all’interno dell’area del linguaggio visuale, sia perché, soprattutto nell’arte del ’900 e nella pubblicità, esistono immagini che si basano su un meccanismo metaforico, sia perché la decodifica della maggior parte delle immagini, a meno che non siano intenzionalmente prodotte con intenti esclusivamente denotativi, come quelle che accompagnano testi scientifici, ha bisogno, insieme allo sguardo, di una riflessione verbale che si serve comunque delle funzioni e delle procedure proprie del pensiero analogico.
In altri termini, non si tratta di dire che esistono anche metafore visive (all’interno dell’universo del visivo bisognerà distinguere i sistemi figurativi, quelli gestuali e così via) o che esistono anche – forse, metafore olfattive o musicali. Il problema è che la metafora verbale richiede spesso, per essere in qualche modo spiegata nelle sue origini, il rinvio ad esperienze visive, auditive, tattili, olfattive. (Eco, 1984, p. 143)
Roberto Farné (2002) compie una preziosa analisi sull’uso dell’immagine in educazione in una rassegna storica che va dall’Orbis sensualium pictus di Iohannes Amos Comenius (Comenio) al televisivo Sesame Street, facendoci notare come figurine, immagini televisive, abecedari illustrati, fumetti, cartoon, siano stati da secoli utilizzati con intenti educativi e non di rado esplicitamente didascalici. Farné esamina lo storico pregiudizio, ancora diffuso malgrado studi e ricerche lo abbiano convincentemente sbugiardato, secondo il quale le immagini costituirebbero un dominio simbolico rudimentale e infantile, contrapposto al superiore e raffinato universo delle parole. Ma proprio i molti prodotti destinati all’infanzia che vedono la collaborazione di logos e icona ci dimostrano il contrario.
Non esiste dunque, dal punto di vista pedagogico, l’infantilismo delle immagini contrapposto alla maturità della lettura, ma una continuità di esperienze di lettura che si integrano e si fondono l’una nell’altra arricchendosi reciprocamente. […] Leggere è fondamentalmente percorrere e penetrare con gli occhi, per decodificarlo, un insieme di segni-figure posti di fronte al nostro sguardo: esiste la lettura di una poesia e la lettura di un quadro, di una carta geografica e dei segnali stradali, si può leggere una partitura musicale e si può… leggere la mano. In ognuno di questi casi esistono processi specifici di alfabetizzazione. (Farné, 2002, p. 125)
Il rischio che l’immagine banalizzi il messaggio che veicola c’è proprio quando manca l’alfabetizzazione a cui Farné (2002) fa riferimento, perché il soggetto, adulto o bambino, scarsamente competente degli alfabeti visuali tende a scegliere immagini banali, perché gli sembrano più “semplici”, e interpreta in maniera rudimentale quelle più complesse, quando non riesce a evitare il contatto con esse. La scarsa frequentazione che l’arte aniconica del ’900 ancora raccoglie, a fronte delle frotte di visitatori che visitano le mostre ritenute (a torto) più facili da fruire quando gravitano nell’area della figuratività è rivelatore della diffusa ignoranza visuale del popolo italiano. E questa è davvero una carenza grave, non solo perché il ricco patrimonio delle arti visuali parla a pochi eletti, ma anche “le raffigurazioni cui abitualmente attribuiamo una funzione strettamente didattica possono offrire all’osservatore suggestioni visive impreviste, che portano la sua immaginazione molto al di là del contenuto figurativo” (Ibidem, p. 135).
3 Figure
Spesso il pensiero si serve di immagini che si disperdono diventando linguaggio. Ci sono invece occasioni in cui il linguaggio delle parole si serve di immagini citandole e dichiarando quindi la sua dipendenza da esse per esplicitare i contenuti dei suoi processi rappresentativi: è questo il caso dell’elaborazione figurale, di quando cioè cultura e linguaggio generano figure. Figura è un termine che può assumere differenti significati: spesso è sinonimo di illustrazione nell’ambito della letteratura per l’infanzia (guardare le figure…), aspetto esteriore di un corpo umano (una figura snella…), esito di un comportamento adeguato o inadeguato rispetto a un contesto (fare una bella o una brutta figura…). Per noi, in questo contesto di riflessione, le figure sono metafore consolidate e immagini ricorrenti capaci di uscire dallo specifico in cui si sono generate e di assumere funzioni chiarificatrici e paradigmatiche, spesso creando ponti e vie trasversali fra differenti ambiti della conoscenza. L’albero, nella sua definizione più semplice, è una pianta perenne con fusto legnoso (tronco) ramificato, ma è anche albero genealogico, albero motore, albero maestro in una barca a vela, albero della cuccagna nelle antiche feste di paese… Albero è dunque un’idea figurale, un concetto visivo capace di attraversare ambiti e saperi e di intervenire nella descrizione e nella comunicazione non solo come elemento chiarificatore da punto di vista semantico, ma come indicatore di una direzione di senso nella quale interpretare un enunciato. Le figure geometriche sono a loro volta capaci di unificare percettivamente e idealmente e rendere condivisibili oggetti e concetti. La figura geometrica consente di collocare e “vedere” all’interno dello stesso raggruppamento concettuale varie realtà e idealità: la figura del triangolo permette di vedere e descrivere una montagna, una piramide, una squadra da disegno, un segnale stradale di pericolo, persino un formaggino.
Le narrazioni (mitologiche, fiabesche, letterarie, teatrali, cinematografiche, fumettistiche…) creano da sempre figure capaci di trasformarsi in paradigmi affettivi e valoriali. Babele è diventata figura del caos linguistico e ricorre, oggi più che mai, nelle descrizioni dell’odierna situazione multiculturale. Linus di Charles Schulz, con la sua coperta, è diventato figura universale del fenomeno della transizionalità scoperta e definita da Donald Winnicott.
La figura è una forma che rende fra loro riconoscibili e riconducibili a un modello paradigmatico, stabilisce fra diversi oggetti, fatti o persone un nesso in cui ciascuno non rappresenta soltanto sé stesso, ma anche altro, e l’altro è ciò che aiuta a comprendere. Ma è anche stimolo a sviluppare percorsi di pensiero logico e analogico capace di esplorare, mettersi alla prova, sperimentare, senza correre il rischio di perdersi, perché il legame al paradigma figurale lo aiuta a non perdere il “filo del discorso” (altra figura potente ed efficace) e la coerenza concettuale. Secondo la concezione ermeneutica il figurale corrisponde al tipologico, dal greco Typos che corrisponde al latino Figura. Un sapere figurale è quello che si serve di riferimenti che, nati e consolidati attraverso un procedimento metaforico, divengono consolidati, se non stabili, della descrizione e della comprensione. Una figura, per essere tale, non può riguardare la sfera soggettiva: deve essere necessariamente condivisa, anche se l’ambito intersoggettivo della sua condivisione può essere, ovviamente, molto più circoscritto di quello relativo agli esempi fino ad ora presentati. La pratica di cui sto sottolineando l’importanza, sia in ambito educativo che nell’esercizio dell’autoformazione, consiste proprio nel cercare, fra l’universo dei repertori visuali e verbali, entità concettuali capaci di assumere il ruolo figurale all’interno dell’universo relazionale di ciascuno. Ciò permette di conseguire un triplice risultato: da un lato di mettere a disposizione di sé e dei propri interlocutori nuovi paradigmi della rappresentazione di quel contenuto eidetico, dall’altro di restituire al contenuto in oggetto plasticità e profondità, riannettendolo, attraverso la risorsa analogico-metaforica, alla sfera dell’interpretabilità e della negoziabilità di senso e significato, liberandolo della fissità, o peggio della stereotipia, in cui rischierebbe di rimanere incagliato qualora la sua accezione fosse circoscritta alla dimensione del logos e infine di far accedere l’operazione all’interno della dimensione estetico-emozionale accanto e in collaborazione con quella logico razionale, contribuendo all’incremento della competenza emotiva. Cerchiamo di chiarire con un esempio questa affermazione esaminando un concetto delicato e rilevante come quello del dolore.
Osserviamo dunque come il dolore viene visivamente proposto in cinque opere di maestri di epoche differenti: Michelangelo Merisi detto Il Caravaggio (Ragazzo morso da un Ramarro, 1595), Pellizza da Volpedo (Ricordo di un dolore o Ritratto di Santina Negri, 1889), Edward Munch, (L’urlo, 1893), Francisco Goya, (Cristo crocefisso, 1780), Giorgio Diritti. Con il personaggio di Martina (Greta Montanari) nel film: L’uomo che verrà Italia 2009. Questi quattro soggetti dipinti, insieme al personaggio cinematografico, sono pronti a diventare figure di cinque diverse accezioni del dolore: il dolore come emozione, nel ragazzo morso da un ramarro dove Caravaggio ci mostra, non senza ironia, la sorpresa improvvisa di un dolore fisico, in cui protagonista, stupito, sembra stia smoccolando senza ritegno. La Santina Negri di Pellizza da Volpedo ci mostra l’immagine di un dolore elaborato, di un sentimento doloroso richiamato alla memoria dalla lettura di qualcosa, forse una lettera, che la induce alla malinconia. L’urlo di Edvard Munch rappresenta figuralmente un dolore esistenziale, strutturato profondamente all’identità dell’autore e alla sua condizione di follia, mentre il dolore rappresentato da Francisco Goya nella sua Crocefissione è simbolico e universale, e nella tradizione cristiana veicolo di redenzione e di salvezza dell’umanità. Martina, nel film di Giorgio Diritti, soffre di una forma di afasia da trauma dopo la perdita di un fratellino. Tace e il suo è un silenzio estremo, la “scelta” di non parlare di fronte alla consapevolezza della finitudine e della mancanza di senso della vita umana. Un trauma che la guerra amplifica a dismisura, oltre ogni soglia di tollerabilità. Ma quando la bambina resta sola con l’ultimo fratellino neonato, dopo la morte di tutti i famigliari nella strage di Marzabotto, la voce sottile di Martina rinasce e sussurra una ninna nanna al bambino che tiene in braccio. La figuralità dilata lo spazio semantico della parola dolore, diviene linfa potenziale, occasione di riflessione, di mediazione e scambio di senso e di significato, di riflessione sugli infiniti modi del suo essere parte costitutiva della condizione umana. L’interiorizzazione in funzione figurale di queste immagini consente a chi ne condivide suggestione e profondità di avere a disposizione quella dimensione del come… che caratterizza lo spazio di libertà cognitiva ed emozionale del pensiero analogico-metaforico e consente di accedere al livello che Merleau-Ponty ha definito surriflessione. La costruzione di figure, nella mente, vede sempre la collaborazione del linguaggio delle parole con quello delle immagini.
L’idea di figura, dunque, così come sto proponendo di intenderla, è molto simile a quella di metafora assoluta di Blumenberg, ma mentre quella si riferiva a produzioni che abitano esclusivamente l’area verbale, la figura può essere verbale, visiva, o secondo la definizioni degli appartenenti alla corrente artistica denominata Poesia visiva, verbovisuale. Concetti e figure, affiancandosi e dialogando, costruiscono un sapere attento sia alla dimensione logica che a quella analogica, sia alle esigenze di tipo concettuale e razionale che a quelle estetiche e affettive. Peter Sloterdijk (2015) cerca di oltrepassare il linguaggio tramite il linguaggio (i linguaggi), praticando variazioni e sperimentazioni alfabetiche capaci di darci nuovi e originali strumenti di pensiero e rappresentazione. Sloterdijk propone di trascendere il concetto di arte come mestiere dell’artista e di conquistare, praticandolo, il concetto di Arte del vivere, unica possibilità per difenderci dai rischi di un’epoca di imbarbarimento e di trionfo della rozzezza e della brutalità.
La poesia visiva è un movimento di ricerca artistica caratterizzato da opere basate sulla collaborazione di linguaggio visivo e verbale. Gli artisti verbovisuali appartenenti al movimento, attivo soprattutto negli anni sessanta e Settanta, non si limitavano a produrre opere-oggetto (quadri, disegni, collage…) ma occupavano gli spazi simbolici del teatro, della performance, dell’installazione. Rubando a quotidiani, rotocalchi, manifesti e fumetti parole e immagini e utilizzando spesso la tecnica del collage i poeti visivi mettono in discussione il mondo stesso da cui provengono evidenziandone le contraddizione insita nella distinzione fra arte visuale e poesia, ma anche fra il pensiero artistico-poetico e quello saggistico-argomentativo perché, affermano implicitamente, parole e immagini sono indissolubilmente legate nel pensiero umano, e l’emozione poetica può benissimo collaborare e convivere con la consapevolezza filosofica, politica, eidetica.
Con il termine poesia visiva si intendono dunque tutte le forma di contaminazione fra immagine e parola praticate nella seconda metà del 1900 dal movimento dei Lettristi francesi, dagli autori della poesia concreta nata in ambienti brasiliani e svedesi e dall’esperienza delle Parolelibere dei futuristi. Un’esperienza che spesso si contamina con quella della Land art, dove piccole opere realizzate su supporti che potevano circolare attraverso il circuito postale, per lo più del formato cartolina, vengono scambiati fra artisti o indirizzati dagli autori a se stessi, come pagine di un diario mobile verbovisuale. Lucia Marcucci, nel 1975, usa il linguaggio della poesia visiva per offrirci un altro esempio di figuralità dolorosa derivante da una delusione d’amore: spalma viso e busto con il colore nero e, appoggiando volto e seni su un foglio, lascia l’impronta del proprio corpo. Ruba una frase al poeta francese Stéphane Mallarmé: il mio cuore rinuncia al suo passato, e aggiunge, di suo, stanco di battere tra i singhiozzi.
Elena Ferrari sottolinea come
la Poesia Visiva fa uso di elementi verbali e visivi tratti dalla vita. La sua ragion d’essere risiede nella sua componente logo-iconica e nel significato veicolato attraverso la commistione di convenzioni grafiche e iconografiche: la parola non è mai didascalia dell’immagine o viceversa, in un rapporto di interazione e fusione nel contesto poetico. (Ferrari, 2015, p. 127)
Per Lamberto Pignotti, artista e teorico del movimento, la poesia visiva ha compiuto una serie di riesami e riscoperte dalla cultura alfabetica occidentale che ha un lungo processo di semplificazione (ma anche di impoverimento) attraversando le esperienze dei pittogrammi, degli ideogrammi, della scrittura poetica e letteraria. “La sperimentazione verbo-visuale affonda le sue radici nella poesia figurata dell'antichità classica e del medioevo, e anche nel corso dell'Età Moderna si sono registrati ricorsi all'artificio grafico, al non-sense linguistico-letterario e alla visualizzazione fisica del testo poetico” (Pignotti, 1972, p. 73). Gli artisti che aderiscono a questo progetto tentano di compiere una riunificazione dei linguaggi dell’arte, ricucendo le lacerazioni compiute dalla storia e dalla cultura dell’occidente, perché, a loro avviso, “fra Letteratura e Arti visive, fra Pagina e Quadro, fra Parola e Immagine, non ci sono frontiere precise e neppure occasionali sconfinamenti, ma piuttosto sistematiche sovrapposizioni e integrazioni nel segno della continuità” (Stefanelli & Pignotti, 1980, p. 9-10).
Anche il termine artista è messo in discussione dai partecipanti a questo movimento che preferiscono la definizione Lirico. Questo sperimentare nuovi modi di usare le nostre risorse simboliche, che i seguaci della poesia visiva ci propongono con la loro opera, ma soprattutto con le loro biografie, è molto vicino al suggerimento di Peter Sloterdijk (2015), e si configura, se non come traccia metodologica precisa, certo come esempio attendibile di elaborazioni metaforico-figurali di cui, chi fa il mestiere di educatore o insegnante, potrebbe utilmente tenere conto perché ciascuno possa avere l’opportunità di trovare quel mazzo di tarocchi che ha restituito parola e coscienza di sé ai pellegrini della Taverna dei destini incrociati.
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