Chiudendo il testo L’educazione in ostaggio. Sguardi sul carcere (Ed. FrancoAngeli, Milano, 2017) Elisabetta Musi scrive: “Là dove il timore del fallimento non tiene in ostaggio la speranza nel divenire umano, inizia l’educazione” (p. 173).
Certamente il carcere è uno dei luoghi nei quali l’educazione incontra e attraversa l’ombra e l’incertezza. Non può affidarsi solo a slanci salvifici né all’applicazione di didattiche e impianti metodologici. Incrocia e si lega al dramma dell’umano: nel confronto con il male, con la difficile scelta, con la verità di sé, con l’ambivalenza, con la distruttività. Quindi con la “notte oscura” nella quale può darsi che non sia nascita, nuova nascita. Ma anche con la libertà, una nuova attesa.
In carcere chi prova a stabilire relazioni educative è messo alla prova: qui si resiste e si resta per capacità di attestazione. E per tessere trame di speranza e circuiti di responsabilità (così diceva Gaetano De Leo), per riaffermare il valore del legame reciproco: della “alleanza in uno scenario generale di disalleanze” (p. 138).
Fare incontrare (per riflettere e lavorare insieme in gruppi di discussione e di scrittura) studenti, insegnanti e cittadini con persone detenute è costruire un contesto di vita particolare ed inedito. Contesto nel quale scoprire e maturare dimensioni e forme del “rendere giustizia”. Di questo si parla nel libro.
Chi entra nei luoghi dell’esecuzione penale viene da una convivenza che porta in sé le ferite e le offese arrecate dai reati: con la sua sola presenza, a volte con le sue parole chiede conto, chiede ragione. Cerca una verità ulteriore rispetto a quella giudiziaria. Ma chi entra porta anche responsabilità: quelle di una convivenza responsabile verso vittime e verso gli autori di reato; quelle dei conflitti, delle zone d’ombra e delle ingiustizie diffuse, dolorose. E a queste responsabilità viene richiamato nell’incontro con le persone della pena e della colpa.
Ogni intervento formativo, ogni relazione educativa e di cura in carcere apre dunque contraddizioni, anche sofferte, e a volte cammini. Disegna una risposta al reato, ed all’offesa, ulteriore rispetto alla sola punizione. Chi ci entra deve giocare sé, ed essere disposto a esporsi e a ritrovarsi in una inquietudine generativa, in una sorta di “destabilizzazione” (p. 23-ss). Musi parla di “cedevolezza dei confini” necessaria per aprire spazio alle voci che, pur partendo da lontano, sfidano l’estraneità reciproca, per dare vita ad esperienze (che sono “confronto sempre un po’ arrischiato con una umanità sofferente e scomoda” (p. 39).
Partecipare agli incontri vuol dire riprendere un cammino di formazione fuori da una logica premiale, come attenzione e cura da parte di una società, di una convivenza che pure punisce. Senza merito, ed al di là del merito: per dignità, per il valore proprio di uomini e donne unici, di cui una convivenza ha cura perché li considera importanti, affidati, coinvolti nel legame. Verso di essi (e con loro) si vuole ritessere un circuito di responsabilità.
Chi incontrano in carcere gli studenti, gli insegnanti, i formatori, le figure educative e di animazione culturale? Incontrano uomini del reato e della pena, a volte con un profilo personale, ed uno spazio interiore che si è disegnato a partire dalla forza “ordinatrice” e attrattiva del reato. Altre volte sono uomini (e donne) presi dal lavorio della colpa, dal peso della frattura provocata nella storia loro e dei loro familiari. Spesso con le loro risorse personali tutte spese nel reggere le condizioni pesanti della vita detentiva, nell’attenuare sofferenza e fatica relazionale, nell’elaborare narrazioni segnate dalla giustificazione.
Quelle degli studenti e dei formatori rappresentano delle figure particolari per chi è ristretto; figure distinte da quelle dei familiari e dei più prossimi e diverse dalle figure del controllo, del giudizio, dell’amministrazione. Potremmo dire delle “figure terze”: ma essere delle figure terze non vuol dire essere figure di consolazione o di comoda complicità. Invitare ad una seria ed esigente cura di sé vuol dire chiedere molto, in un contesto come quello carcerario, ed in rapporto a biografie come quelle dei detenuti. Chiede un nuovo rapporto di sé a sé, fatto di ascolto attento, di accettazione dei limiti e delle parti fragili e malate, di attenzione alle proprie risorse, e competenze. Oltre alibi, paure, sfiducie, nascondimenti, ambivalenze. Sentire sé più a fondo può fare emergere un sentire l’altro, anche l’altro offeso o che soffre, in modo più chiaro.
Delineando una autonomia, una libertà ed una responsabilità inevitabilmente e delicatamente relazionali. Vivendo l’esperienza del lasciarsi guardare, anche dallo sguardo del giudizio: con il quale fare i conti, e dal quale prendere le distanze, con altri e per altri. Soprattutto attraverso un vivere di nuovo, e nuovi, concretamente aprendo un tempo a venire in nuove riconfigurazioni di affetti, dedizioni, espressività e ruoli di responsabilità. Anche nei confronti delle vittime, dirette e indirette.
Il carcere mette alla prova lo sguardo pedagogico, così come lo intende Piero Bertolini, E, pure, può ospitare alcune novità, alcune “crepe”, capaci di rappresentare quelle che Michel de Certeau chiama fratture instauratrici.
Il testo di Elisabetta Musi non mira ad analizzare criticamente il dispositivo carcerario, né a proporre dispositivi dell’esecuzione penale efficaci nella riabilitazione o nel recupero. Ospita, piuttosto, la modulazione delle voci e le narrazioni prodotte dall’incontro tra persone recluse e studenti universitari, operatori volontari mostrando come questo incontro possa aprire “fratture instauratrici” e cammini. Anche attese di riparazione, non solo di riscatto. “La voce non copre il lato nascosto della persona come potrebbe fare una maschera. La voce sporge fuori, esce fuori, si incammina inevitabilmente verso l’altro, lascia comunque una traccia”: così scrive Maria Inglese nel suo contributo (p. 67).
Servono esperienze che operino una rottura: la risposta al reato va cercata nell’istaurazione d’altri cammini sui quali ritrovarsi (potere scegliere di ritrovarsi), in esigenti luoghi educativi e d’apprendimento, in relazioni e contesti che rappresentino vere e proprie “operazioni configuranti” nuovi racconti – concreti, possibili e desiderabili – del vivere. Di tali “rotture” possiamo tratteggiare alcuni caratteri.
Le occasioni di confronto con esperienze e storie di vita, con biografie di giovani ed adulti di diversi contesti sociali o formativi può fare scoprire l’appartenenza ad una “comune umanità”. Fatta di tensioni interiori, di speranze e disillusioni, di fatiche e di desideri, anche di esperienze di rottura o di relazioni dure e conflittuali simili alle proprie, certo non estranee. E pure ridisegnate in storie personali dalle scelte e dagli esiti diversi, origine di decisioni e di orientamenti costruttivi o capaci di resistenza.
L’incontro di narrazioni (come quello che si compie anche in esperienze di mediazione penale) apre certo anche fratture, schiude le narrazioni stesse, ne obbliga risignificazioni. Se ne possono così individuare elementi di incompiutezza, di distruttività, di non trasparenza, anche di insensibilità, ma si possono intravedere spiragli di esercizi di responsabilità, di ricostruzione, di superamento da assumere, dentro di sé, come di fronte ad uno specchio.
Una seconda possibilità di “rottura instauratrice” può essere rappresentata dalla necessità di rideclinare le relazioni con i propri mondi familiari in condizioni di distanza e di separazione. Paternità, maternità e filialità vengono lesionate, a volte atrofizzate eppure possono essere riprese in percorsi di risimbolizzazione affettiva e di nuovo orientamento di valore. Nella conquista che chiede fatica di credibilità personale e senso della consegna, di capacità di indicare itinerari positivi di vita, anzitutto praticati nei giorni del proprio riscatto e dello sforzo di riconciliazione.
Può ben rappresentare, inoltre, una rottura anche l’incontro con occasioni di ripresa di lavoro su di sé come è nell’esperienza scolastica, formativa, o anche in quella terapeutica. Occasioni caratterizzate da percorsi che perseguono obiettivi collocati nel futuro, in relazioni con operatori che offrono credito ed esprimono attese. Occasioni che ridanno respiro al tempo, al progetto di vita, ad un nuovo rapporto con una promessa di vita.
Inoltre può essere “rottura instauratrice” anche l’incontro con la mitezza che è, insieme, non violenza e richiamo esigente alla verità. Mitezza di donne e uomini seri e giusti, che fanno bene il loro lavoro, di giovani che incontrano l’altro “nel suo momento”, con rispetto pieno e trasparenza di intenzioni.
La sorpresa della mitezza, e della offerta di attenzione e sollecitudine “immeritata”, possono forse portare fuori da dinamiche di negoziazione, di calcolo di convenienza. In una relazione nella quale non si chiede giustificazione, né si chiede pentimento o ammissione di colpa come condizione di partenza, il gioco dell’esposizione può essere un poco rischiato.
Certo avrebbe forza grande, come “rottura”, anche l’incontro con condizioni di fragilità, di minorità, di malattia, di dipendenza, di debolezza irriducibile, coinvolti nella concreta costruzione di risposte di cura e di salvaguardia, di attenzione e di difesa della dignità e dei diritti; tutto ciò può riportare a contatto con situazioni nelle quali la vita è prova, e conquista, è prossimità e reciprocità. Dove si è chiamati a una presenza, eletti e presi in un’obbligazione direbbe Lévinas: provocazione e salto di piano, messa alla prova e ridislocazione.
Reggere un percorso pedagogico che accompagna nella “zona grigia”, che permette di attraversare l’ombra, è complesso e chiede un continuo lavoro riflessivo. Chiede agli educatori di “lavorare a se stessi” con forza e trasparenza: se non chiariscono cosa li muove ed i loro “atti interiori” non potranno accompagnare e tenere aperte le domande. Quelle coraggiose da far maturare a chi ha agito violenza, attivando percorsi che non lascino margini ed alibi, giustificazioni e strategie di evitamenti cognitive e sociali, fughe nel disimpegno morale.
L’approccio che in queste pagine si prova a delineare non ha valore solo per i rapporti interpersonali, per la relazione tra autori di reato e vittime, o tra persone detenute, familiari, operatori della giustizia e dei servizi. È un approccio che vuol mantenere una forte attenzione alla dimensione sociale. È la società che deve sentire ciò che il reato e la condizione della vittima svelano anche delle sue interazioni. Ciò che svelano e ciò che richiamano di una sua capacità rigenerativa.
La generatività di un incontro è scoperta e attesa non facile da sostenere. Specie se prova un nuovo inizio dalla frattura di un legame: come è per gli uomini (e le donne) della colpa e della pena, ristretti in un penitenziario. Ma anche per giovani donne e giovani uomini che vanno definendo nell’incertezza il loro profilo personale, professionale e civile, (“a cielo aperto” scrive Laura Boella ne Il coraggio dell’etica) durante gli anni degli studi universitari.
Il testo dedica uno spazio ampio alla genitorialità in carcere ed ai percorsi per sostenerla (Parte seconda “Ricominciare dagli affetti e dalle cura delle relazioni”). Si entra, qui, su un terreno delicato e difficile: si richiamano “legami che opprimono” e “legami che affrancano” (p. 132-ss) si parla di incontri con lacerazioni e fratture dolorose, della “tentazione dell’immaturità” (p. 135), del circuito tormentoso di alleanze e abbandoni, tradimenti e nostalgie, desideri e disimpegno morale. Anche qui ci si trova sulla soglia di una verità da conquistare, e che intimorisce.
Sì, l’educazione può restare in ostaggio: della paura di rivelare sé a sé, della fuga dall’incontro che inquieta e muove, dello sprofondare nel risucchio di un destino senza attese. Anche del rassicurante e sordo perpetuarsi di un approccio “rieducativo” senza respiro. Ma il libro di Musi mostra che la vita che incontra la vita è più forte, che la verità della presenza e della prossimità anche in carcere apre a una relazione educativa nella quale prende forma nuova il tempo.