Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education. Vol.22 n.51 (2018)
ISSN 1825-8670

Editoriale

Roberto FarnéUniversità di Bologna (Italy)

Pubblicato: 2018-07-30

Studiare e lavorare

La Costituzione della Repubblica italiana ha appena compiuto 70 anni, essendo entrata in vigore il 1° gennaio 1948; c’è chi sostiene che sia una delle più belle Carte costituzionali in Europa, e anche oltre. Certo è che i principi su cui fonda e che furono il risultato di un lavoro di mediazione di altissimo profilo tra le culture politiche che hanno fatto sorgere la democrazia dalle macerie della guerra e del fascismo, esprimono una intensità di valori e di tensioni a cui si dovrebbe ispirare tanto la politica quanto l’educazione politica.

L’incipit della Costituzione recita, come è noto, “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”; non dice che è fondata sulla scuola o sull’istruzione, ma sul lavoro, toccherà agli articoli 33 e 34 affermare il diritto allo studio, l’istruzione obbligatoria, la libertà di insegnamento ecc.

Con ciò, ovviamente, non si vuole affermare che la scuola ha un valore secondario o accessorio, tutt’altro: essa dovrebbe formare il cittadino ad assumere il lavoro, qualsiasi tipo di lavoro utile alla società, come un “orizzonte di senso” a cui tendere per sentirsi a pieno titolo cittadino soggetto di diritti (e di doveri), e a cui l’istruzione, attraverso la scuola pubblica primariamente, dovrebbe dare un fondamentale contributo. In altre parole, se il lavoro è ciò su cui si fonda la nostra comunità civile, allora la cultura del lavoro e l’educazione al lavoro dovrebbero costituire il sostrato pedagogico di tale impianto.

In realtà non è così: la nostra scuola si configura come un lungo periodo di almeno nove anni, dall’infanzia fino all’adolescenza, in cui la formazione non solo è completamente alienata da ogni esperienza che si possa definire “lavoro”, ma la cultura del lavoro nelle sue varie espressioni non è presente. È come se la scuola avesse il compito di “proteggere” i bambini e i ragazzi dal lavoro, anziché di educarli e avviarli al lavoro.

Il risultato di questa pedagogia ha la sua evidenza nella concezione ampiamente diffusa per cui “se non sei bravo a scuola, adatto a studiare, allora vai a lavorare”. Il lavoro assume così una concezione svalutativa e residuale, una sorta di “destino” a cui il soggetto arriva come per caduta, per scarto rispetto allo studio. Si tratta ovviamente di quelle dimensioni del lavoro ascrivibili per lo più all’ambito di “arti e mestieri” basati sulla manualità. Alla fine del ciclo dell’obbligo avviene la selezione, segnata per lo più dal fallimento nel primo anno di scuola secondaria superiore o dal basso rendimento alla fine della scuola secondaria inferiore, quella “scuola media” ampiamente riconosciuta come l’anello più debole del nostro sistema scolastico (nulla è stato fatto dopo l’uscita nel 2011 del Rapporto sulla Scuola Media, pubblicato dalla Fondazione Giovanni Agnelli, che fotografava alla luce di dati empirici, le forti criticità e la fragilità di questo segmento scolastico; fragilità ulteriormente confermata dai dati OCSE-PISA).

In base al noto adagio pedagogico “Se non sei adatto a studiare allora vai a lavorare”, il risultato è che “per caduta”, appunto, i ragazzi e le ragazze quindicenni approdano negli istituti tecnici prima e, se anche qui falliscono all’inizio del loro ciclo, nella formazione professionale. Insomma, se la nostra Repubblica è fondata sul lavoro, non lo è la sua scuola, che tratta il lavoro come una sorta di deriva formativa per coloro che a vario titolo falliscono nella scuola, quella con S maiuscola. Eppure, giocando un po’ paradossalmente sull’incipit della nostra Costituzione, suonerebbe pedagogicamente inconcepibile l’affermazione al contrario: “Se non sei bravo, interessato al lavoro, allora vai a studiare”? Perché? Se lo studio e il lavoro non sono in una scala gerarchica di valore. I danni di questo impianto pedagogico che svilisce tutto ciò che è manualità e tecnica (come avviene con le dimensioni del corpo e del movimento) sono incalcolabili: spreco di risorse umane, incapacità di aiutare un soggetto nell’età dello sviluppo ad orientare le proprie scelte, perdita di professionisti in vari ambiti di mestieri soprattutto artigianali.

Una ulteriore distorsione è l’idea che il ruolo e l’identità professionale e sociale di un artigiano o di un operaio, nei vari ambiti in cui possono esercitare le loro competenze, sia di rango inferiore a quella di chi esercita un “lavoro intellettuale” o di un professionista approdato al proprio mestiere dopo un lungo ciclo di studi liceali e universitari. Salvo poi accorgersi che di quelle professioni manuali, artigianali ecc. non solo abbiamo tutti bisogno, ma pretendiamo che vengano svolte “a regola d’arte”, secondo una locuzione nata nelle Corporazioni di Arti e Mestieri del medioevo e rimasta tutt’ora nel diritto privato, seppure non normata, laddove il prestatore d’opera è tenuto a specificare per ciò che riguarda l’esecuzione del suo lavoro: “secondo le condizioni stabilite dal contratto e a regola d'arte”.

Se pensiamo al successo nel mondo del cosiddetto “Made in Italy” nei vari campi in cui si applica questa etichetta, e alla sua storia nell’ultimo mezzo secolo, ci accorgiamo che i protagonisti di tale successo sono state (sono) persone dotate di fervida intelligenza applicativa, capaci di tenere insieme ideazione, progettazione, realizzazione. La loro cultura creativa, che si trattasse di fare un motore, un vestito, un vino ecc. risentiva certo della scuola come substrato formativo, ma anche, forse soprattutto, dell’aver frequentato/praticato i luoghi di lavoro e le persone che costituivano degli “incubatori” di un fare-pensare carico di suggestioni.

Il nostro sistema scolastico ha disarticolato completamente lo studio dal lavoro: nelle nostre scuole, se si esclude la scuola dell’infanzia, almeno quella che non ha dimenticato la lezione di Maria Montessori, non vi è alcun tempo dedicato a svolgere attività che abbiano a che fare con “lavori manuali” i quali richiedono una certa intelligenza applicativa e organizzativa, essendo finalizzati ad ottenere un risultato concreto. Anzi, di tutto si fa per tenere lontani bambini e ragazzi da questo genere di esperienze, sollevando problemi di sicurezza, di responsabilità, di rischi vari ed eventuali… In alcune scuole, soprattutto secondarie, il “lavoro socialmente utile” viene praticato come forma di punizione/risarcimento da parte di chi compie atti gravi nei confronti della scuola (violenza, vandalismo ecc.). Ancora una volta la scuola rimanda un’immagine negativa del lavoro manuale.

Le cose non vanno meglio fuori dalla scuola dove il lavoro minorile tende ad essere identificato tout-court con lo sfruttamento. Preadolescenti di 12 o 13 anni possono con il semplice assenso dei genitori praticare sport agonistici che richiedono un impegno psicofisico e prestazioni assimilabili in tutto a un lavoro, oppure possono recitare come attori e attrici, partecipare a spettacoli, sfilare per case di moda, ma non possono svolgere attività lavorative alla loro portata in un laboratorio artigianale, in campagna, in un bar ecc. per qualche settimana all’anno. Sul sito internet https://vociglobali.it si trova un interessante articolo: “Lavoro minorile, i benefici al di là dei luoghi comuni occidentali”; è la traduzione italiana a cura di Benedetta Monti dell’originale di Michael Bourdillon pubblicato su Open Democracy, che mette in evidenza come il concetto di “lavoro minorile” vada riconsiderato e valorizzato nella sua autentica portata pedagogica, distinguendolo nettamente dallo sfruttamento minorile. Poiché le esperienze concrete, così come quelle relazionali, segnano profondamente la formazione del soggetto, dobbiamo chiederci di che cosa parliamo quando parliamo di educazione alla responsabilità, alla cittadinanza…

Rimaniamo all’interno della scuola: è possibile pensare a una scuola dove attività lavorative di vario tipo: arti e mestieri, gestione e manutenzione degli spazi e dei materiali ecc., ovviamente in modalità adeguate all’età dei soggetti, siano parte integrante del cosiddetto Piano dell’Offerta Formativa? Pensare che il bambino impari a lavorare mentre impara a studiare? Che tutta la scuola sia anche, in parte, “scuola professionale”? Certo, servirebbe un cambiamento nella pedagogia della scuola molto profondo, diciamo che servirebbe una vera Riforma. La Legge 107/2015, la cosiddetta “Buona scuola”, intuisce appena il problema introducendo “l’alternanza scuola-lavoro”, ma siamo molto lontani dall’obbiettivo. Ci sarà una vera riforma quando alla fine della scuola dell’obbligo un ragazzo o una ragazza daranno prova non solo di quello che sanno, ma anche di qualcosa che sanno fare.