A fronte delle urgenze attuali e della convinzione, ancora diffusa, che siano proprio l’educazione e la formazione a fornire un’efficace risposta a problemi come l’inclusione, il lavoro che non c’è o l’arrivo sul proprio territorio di persone straniere, l’impatto delle nuove tecnologie sulle nostre vite, urge definire la professionalità dell’educatore e del pedagogista.
Chi sono? Su quale “sapere” poggia la loro professionalità? Quale “potere” hanno? Quale etica abitano?
A tutte queste domande risponde in modo limpido e puntuale il testo recente di Vanna Iori “Educatori e pedagogisti. Senso dell’agire educativo e riconoscimento professionale” (2018). Non è un caso che la curatrice sia anche chi ha promosso, e ottenuto, la necessità di un avvio del riordino legislativo di tali professioni.
La comunità italiana dei pedagogisti è ampia, composita e variamente dissonante; ciò che ci accomuna trasversalmente è il riconoscimento della complessità del nostro oggetto di ricerca e l’intreccio tra dimensione teorica e pratica nel lavoro educativo; l’impegno per la promozione della qualità della vita. A partire da queste basi condivise, la proposta del volume è ancora più interessante.
Le voci che il testo mette in sintonia riconoscono senza indietreggiare la realtà spesso complicata del mondo dei servizi in cui vive e lavora l’educatore. L’emergenza del paradigma sanitario, una logica di tipo aziendale, il lavoro burocratico insieme alla iperspecializzazione e la frammentazione dei saperi che parlano dell’umano, favoriscono il ritiro dell’educatore che finisce o per eseguire pratiche definite una volta per tutte o per aderire a quelle già in uso nel contesto; il libro propone invece la figura di un professionista capace di intervenire in modo riflessivo e originale, accettando l’incertezza spesso paradossale del lavoro educativo. Questo educatore, disposto a confrontarsi con difficoltà e fatiche quotidiane, è un professionista di primo livello che sa agire in modo autonomo (sulla base di un robusto lavoro d’equipe) perché sa leggere le situazioni in cui lavora, il mondo di chi incontra come utente e lo scenario che ci circonda. La sua capacità di intervento efficace riguarda la costruzione di esperienze di senso alternative, che sappiano aprire davvero al nuovo. Non è facile lavorare come educatori nella attuale temperie culturale, in un tempo storico-economico periodicamente in crisi e tuttavia proprio all’educatore è affidato un ruolo primario nella costruzione di un welfare che sta cambiando: dove alla salvaguardia delle tutele, “i diritti”, si affianchino responsabilmente anche “i doveri”, cioè il servizio e la condivisione generative di una vita in comune.
Si tratta di proporre esperienze ma anche di accompagnare la riflessione su di esse. Vivendo le esperienze progettate, non si apre al nuovo solo l’educando ma anche l’educatore, che responsabile di ciò che offre sa uscire di scena fin dai piccoli gesti quotidiani di separazione. Senza nessuna subalternità rispetto ad altre figure né superiorità nei confronti dell’educando, si presta a quella cura che apre gli orizzonti – il futuro – per ritornare o provare a sperare e sognare (utopia), magari per la prima volta.
La progettualità esistenziale infatti per tutti gli autori, pur con sensibilità e interessi differenti, è il cuore dell’educazione e la sua valenza politica: disporsi a questo impegno, che oggi appare ai più inattuale, vuol dire coniugare la disposizione alla ricerca con la domanda stessa sull’umano, diffidare delle facili certezze e confermare invece quell’attitudine interrogante che si lascia abitare anche dall’angoscia. L’educazione infatti oggi è chiamata a ricordare e frequentare quella dimensione antropologica che la nostra tradizione nomina come coscienza. Esercitare la coscienza, l’intenzionalità, non significa però chiudersi nel solipsismo ma aprirsi all’altro, alla relazione. In questo senso educare è sempre disporsi all’incontro, al nuovo, alla vita. Ciò che sostiene una tale professionalità, è l’avere alle spalle una visione antropologica sicura ma è aperta a ogni riflessione sull’umano che non chiuda, riduca, imbrigli o standardizzi la condizione umana. Essere responsabili nella relazione educativa, nella asimmetria di ruolo, comporta assumere quel rischio sempre esistente quando ci si espone al cambiamento, convinti che le possibilità siano più della realtà. Così il darsi come fine anche la fine della stessa relazione educativa, traguarda in un nuovo inizio. Così viene passato il testimone e la vita si rinnova.
Quale pedagogia per questi professionisti della cura? Non un sapere frammentato ma complesso, non un sapere che ha pronte risposte su tutto e tutti, ma certo capace di dare senso; un sapere autorevole. L’educazione non è l’oggetto esclusivo della pedagogia: altri esperti ne parlano, occorre conoscere questi punti di vista senza rinunciare ad averne uno proprio; autonomo. La sintesi critica che si affida al pedagogista come professionista di secondo livello, è ancorata all’esistente, alle possibilità inscritte in una situazione reale che si conosce bene e sulla quale si opera consapevolmente. “Sacri” allora diventeranno tutti i gesti quotidiani dell’educatore perché saranno in grado di rigenerare la vita.