Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education. Vol.22 n.51 (2018)
ISSN 1825-8670

Il fallimento delle prescritte soluzioni: un approccio critico all’insuccesso scolastico dei minori di origine migrante in Italia

Giovanna MalusàUniversità di Trento (Italy)

Giovanna Malusà, Ph.D. in Scienze Psicologiche e della Formazione e psicologa scolastica, insegna da oltre 30 anni nella scuola primaria. Si occupa di Social Justice Education, Educazione interculturale e metodologie didattiche attive, di cui è formatrice in corsi di aggiornamento per insegnanti, collaborando come docente a contratto con l’Università di Trento e con Scintille.it Srl.

Pubblicato: 2018-07-30

Still searching for solutions: a critical approach to academic underachievement among migrant origin students in Italy

Abstract

This article analyses the most significant legislation so far enacted to protect the right-duty to education and then goes on to present some measures to support the academic success of migrant origin students, highlighting the most critical areas and the urgent need to create a vision of education with a clear political dimension and an effective ius scholae.
Nel presente contributo dopo un’analisi dei principali riferimenti normativi che vorrebbero tutelare il diritto-dovere all’istruzione, si presentano alcune misure di supporto al successo scolastico in particolare degli studenti di origine migrante, evidenziandone le principali aree di criticità e la necessità di una visione anche politica dell’educazione, che comprenda un reale ius scholae.

Keywords: right-duty to education; school failure; migrant origin students; equity; ius scholae.

Il presente contributo, con alcune integrazioni sostanziali, è tratto dalla Tesi di dottorato “Pianificare percorsi di successo scolastico per studenti di origine migrante. Un mixed method study nella scuola secondaria in Italia” (Malusà, 2017b), discussa presso la Scuola di Dottorato in Scienze Psicologiche e della Formazione dell’Università di Trento il 9 marzo 2017.

1 Verso lo ius scholae: ancora un miraggio?

“Che nazionalità avrà se è nato su una barca?” – chiede un compagno.
“Mediterraneo!” – risponde un altro.
(La storia di Hussam, nato dal mare)

Questo è un momento storico in cui riflettere di processi di equità assume un sapore particolarmente amaro. Oltre un milione di persone nel 2015, circa 535.000 nel 2016/17 e 26.750 nei primi mesi del 20181 hanno cercato fortuna nel Mediterraneo a bordo di gommoni e imbarcazioni poco sicure nel disperato tentativo di raggiungere l’Europa – denuncia l’UNHCR2 – lasciandosi alle spalle nella maggior parte dei casi situazioni di guerra, violenza o persecuzioni; di queste 12.634 risultano dispersi o morti (dati del 15 maggio 2018) e purtroppo il numero non è destinato a fermarsi.

Non è lo scopo del presente contributo entrare in merito alle diverse azioni (o reazioni) politiche del Consiglio europeo dei Ministri e di alcuni paesi dell’Unione Europea e non in risposta a tale emergenza umanitaria (The UNRefugee Agency [UNHCR], 2016), ma queste rappresentano – comunque – lo sfondo storico-politico, economico, sociale e non da ultimo mediatico di questo particolare tempo di crisi migratoria, economica e di sicurezza nazionale3 che incide sul processo educativo osservato.

Un tempo in cui parlare di equità diventa un tema di grande attualità anche nella nostra penisola, politicamente da 13 anni “spaccata” in un dibattito nazionale sul diritto di cittadinanza agli stranieri nati in Italia (definiti tecnicamente come seconde generazioni) per una riforma di legge che dovrebbe, per una piena integrazione degli studenti di origine migrante, concedere la cittadinanza non solo a chi è nato in Italia (principio dello ius soli),4 ma anche a chi, nato all’estero, ha frequentato sul nostro territorio il percorso obbligatorio di studio (principio dello ius scholae), valorizzando – in un’ottica di equità e giustizia sociale – la scolarizzazione all’interno del nostro sistema di istruzione come strumento di integrazione (Tarozzi, 2015, p. 209).

Seppur con alcune divergenze rispetto a quanto sopraesposto, nel 2017 il Senato non ha approvato il disegno di legge5 sull’ampliamento della concessione della cittadinanza – in base al principio dello ius soli e dello ius culturae – agli studenti minori nati in Italia da genitori stranieri6 che abbiano compiuto un intero ciclo scolastico sul territorio nazionale, di fatto agli oltre 850mila ragazze e ragazzi ancora stranieri in patria.

La normativa attualmente in vigore sul diritto di cittadinanza per i minori di origine straniera, infatti, è basata ancora essenzialmente sul principio dello jus sanguinis (diritto di sangue, ovvero per discendenza): il minore nato in Italia da genitori entrambi stranieri7 acquista alla nascita la cittadinanza dei genitori8 e pertanto non è considerato un cittadino italiano. Lo può diventare dopo il compimento della maggiore età se ha risieduto legalmente in Italia e senza interruzione fino ai 18 anni e se dichiara – anche dopo il compimento del diciannovesimo anno9 – di voler acquisire la cittadinanza italiana, come stabilito dal D.L. n. 69/2013 art. 33, co.1 e 2 (Decreto del fare, Letta).

Da un punto di vista giuridico, pertanto, si verifica spesso il paradosso per molti giovani di essere considerati immigrati nel paese di nascita – dove magari hanno frequentato l’intero ciclo di istruzione, partecipato a diverse attività sociali o appreso persino il dialetto – e cittadini di un paese che spesso conoscono solo superficialmente, a causa di una legge che “pone la cittadinanza come traguardo troppo lontano per chi arriva in Italia ma soprattutto per chi vi nasce, cresce, studia, dovendo aspettare la maggiore età per ottenerla”, come sottolineano anche le recenti Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca [MIUR] (2014b, p. 7).

Il concetto giuridico di cittadinanza come strumento di democrazia pare così ancora irrealisticamente ancorato in Italia ad una visione familista – in cui i legami familiari prevalgono su ogni altro tipo di criterio – e pensato quasi più per discriminare e proteggere che per includere, garantendo diritti (politici)10 per chi “sta dentro” ed escludendo chi “sta fuori”, seppur abitante entro gli stessi confini nazionali (Tarozzi, 2015, p. 69), a discapito di una visione plurale e planetaria congruente con la molteplicità culturale presente nella società.

2 Diritto-dovere all’istruzione

L’ordinamento comunitario, le convenzioni internazionali giuridicamente vincolanti per l’Italia e la stessa Costituzione garantiscono il diritto-dovere all’istruzione e alla formazione per tutti i minori11 senza discriminazioni fondate sulla cittadinanza o sulla regolarità del permesso di soggiorno o di altra circostanza – in una visione inclusiva di tutela dei soggetti considerati vulnerabili – secondo il principio di “non discriminazione” (L. 176/1991 art. 2) e di “superiore interesse del minore” (L. 176/1991 art. 3), disciplinato anche dalla normativa riguardante l’immigrazione (D.Lgs. 286/1998 e DPR 394/1999)12 e l’istruzione.

Nell’attuale sistema educativo italiano, l’obbligo scolastico e formativo – regolamentati rispettivamente dall’art. 34 della Costituzione e dalla L. 144/1999 – è stato ridefinito e ampliato con la riforma dei cicli dell’intero sistema nel 2003 (L. 53/2003),13 che prevede l’obbligo di istruzione per almeno dodici anni e l’obbligo formativo14 fino ai diciotto, assolvibile con il conseguimento di un titolo di studio di scuola secondaria superiore o di una qualifica professionale almeno triennale o con l’apprendistato. Tale riforma considera, poi, parte integrante del complessivo sistema di istruzione e formazione anche la scuola dell’infanzia (L. 53/2003, art. 2, co. 1), che – si legge – “concorre ad assicurare un’effettiva eguaglianza delle opportunità educative” (D.Lgs. 59/2004, art. 2 co. 1 lett e).

Successivi decreti legislativi di attuazione della normativa ribadiscono il diritto soggettivo di istruzione e formazione per tutti – ivi compresi i minori stranieri presenti nel territorio dello Stato – anche come dovere sociale, sanzionabile in caso di inadempienza (D.Lgs. 76/2005, art.1 co. 2, 3 e 6).

Assumendo la normativa in materia d’immigrazione, il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR) sottolinea che

l’adempimento dell’obbligo di istruzione è finalizzato al conseguimento di un titolo di studio di scuola secondaria superiore o di una qualifica professionale di durata almeno triennale entro il diciottesimo anno di età; (D.M. n. 139/2007, art. 1 co. 2)

e che

l’obbligo scolastico, integrato nel più ampio concetto di diritto-dovere all’istruzione e alla formazione, concerne anche i minori stranieri presenti nel territorio nazionale, indipendentemente dalla regolarità della posizione in ordine al soggiorno in Italia […]. In mancanza dei documenti prescritti, la scuola iscrive comunque il minore straniero, poiché la posizione di irregolarità non influisce sull’esercizio del diritto d’istruzione. (C.M. 25 gennaio 2013, n. 375)

Se queste premesse sembrerebbero una garanzia per tutelare il diritto all’istruzione, l’esercizio di tale diritto non viene poi adeguatamente monitorato con reali investimenti economici e, in caso di inosservanza, l’art. 731 del Codice Penale prevede solo un’ammenda fino a 30 euro.

Lo stesso citato decreto n. 76/2005 istituisce con l’art. 3 anche un Sistema nazionale delle anagrafi degli studenti, al fine di monitorarne la dispersione scolastica soprattutto nella scuola secondaria, tracciando i percorsi scolastici e formativi dei singoli studenti a partire dal primo anno della scuola primaria, senza prevedere – però – un adeguato investimento anche economico, per non voler interferire con “nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica” (co. 5). In tal senso, il MIUR dall’anno 1998/99 ha promosso quasi annualmente anche un’indagine campionaria sulla dispersione scolastica, modificando nel tempo, però, sia la metodologia impiegata sia gli aspetti indagati, con la conseguente impossibilità di una metodica comparazione longitudinale di tutti i dati raccolti.

Si possano riconoscere negli ultimi anni grandi passi in avanti da parte dell’Anagrafe del MIUR che, con una maggiore sensibilizzazione e coinvolgimento delle scuole, cerca di rilevare frequenza, trasferimento ed interruzione di frequenza di ogni studente che transita nel sistema scolastico (MIUR, 2017); tuttavia ad oggi non è ancora al pieno delle sue potenzialità e solo in quelle poche regioni15 che hanno aderito al programma di iscrizioni online è possibile acquisire informazioni sulle scelte effettuate dagli alunni alla fine del primo ciclo di istruzione, tracciando in parte le diverse traiettorie formative degli studenti iscritti (MIUR, 2018b, p. 8).

A queste, poi, si possono aggiungere ulteriori incongruenze nelle modalità volte a garantire il diritto all’istruzione a tutti, sebbene la normativa preveda minuziose indicazioni operative per assicurare alcune precondizioni a tale diritto (Ghirotto, 2015).

3 Misure normative di supporto al successo scolastico dei minori di origine migrante

Una dettagliata normativa scolastica definisce, infatti, la tempistica delle iscrizioni – possibili anche durante l’anno (DPR 394/1999 art. 45) – e le modalità di distribuzione nelle scuole degli alunni di cittadinanza non italiana (C.M. 8 gennaio 2010, n. 2), prevedendo che la loro presenza non possa superare “di norma” il 30% del totale degli alunni iscritti in ciascuna classe e in ciascuna scuola, principi riaffermati anche nella più recente C.M. 10 gennaio 2014, n. 28 (MIUR, 2014a) e nelle nuove Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri (MIUR, 2014b).

Di fatto, per quanto precise istruzioni siano richiamate ogni anno con circolari del MIUR, i dati del 2016/17 rilevano un aumento “sia pure modesto” delle scuole che superano la soglia del 30% (MIUR, 2018a, p. 34).

La mancata realizzazione delle predette indicazioni da parte di molti istituti a forte presenza di alunni stranieri mette in evidenza non solo una maggiore concentrazione degli stranieri come dato demografico e residenziale di alcuni territori, ma anche una debolezza di fondo del sistema scolastico italiano, affrontata da una parte agiata di utenza con strategie di “evitamento”, ovvero di orientamento verso scuole private o pubbliche con bassa densità di alunni di origine straniera, come se la causa dell’insuccesso del sistema fosse da attribuire alla loro presenza; e non da ultimo una tendenza delle famiglie immigrate ad accettare inserimenti proposti e “dirottamenti” effettuati (Santerini, 2010, pp. 20-21). Scelte incoerenti di distribuzione emergono anche in presenza di basse percentuali di studenti di origine migrante, con la tendenza a concentrare questi ultimi solo in alcune classi e in modo diseguale tra i plessi di uno stesso istituto.

Per ovviare a queste criticità, il successivo documento “Diversi da chi?” redatto dall’Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’intercultura del MIUR (2015) prevede un inserimento a scuola immediato – in base al criterio dell’età – e ribadisce l’adozione di “criteri di equo-eterogeneità nella formazione delle classi, evitando o riducendo i casi di concentrazione delle presenze” (ibidem, p. 4) per le conseguenze negative a livello scolastico, sociale ed individuale dei soggetti coinvolti. Per la prima volta in questo documento, dopo venticinque anni, non viene utilizzata la definizione di “alunni stranieri”, ritenuta ormai inadeguata e superata, ma “studenti con background migratorio”, oppure “figli di migranti” o “alunni con origini migratorie” (Ongini, 2016, p. 184), attestando anche a livello istituzionale l’inizio di una maggiore sensibilità di fronte alle innumerevoli sfumature che la condizione migratoria comporta.16

I citati documenti del MIUR (2015; 2014b) propongono, inoltre, ulteriori indicazioni operative atte a supportare percorsi efficaci di apprendimento degli studenti con origini migratorie e a contrastare i ritardi e la dispersione scolastica, mediante opportune azioni di coinvolgimento delle famiglie e di orientamento, per evitare la loro eccessiva polarizzazione nei percorsi professionali, riconducibile alla situazione socio-economica dei nuclei parentali immigrati, alla loro aspettativa di un rapido inserimento dei figli nel mondo del lavoro, ma anche a possibili elementi di inconsapevole pregiudizio di docenti e dirigenti scolastici (MIUR, 2014b, p. 15).

Ma non solo. Da quasi vent’anni sarebbe previsto un adattamento dei programmi di insegnamento, con interventi anche individualizzati o per gruppi di alunni per facilitare l’apprendimento della lingua italiana, deliberati dal Collegio docenti (DPR 394/1999 art. 45). Le Linee guida nazionali (MIUR, 2014b) individuano in tal senso tre specifiche fasi relative all’apprendimento della lingua del paese ospitante da parte degli studenti definiti “non italofoni”, prevedendo per ciascuna azioni specifiche in riferimento ai livelli indicati nel Quadro comune europeo di riferimento per le lingue – anche realizzabili attraverso i finanziamenti previsti all’art. 9 del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro [CCLN] Comparto Scuola destinati alle scuole collocate in “aree a rischio con forte processo immigratorio e contro la dispersione scolastica17 o con progetti attivabili dagli Enti locali.

Un’attenzione particolare è rivolta al processo di valutazione, che dovrebbe tenere conto "della storia scolastica precedente, degli esiti raggiunti, delle caratteristiche delle scuole frequentate, delle abilità e competenze essenziali acquisite" (MIUR, 2014b, p. 13) in modo congruente ai Piani Didattici Personalizzati (PDP), finalizzati al riallineamento con i comuni obiettivi di apprendimento della classe ( MIUR-Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e l’intercultura, 2015, p. 2).18

A livello regionale e locale,19 una serie di protocolli operativi di accoglienza definisce nel dettaglio modalità di inserimento ed accompagnamento nei percorsi scolastici degli studenti di origine migrante nei singoli Istituti, organizzati talvolta in rete.

Infine, la legge 107/2015 nota come “Buona scuola” ribadisce il ruolo centrale della scuola nel garantire il diritto allo studio e le pari opportunità di successo formativo, contrastando le disuguaglianze socio-culturali e territoriali, l’abbandono e la dispersione scolastica;20 riserverebbe, però, uno spazio (piccolo) agli oltre 850.000 studenti di origine migrante presenti nella scuola italiana, che verrebbero solo marginalmente considerati nel testo, così come l’educazione interculturale e la formazione interculturale dei docenti21 (Fiorucci, 2015b); criticità – queste – riaffrontate recentemente da una Cabina di regia per la lotta alla dispersione scolastica e alla povertà educativa (MIUR, 2018b) – coordinata da Marco Rossi Doria – che, dopo un’attenta analisi degli scenari in cui avviene il fallimento formativo, riafferma il valore di una “scuola democratica, accogliente e rigorosa” e promuove alcune raccomandazioni finalizzate ad un’innovazione strutturale, pedagogica e didattica con una rinnovata formazione docenti.

4 Aree di criticità emergenti

Pur in presenza di una ricca e attenta normativa, di fatto emergono diverse aree di criticità.

4.1 Quantificare l’insuccesso scolastico è possibile?

L’insuccesso scolastico appare come un fenomeno multiforme (Ghione, 2005), che necessita di differenti indicatori per poter essere descritto, in quanto ciascuno – singolarmente – non sarebbe in grado di dipingere se non un quadro parziale del fenomeno. Infatti

[…] la dispersione è sfaccettata e diversificata, si verifica a diversi stadi del percorso scolastico, si presenta sotto forma di fenomeni differenti per ambiente sociale, genere, età, collocazione geografica; si manifesta nelle forme dell’abbandono, dell’uscita precoce dal sistema formativo, dell’assenteismo, del deficit nelle competenze di base: gli studenti si perdono da un ciclo all’altro, non vengono intercettati, si disperdono nel primo biennio delle superiori, non apprendono abbastanza o acquisiscono conoscenze incerte, spezzettate e mai consolidate che inficiano le prospettive di crescita culturale e professionale, migrano tra scuole per poi sparire dal circuito troppo presto e in molti modi, evadono l’obbligo o frequentano saltuariamente e passivamente (MIUR, 2018b, pp. 5-6)

Fonti statistiche istituzionali utilizzano tassi22 “oggettivi” per misurare le modalità di frequenza e i livelli di scolarità (Ghione, 2005; Santagati, 2014), sintetizzabili nella Tab. 1.

Tabella 1 – Indicatori sulle modalità di frequenza e sui livelli di scolarità – Fonti statistiche istituzionali
Tabella 1 – Indicatori sulle modalità di frequenza e sui livelli di scolarità – Fonti statistiche istituzionali

Appaiono evidenti le numerose variabili non uniformi connesse a queste misurazioni, che tratteggiano il fenomeno dell’insuccesso in modo talvolta indefinito e scarsamente affidabile se analizzato in una breve finestra temporale, mentre studi longitudinali ne permetterebbero una stima più realistica, cogliendo le effettive traiettorie degli studenti e mettendone in evidenza transizioni o scelte formative inique; tuttavia l’indagine campionaria ricorsiva sulla dispersione non utilizza variabili omogenee nel corso degli anni – con una conseguente difficile comparazione longitudinale dei dati raccolti – e la banca dati dell’Anagrafe dello Studente, come si è già detto, è implementata solo in alcune regioni.

Per misurare i livelli di apprendimento degli studenti vengono poi utilizzati altri indicatori, presentati nella Tab. 2.

Tabella 2 – Indicatori sui livelli di apprendimento – Fonti statistiche istituzionali
Tabella 2 – Indicatori sui livelli di apprendimento – Fonti statistiche istituzionali

Numerosi sono i punti di valore e critici relativi alle indagini OECD-PISA, già discusse approfonditamente altrove (Malusà, 2017a): sinteticamente, se da un lato queste valutazioni standardizzate hanno avuto il pregio di evidenziare almeno una parte del problema relativo all’insuccesso scolastico degli studenti immigrati, per lungo tempo poco indagato, dall’altro risentirebbero nella loro impostazione di una più ampia politica razionale neoliberale che lega la formazione ai bisogni economici emergenti dalla globalizzazione per un inserimento efficace e competitivo nel mondo del lavoro.

A livello nazionale l’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione (INVALSI) da oltre dieci anni elabora ogni anno delle prove standardizzate, somministrate in modo censuario e/o campionario a tutti gli studenti delle scuole statali e paritarie di classe II e V della scuola primaria, III della scuola secondaria di primo grado (prova indispensabile dal 2018 per accedere all’esame di stato), e II della secondaria di secondo grado, al fine di misurare i livelli raggiunti in Italiano e Matematica e raccogliere dati di contesto attraverso un questionario studente, che indaga il livello di istruzione dei genitori, la loro professione, la presenza di alcune condizioni materiali domestiche, le aspettative e il rapporto con compagni e docenti, l’interesse per lo studio e i progetti futuri.

Nelle intenzioni del MIUR (Ajello, 2016), questa rilevazione statistica nazionale dovrebbe servire a raccogliere dati oggettivi sui livelli di apprendimento raggiunti dagli studenti, senza l’influenza di altri fattori personali (valutazione soggettiva dei docenti) o scolastici (decisioni del Collegio docenti), rispondendo all’obiettivo di fornire informazioni attendibili sul sistema. Rimarrebbero ampi spazi per un serio dibattito educativo, in quanto – secondo quanto afferma la stessa presidente Ajello in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, sarebbe necessario andare oltre i test Invalsi, che avrebbero il compito di fornire solo misurazioni e non valutazioni, “[…] anche perché quali sono le competenze da misurare e poi valutare lo decide la politica e non l’Invalsi” (Iossa, 2014).

Pesanti critiche vengono mosse da anni dalla ricerca psicopedagogica di matrice costruttivista sulle modalità stesse di costruzione dei test somministrati, che non considererebbero la natura processuale dell’apprendimento, difficilmente verificabile con semplici prove a risposta multipla e/ chiusa, con compiti acontestuali, spesso artificiosi nei contenuti e nelle forme, lontani dalla realtà d’insegnamento realizzata nelle aule (Carugati & Selleri, 2001); come sulle finalità, procedure, senso e caratteristiche di questa valutazione di sistema, che introdurrebbe un’ottica manageriale nei sistemi educativi (Grion, 2011a, 2011b), senza la dovuta indipendenza necessaria tra organismi di ricerca e sistemi scolastici valutati, all’interno di una cornice connotabile come goal-free evaluation (Scriven, 1973).

Tematiche – queste – che evidenziano ancora una volta le connessioni della ricerca valutativa non soltanto con aspetti di tipo decisionale, ma anche fortemente di tipo politico ed ideologico (Fraccaroli & Vergani, 2004; Scriven, 1981).

4.2 L’insuccesso scolastico in Italia: quale equità?

Nonostante una ricca normativa e politiche ufficiali di inclusione, dati statistici nazionali ed internazionali rivelano che uno scarso rendimento, insuccessi e abbandoni scolastici sono problemi irrisolti per l'Italia (MIUR, 2013b), come pure come per molti altri paesi europei.

In particolare, nella nostra penisola la situazione non è delle migliori: nella graduatoria dei ventisette paesi UE, nel 2017 si colloca ancora in quint’ultima posizione con il 13,8% di giovani ESL (Early School Leavers), ancora oltre il tasso medio della Ue del 10,7% (preceduta solo da Malta, Spagna, Romania e Portogallo) (Istituto Nazionale di Statistica [ISTAT], 2018); l’incidenza di questo fenomeno è massima nel gruppo delle famiglie a basso reddito con stranieri in cui poco meno di un giovane su tre abbandona gli studi prima del diploma (ISTAT, 2017, p. 178). Si conferma, poi, al primo posto rispetto la quota dei giovani NEETs (Not in Employment, Education and Training), con un valore superiore di 10 punti percentuali rispetto alla media europea (ISTAT, 2018).

Nell’indagine OECD-PISA 2012 (Organisation for Economic Co-operation and Development [OECD], 2013) l’Italia ottiene risultati inferiori alla media dei Paesi OECD in ogni ambito considerato. Ma non solo. Considerando un’ottica di eccellenza e di equità (misurata attraverso l’indice ESCS), si posiziona tra i paesi meno equi con una performance inferiore alla media OECD, collocandosi – pertanto – tra i paesi con Poor and Unequal Educational Opportunity System. E gli esiti OECD-PISA 2015, seppur con lievi miglioramenti, presentano ancora situazioni di forte iniquità (OECD, 2016, p. 251).

Considerando la varianza tra regioni, emerge uno scenario molto eterogeneo tra i diversi territori, sia nei risultati di italiano che in matematica, come si evince dal recente studio similmente riproposto da Barabanti (2016) con gli stessi indicatori OECD, ma utilizzando i dati delle prove INVALSI 2014/15 (Fig. 1).

Figura 1 – Punteggio medio e differenza di punteggio tra studenti nativi e stranieri in matematica nella II secondaria di secondo grado per regione. A.sc. 2014/15 Fonte: Barabanti (2016, p. 126) – elaborazioni ISMU su dati INVALSI
Figura 1 – Punteggio medio e differenza di punteggio tra studenti nativi e stranieri in matematica nella II secondaria di secondo grado per regione. A.sc. 2014/15
Fonte: Barabanti (2016, p. 126) – elaborazioni ISMU su dati INVALSI

Questi divari persistono anche nelle rilevazioni successive: restringendo ulteriormente il focus di indagine, emerge una notevole varianza tra scuole (between variance) soprattutto nel Sud e nelle isole, in progressivo aumento con l’avanzare del livello scolastico (INVALSI, 2016, 2017), mentre è minore all’interno di ciascun istituto (within variance) tra classi. Inoltre gli studenti dei licei, sia nativi che stranieri, ottengono mediamente risultati più elevati di coloro che frequentano gli istituti tecnici o professionali (INVALSI, 2017, p. 51), in linea con quanto emerge anche dalle indagini internazionali sugli apprendimenti (TIMSS e PISA), confermando l’impatto del background socioeconomico sui percorsi formativi. Infatti le

[…] differenze in ingresso […], se si replicano uguali in uscita, indicano che il sistema (scuola, altre agenzie formative, servizi culturali territoriali etc.) rappresenta e riproduce il reale senza riuscire ad intervenire in maniera decisiva. Una bassa varianza tra scuole e classi è, infatti, considerata misura dell’equità di un sistema, indica la capacità dello Stato di offrire strumenti perequativi, di modificare la forbice sociale. (MIUR, 2018b, p. 29)

4.3 L’insuccesso degli studenti di origine migrante: ancora una “scuola di classe”?

Una consolidata ricerca educativa internazionale (Banks & Park, 2010; Race, 2018; C. Suárez-Orozco, Yoshikawa, Teranishi, & M. Suárez-Orozco, 2011; Suárez-Orozco, Darbes, Dias, & Sutin, 2011; M. Suárez-Orozco & C. Suárez-Orozco, 2015; Tarozzi & Torres, 2016) e nazionale (Azzolini & Ress, 2015; Catarci & Fiorucci, 2015; Colombo, 2015; Malusà, Tarozzi, & Pisanu, 2016; Tarozzi, 2015; Zoletto, 2012) individua nei figli dell’immigrazione le nuove fasce deboli a forte rischio di insuccesso scolastico, in quanto vivono un’esperienza formativa segnata da un susseguirsi di nodi problematici – analogamente a quella degli studenti autoctoni di status simile, cioè con scarse risorse riferibili al capitale economico, culturale e sociale – aggravati dall’esperienza migratoria propria o della famiglia di provenienza, con conseguente precarietà a livello relazionale, giuridico e formativo (Santagati, 2014).

Gli alunni con cittadinanza non italiana nel sistema di istruzione italiano rappresentano un dato strutturale da molti anni, raggiungendo nel 2016/17 la percentuale del 9,4% sul totale degli iscritti,23 con una maggiore incidenza delle seconde generazioni (quasi il 61%) – soprattutto nelle scuole d’infanzia (85,3%) (MIUR, 2018a, p. 18) – ed una netta diminuzione degli studenti neoarrivati (ibidem, p. 20). Sono ragazze e ragazzi distribuiti in ogni ordine di scuola senza differenze significative di genere, anche se a livello percentuale il maggior numero di studenti con cittadinanza non italiana è presente nella primaria (ibidem, p. 12).

La constatazione che la scuola sia sempre più multietnica e multiculturale non significa, tuttavia, che sia garante di effettivi processi di accoglienza e di giustizia sociale.

  1. Transizioni e scelte formative inique

Sono soprattutto i cittadini di origine migrante24 anche definibili come “post-migranti” (Zoletto, 2012) quelli in ritardo nel proprio percorso di studio, con un valore percentuale medio che, seppur in progressivo miglioramento (-9,1 punti percentuali in 6 anni), presenta ancora una forte differenza, con un tasso del 31,3% a fronte del 10,0% degli alunni con cittadinanza italiana nell’a.sc. 2016/17; il massimo divario si riscontra nella Scuola Secondaria di secondo grado (rispettivamente 59,1% vs 20,9%), aumentando con il progredire dell’età (ibidem, p. 54).

Bisogna aggiungere, poi, una canalizzazione ed un ri-orientamento “discendente”25 fortemente caratterizzato da una storica predestinazione formativa, con migrazioni prevalentemente verso indirizzi professionali o tecnici, che registrano nell’a.sc. 2016/17 una distribuzione percentuale di studenti di cittadinanza non italiana iscritti rispettivamente del 34,7% e 37,5% vs il 18,7% e il 31,1% dei pari autoctoni (ibidem, p. 47), sebbene le scelte degli studenti di seconda generazione tendano ad orientarsi maggiormente verso gli istituti tecnici e i licei.

E sono sempre gli studenti di origine migrante quelli a maggior rischio di abbandono scolastico, in quanto proprio negli istituti professionali e tecnici si registra il maggior tasso di ripetenze e la maggior concentrazione di ragazze e ragazzi a “rischio di abbandono”26 durante il percorso della scuola secondaria; considerando i tassi di ammissione agli esami di stato alla fine della Scuola Secondaria di primo e secondo grado, gli studenti di cittadinanza non italiana sono sempre quelli più penalizzati e ottengono votazioni inferiori anche una volta diplomati – come ampiamente documentano i Focus sulla Dispersione scolastica (MIUR, 2013b, 2017).

  1. Una questione di status

Oltre agli esiti dei singoli Istituti scolastici, correlabili a variabili anche di tipo territoriale o dei singoli istituti, i risultati delle prove standardizzate INVALSI (2014, 2016, 2017) sugli apprendimenti di Italiano e Matematica consentono ulteriori riflessioni fondate sull’analisi comparata tra studenti italiani e stranieri di prima e seconda generazione, rimarcando ulteriormente la presenza di una forbice tra i diversi esiti raggiunti.

L’indice di status socioeconomico e culturale (ESCS), calcolato sulla base dei dati raccolti dal questionario-studente durante le rilevazioni, conferma quanto già asserito dalla letteratura sociologica, e cioè che le caratteristiche socioculturali ed economiche delle famiglie rivestono un ruolo chiave per gli apprendimenti, già a partire dalla scuola dell’infanzia. Quello che emerge è che nelle scuole secondarie gli studenti nativi hanno un ESCS superiore al valore medio nazionale, per convenzione pari a 0, mentre i compagni stranieri hanno un indice nettamente inferiore, differente tra prime e seconde generazioni (Iniziative e Studi sulla Multietnicità [ISMU]-MIUR, 2016).

Incrociando il valore dell’ESCS con la variabile cittadinanza e tipologia di percorso formativo superiore, vengono confermati i fenomeni già descritti in letteratura della segregazione scolastica su base socioeconomica e della canalizzazione etnico-culturale: sono sempre gli studenti con ESCS più alto a frequentare i licei, mentre questo valore è inferiore tra gli studenti delle professionali, e soprattutto se stranieri (Barabanti, 2016, pp. 126-127).

5 Conclusioni

I dati statistici presentati evidenziano ancora situazioni fortemente inique che richiamano l’urgenza di una maggiore giustizia sociale nei percorsi di educazione pubblica per favorire una piena integrazione sociale fra diversi studenti. Si ritiene, pertanto, opportuno sintetizzare in queste conclusioni le principali aree di criticità relate all’insuccesso scolastico dei minori di origine migrante in Italia per sottolineare la necessità di allargare lo sguardo educativo dai valori del dialogo interculturale a quelli anche politici della giustizia in educazione, con un paradigma interpretativo critico che includa un’indispensabile visione utopica di un mondo migliore (Freire, 2002).

In un’ottica internazionale, l’Italia rappresenta un caso particolarmente interessante da studiare a livello educativo per quanto concerne la riflessione sui percorsi di successo scolastico in contesti multiculturali.

La nostra penisola negli ultimi quindici anni ha sperimentato un’esponenziale e rapida crescita di studenti di origine migrante (dal 2,2% nel 2001/02 al 9,4% nel 2016/17), raggiungendo quasi i tassi dei paesi di storica tradizione migratoria, ma senza l’esperienza gestionale di questi (Cesareo, 2014). Ma non solo. È caratterizzata da una presenza strutturale, anche se inferiore al 10%, di studenti di origine migrante, soprattutto nati nel territorio nazionale, ormai la maggioranza ed in attesa di cittadinanza. Tuttavia è uno dei paesi con le più restrittive leggi riferibili alla sua acquisizione, basate ancora prevalentemente sullo jus sanguinis, con norme che sembrano essere “irrealisticamente modellate su un Paese di emigranti, anziché d’immigrazione” (Santerini, 2010, p. 13), nonostante anni di discussioni parlamentari.

In presenza, poi, di un radicale mutamento dei fenomeni migratori, non avrebbe più senso parlare di prime, seconde o terze generazioni, ma piuttosto di peculiarità formative per supportare l’apprendimento e l’integrazione dei “nuovi italiani”, come essi stessi si rappresentano (Granata, 2011; Zoletto, 2012).

In tal senso, l’Italia persegue dal 1990 un approccio educativo di tipo inclusivo, regolato da un ricco percorso legislativo che supporta l’educazione interculturale e la presenza di strategie e buone pratiche interculturali adottate nelle scuole del territorio: insegnamento dell’italiano come seconda lingua, valorizzazione della lingua e della cultura di origine e multilinguismo, attività interculturali e per la prevenzione di stereotipi e pregiudizi. Le migliori pratiche interculturali nel contesto educativo italiano implicano criteri di universalismo, scuola comune, centralità della persona in relazione agli altri e azioni per l'interazione interculturale (Fiorucci, 2015a). Molto è già stato fatto per educare alla tolleranza, al rispetto della diversità e ad un dialogo tra culture. Ma non è abbastanza. Esistono ancora profonde contraddizioni tra modelli dichiarati e prassi esperite nelle aule, come rilevato da uno studio della Commissione europea (CEU, 2013), che include l’Italia tra i paesi con un modello di supporto educativo non-sistematico, per la presenza di interventi saltuari non sostenuti efficacemente, quando esistono, da chiare policies e risorse a livello nazionale.

Di fatto, nel panorama internazionale l’Italia si colloca ancora complessivamente tra i paesi OECD con la più alta iniquità in termini di performance relata allo status socioeconomico e allo status di migrante. Assumendo il successo formativo degli alunni con background migratorio come parametro di valutazione dell’efficacia dei percorsi educativi, le profonde ineguaglianze emergenti nel sistema scolastico italiano non sono relate solo al fenomeno degli abbandoni scolastici, ma anche a quello della canalizzazione formativa degli studenti migranti nella scelta della scuola superiore, come discusso precedentemente, tanto che – a cinquant’anni da “Una lettera ad un professoressa” (1967) della Scuola di Barbiana – la nostra appare ancora come una “scuola di classe”.27

Sebbene numerose ricerche evidenzino la valenza inclusiva e formativa della IeFP (Santagati, 2015), la tendenza dei giovani con background migratorio a orientarsi verso percorsi brevi e professionalizzanti rinforza il sistema sociale che vede nei lavoratori stranieri in tutta Europa solo una manodopera poco qualificata, caratterizzata anche in Italia da un “sottoinquadramento, un impiego massiccio in professioni non qualificate e un differenziale retributivo […] che continua a riguardare in misura maggiore gli stranieri rispetto agli italiani” (Catarci, 2012, p. 61) – quasi fossero una sorta di “uomini senza qualità” – come vengono provocatoriamente definiti da alcuni autori (Bonetti & Fiorucci, 2006), intrappolati in circuiti di un lavoro servile e “paraschiavistico” contemporaneo (Carchedi, 2010).

I docenti, peraltro, sono spesso lasciati soli ad affrontare problemi e difficoltà senza un effettivo supporto in termini di risorse e di formazione adeguati (Tarozzi, 2013), la cui mancanza risulta essere tra le principali ragioni dell’inefficacia dei loro interventi (C. Sleeter & Grant, 2009), nonostante precise indicazioni normative in tal senso sia a livello europeo (Commissione Europea [CEU], 2008) sia italiano (Ministero Pubblica Istruzione [MPI], 2007), ancora attuali (Fiorucci, 2015a):

In tale prospettiva, di tipo esperienziale, la formazione interculturale si configura come una prospettiva di innovazione dell’insegnamento complessivamente inteso e, di conseguenza, del ruolo docente. Il contesto della diversità culturale obbliga l’insegnante a uscire dai canoni della trasmissione lineare per dialogare con particolari esigenze. Tuttavia, ciò non significa formare i docenti a rispondere a bisogni “speciali”, bensì, al contrario, abituarsi a leggere l’intero contesto scolastico sotto il segno della differenza. (MPI, 2007, p. 20)

Gli insegnanti di fatto si rivelano spesso impreparati ad affrontare la diversità che le classi multiculturali presentano (OECD, 2010; Sleeter, 2001), ma la formazione ad un dialogo interculturale diventa insufficiente se non è fondata su scelte etiche coerenti che pervadano progettualità e prassi didattiche finalizzate ad un successo formativo di tutti (Borg, 2013; Ventura, 2012a). Appare particolarmente rilevante, pertanto, la presenza di personale non solo preparato e competente nel gestire la complessità e la differenza (OECD, 2012), ma soprattutto eticamente motivato, in modo che sappia attribuire un senso profondo (Korthagen, 2004) a strategie e didattiche attive che diversamente sarebbero sterili (Malusà, 2015; Malusà & Tarozzi, 2016, 2017; Tarozzi, 2012, 2014).

Diversi autori (Cochran-Smith, 2010; Cochran-Smith, Barnatt, Lahann, Shakman & Terrell, 2009; Solomon & Sekayi, 2007; Sleeter, 2009; Tarozzi, 2015) sostengono l’importanza di una formazione dei docenti orientata alla giustizia sociale per contrastare un clima politico caratterizzato da un crescente neoliberalismo.

Ma come formare efficacemente insegnanti nelle scuole multiculturali (Tarozzi, 2011, 2012), “intellettuali trasformativi” (Freire, 1968/2011; Giroux, 1988) capaci di promuovere percorsi di giustizia sociale? E chi già opera in modo efficace nella scuola, cosa può offrire attraverso la sua esperienza come buona pratica trasferibile in altri contesti educativi? E quale potrebbe essere il ruolo della comunità educante?

Assumendo una dimensione critica, essenzialmente due sarebbero le domande di base da porsi nell’analisi dei processi educativi: “Per chi?” e “Per che cosa?”, che esigono una riflessione posizionandosi dalla parte dei più poveri, con una visione anche globale sulle più ampie questioni socioeconomiche relate ad una necessaria dimensione di equità sociale (Apple, 2009, p. xvi).

Nell’assunto sempre attuale della stretta relazione tra politica ed educazione (Bertolini, 2003), diventa così essenziale comprendere come l’educazione possa contribuire ad un cambiamento sociale. Studiando le relazioni esistenti tra globalizzazione ed educazione in tre continenti, Torres (2009) evidenzia tra le tematiche prioritarie proprio la stretta relazione tra educazione e cittadinanza (attiva) – approfondita anche da altri autori (Ongini & Rondanini, 2014; Tarozzi, Rapanà, & Ghirotto, 2013; Tarozzi & Torres, 2016) – in quanto “si può nascere titolari di diritti, ma cittadini attivi si diventa” (Tarozzi, 2015, p. 72) “attraverso un esplicito e consapevole processo educativo” (Bertolini, 2003, p. 148). E una lettura critica dei processi messi in atto per supportare percorsi di successo scolastico in contesti di fragilità potrebbe servire per fondare percorsi formativi più efficaci, all'interno di un quadro multidimensionale di giustizia sociale con politiche e pratiche congruenti che coinvolgano tutti gli stakeholders, per garantire equità e diritti di cittadinanza a tutti, con un reale ius scholae (Malusà & Tarozzi, 2018).

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  1. Sulle coste dell’Italia nel 2018 sono sbarcati 10.616 migranti, di cui il 18,3% era costituito da minori non accompagnati, con una riduzione del 75% rispetto agli arrivi nello stesso periodo del 2017 (fonte UNHCR).

  2. L’UNHCR (acronimo di The UNRefugee Agency) è un’organizzazione internazionale Istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che lavora in 123 paesi del mondo ed è impegnata a proteggere i diritti di milioni di rifugiati, sfollati e apolidi. I dati sopra riportati sono stati desunti dalle statistiche presenti nella pagina web https://www.unhcr.it/risorse/statistiche in data 18 maggio 2018.

  3. Si allude ad un insieme di attentati terroristici a nome dell’ISIS e alle recenti modifiche sull’accoglienza agli stranieri in alcuni paesi europei: Germania, Francia, Svezia, Danimarca e Gran Bretagna. In particolare, mentre sto scrivendo questo testo, l’attuale governo italiano ha deciso di chiudere i porti alle navi delle Ong cariche di migranti, rimettendo in discussione il patto di Dublino.

  4. Diritto di cittadinanza acquisito per nascita sul territorio.

  5. Il disegno di legge utilizza il termine di “ius culturae”. L’espressione “ius scholae” è stata introdotta successivamente dal Ministro Fedeli.

  6. Di cui almeno uno sia in possesso di regolare permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo.

  7. In caso di minori nati da coppie miste (dove un genitore è italiano e l’altro straniero), questi acquistano automaticamente la cittadinanza italiana se il genitore italiano riconosce il proprio rapporto di filiazione con il figlio.

  8. Salvo il caso in cui sia nato in Italia con entrambi i genitori ignoti o apolidi (ovvero privi di una qualunque cittadinanza); oppure nel caso in cui non segua la cittadinanza dei genitori in base alla legge dello Stato al quale essi appartengono (Legge 91/92, art. 1, co. 1).

  9. La residenza legale presuppone l’adempimento alle norme relative all’ingresso e al soggiorno degli stranieri in Italia e a quelle relative all’iscrizione anagrafica (DPR 572/93, art.1, co. 2). Un importante compito dei genitori, pertanto, è quello di richiedere il permesso di soggiorno per il figlio (oppure che fino ai 14 anni questi sia iscritto sul loro permesso di soggiorno) e di registrarlo all’anagrafe. Se ciò non avviene, una recente modifica legislativa concede al minore con genitore inadempiente la possibilità di dimostrare il possesso dei requisiti richiesti attraverso apposita documentazione (per esempio con certificati medici, iscrizione scolastica…). Anche l’Ufficio di stato civile del Comune di residenza è tenuto a comunicare al cittadino straniero nato in Italia – nei sei mesi precedenti la sua maggiore età – la possibilità di presentare richiesta di cittadinanza; se questo non avviene per inadempienze, la dichiarazione di voler acquisire la cittadinanza può essere presentata dal soggetto anche dopo il 19° anno di età (Art. 33, co. 1 e 2 del D.L. n. 69/2013, convertito, con modificazioni dalla legge 98/2013).

    In presenza dei requisiti richiesti, l’acquisto della cittadinanza per nascita e residenza in Italia si profila come un diritto soggettivo del cittadino straniero, indipendentemente dal suo reddito o da precedenti penali; più complesso e macchinoso, invece, l’ottenimento della cittadinanza in età adulta per naturalizzazione, atto discrezionale dipendente dalla valutazione di diversi elementi, tra cui l’autosufficienza economica, l’affidabilità a livello fiscale e l’assenza di precedenti penali (Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione [ASGI], 2014). Ulteriori modalità per acquisire la cittadinanza sono l’adozione, la filiazione e il matrimonio.

  10. I migranti sono gli unici soggetti a non godere di diritti politici nelle democrazie occidentali; lo stesso vale anche per i minori, che però sono tutelati dalle convenzioni sui diritti umani.

  11. Ci si riferisce in particolare all’art. 28 della Convenzione sui diritti del fanciullo, che stabilisce che “Gli Stati Parti riconoscono il diritto del fanciullo all’educazione, ed in particolare, al fine di garantire l’esercizio di tale diritto gradualmente ed in base all’uguaglianza delle possibilità: a) rendono l’insegnamento primario obbligatorio e gratuito per tutti; b) incoraggiano l’organizzazione di varie forme di insegnamento secondario sia generale che professionale, che saranno aperte ed accessibili ad ogni fanciullo e adottano misure adeguate come la gratuità dell’insegnamento e l’offerta di una sovvenzione finanziaria in caso di necessità”; all’art. 2 del Protocollo addizionale CEDU, che ricorda come “Il diritto all’istruzione non può essere rifiutato a nessuno”; all’art. 14 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (“Ogni individuo ha diritto all’istruzione”) e all’art. 34 della Costituzione italiana (“La scuola è aperta a tutti”).

  12. Il D.Lgs. 286/1998, art. 38, co. 1 chiarisce che “I minori stranieri presenti sul territorio sono soggetti all’obbligo scolastico; ad essi si applicano tutte le disposizioni vigenti in materia di diritto all’istruzione, di accesso ai servizi educativi, di partecipazione alla vita della comunità scolastica”; e il DPR 394/1999, art. 45, co. 1 “I minori stranieri presenti sul territorio nazionale hanno diritto all’istruzione indipendentemente dalla regolarità della posizione in ordine al loro soggiorno, nelle forme e nei modi previsti per i cittadini italiani. Essi sono soggetti all’obbligo scolastico secondo le disposizioni vigenti in materia. L’iscrizione dei minori nelle scuole italiane di ogni ordine e grado avviene nei modi e alle condizioni previsti per i minori italiani”.

  13. “Il sistema educativo di istruzione e di formazione si articola nella scuola d’infanzia, in un primo ciclo che comprende la scuola primaria e la scuola secondaria di primo grado, e in un secondo ciclo che comprende il sistema dei licei e il sistema dell’istruzione e della formazione professionale” (L. 53/2003, art. 2, co. 1 lett d).

  14. Si intende come obbligo formativo il dovere di istruzione e formazione.

  15. Le regioni che nell’A.s. 2016/2017 hanno aderito alla procedura di acquisizione online sono: Lazio, Liguria, Lombardia, Molise, Piemonte, Veneto, Sicilia (MIUR, 2018a, p. 42).

  16. Ulteriori approfondimenti critici – a livello pedagogico – sulla terminologia utilizzata in letteratura per indicare i figli di immigrati sono presenti in Granata (2011).

  17. Si fa riferimento a quanto previsto dal MIUR nell’Area d'intervento – Aree a rischio e a forte processo immigratorio, consultabile al link http://hubmiur.pubblica.istruzione.it/web/istruzione/dg-studente/orientamento/aree_intervento-aree_a_rischio_e_a_forte_processo_immigratorio.

  18. Per evitare fenomeni di segregazione scolastica, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è espressa affinché interventi differenziali siano attivati solo se finalizzati a promuovere pari opportunità, fondandosi su un’adeguata valutazione delle competenze di partenza possedute dallo studente non italofono e monitorando progressivamente i progressi compiuti al fine di permettere di riprendere il programma nella classe ordinaria nel più breve tempo possibile (ASGI, 2014, p. 16).

  19. Tra questi, si ricordano le Linee guida per le istituzioni scolastiche e formative della Provincia di Trento, Del. n. 747 del 20/04/2012 (PAT, 2012).

  20. Nell’art. 1 co. 1 si legge: “Per affermare il ruolo centrale della scuola nella società della conoscenza e innalzare i livelli di istruzione e le competenze delle studentesse e degli studenti, rispettandone i tempi e gli stili di apprendimento, per contrastare le diseguaglianze socio‐culturali e territoriali, per prevenire e recuperare l'abbandono e la dispersione scolastica, in coerenza con il profilo educativo, culturale e professionale dei diversi gradi di istruzione, per realizzare una scuola aperta, quale laboratorio permanente di ricerca, sperimentazione e innovazione didattica, di partecipazione e di educazione alla cittadinanza attiva, per garantire il diritto allo studio, le pari opportunità di successo formativo e di istruzione permanente dei cittadini, la presente legge dà piena attuazione all'autonomia delle istituzioni scolastiche di cui all'articolo 21 della legge 15 marzo 1997, n. 59, e successive modificazioni, anche in relazione alla dotazione finanziaria”.

  21. La Legge 107/2015 delega alle istituzioni scolastiche – senza ulteriori oneri per la finanza pubblica – il raggiungimento degli obiettivi formativi individuati come prioritari tra un elenco di 17, tra cui inserisce anche lo “sviluppo delle competenze in materia di cittadinanza attiva e democratica attraverso la valorizzazione dell’educazione interculturale e alla pace, il rispetto delle differenze e il dialogo tra le culture, il sostegno all’assunzione di responsabilità nonché della solidarietà e della cura dei beni comuni e della consapevolezza dei diritti e dei doveri; potenziamento delle conoscenze in materia giuridica ed economico-finanziaria e di educazione all’autoimprenditorialità” (art. 1, co. 7 lett. d). Sempre nello stesso art. 1, co. 7, lett. r si legge: “Alfabetizzazione e perfezionamento dell’italiano come lingua seconda attraverso corsi e laboratori per studenti di cittadinanza o lingua non italiana, da organizzare in collaborazione con gli enti locali e il terzo settore, con l’apporto delle comunità di origine, delle famiglie e dei mediatori culturali”.

  22. Indica un’informazione quantitativa sintetica, esprimibile come percentuale o proporzione tra variabili.

  23. L’incremento delle iscrizioni degli studenti stranieri è riconducibile non solo all’aumento degli studenti di cittadinanza non italiana, ma anche alla diminuzione degli studenti italiani, a causa di un declino generalizzato della natalità nelle famiglie italiane.

  24. Con questa definizione si vogliono comprendere le diverse tipologie di studenti “non italiani” che hanno un impatto sul sistema scolastico, sull’equità sociale e sul successo formativo. Oltre a quelli descritti di seguito, altri gruppi di studenti migranti sono i minori stranieri non accompagnati, spesso provenienti da contesti drammatici e da esperienze dolorose e traumatiche, che necessitano di una presa in carico non solo pedagogica ma anche psicologica; i figli di adozioni internazionali, che acquisiscono la cittadinanza italiana dai genitori adottivi; i rifugiati e i richiedenti asilo, con uno specifico status giuridico protetto a livello internazionale; i Sinti e i Rom, che pur avendo spesso la cittadinanza italiana appartengono ad un’altra etnia con bisogni formativi differenti.

  25. Anche se alcuni autori interpretano la valenza integrativa ed inclusiva dei percorsi di istruzione e formazione professionale (IeCP) come una “diversa ma uguale opportunità” (Santagati, 2015), di fatto questi limitano una possibile diretta transizione all’università e si possono prefigurare, pertanto, come un trasferimento di carattere “discendente”(Ventura, 2012b).

  26. Si ipotizza che una parte di coloro che lasciano la scuola potrebbe essere transitata nel sistema regionale di istruzione e formazione professionale, senza averne dato comunicazione.

  27. Pur se generate da contesti storico-geografici diversi, numerose sono le analogie riscontrabili tra la Lettera ad una professoressa della Scuola di Barbiana (1967) e la Pedagogia degli oppressi di Freire (1968/2011), ispirate da una comune influenza di un cristianesimo cattolico radicale (Mayo, 2013): la concezione dell’educazione per la giustizia sociale; l’assunzione dell’impegno come valore; l’educazione concepita come atto politico; l’impatto della scuola sulla comunità oltre sterili ideali romantici; la scelta educativa dell’“essere” piuttosto che dell’“avere” – adottando la distinzione proposta da Erich Fromm – per educare ad una cittadinanza critica; l’enfasi dell’educazione come esperienza (Dewey, 1938), valorizzando il “qui e ora” e promuovendo esperienze attive di dialogo, indispensabili per la costruzione di una consapevolezza sociale critica, e non da ultimo il ruolo degli insegnanti come “transformative cultural worker” nell’accezione gramsciana (Giroux, 1988), con una funzione trasformativa ed emancipante nei confronti degli studenti. A livello pedagogico, Freire e Milani valorizzano l’autonomia dell’apprendimento e sottolineano l’importanza di uno spazio che riaffermi la dimensione collettiva della conoscenza, concetto – questo – quanto mai attuale ed in contrasto con una “nozione di cittadinanza basata sull’ideologia di un individualismo competitivo così endemico da capitalizzare le relazioni sociali” (Mayo, 2013, p. 95/mia traduzione).