1 Introduzione
In tempi di flipped classrooms, di scuole senza zaino, insegnanti-registi, ambienti didattici digitali, supponenti sconfessioni di uno dei cardini della tradizione scolastica occidentale, la lezione, pur tra segnali di tendenze contrastanti questa chiassosa vulgata,1 ha ancora senso tentare di rispondere alla domanda che intitola questo breve lavoro? Ovviamente sì, almeno per chi scrive. Con l’avvertenza che la questione oggi si propone con un’urgenza davvero indifferibile, se si vogliano presidiare i confini della razionalità pedagogica sviluppatasi nel cosiddetto Occidente, le cui radici in realtà sono ben diramate nel Vicino Oriente e nel vasto bacino geografico, multiculturale e multireligioso del Mediterraneo; se si voglia contrastare un soffocante ‘presentismo culturale’ che ha perduto capacità prospettiche e slancio ideale e che appare impegnato, nella provincia del campo della cultura di cui qui ci occupiamo, a disegnare banalizzanti (e lucrose) formalizzazioni di lacerti decontestualizzati del sapere storico dell’educazione, proposte come (improbabili) panacee di una scuola derelitta, vecchia e malata, periclitante e tardiva realtà epigonale di una tradizione ormai spenta.
Ma non è questo, alla fine, l’antico motivo per il quale padri (e maestri) vanno uccisi per conquistare la propria autonomia di eredi senza più vincoli? Potrebbe esserlo, probabilmente, ma ciò che invece manca è proprio la consapevolezza storico-critica della situazione presente, e dunque di quella profondità temporale continua in cui si colloca la dialettica padri-figli, maestri-discepoli, situazione emergente da un sistema di rappresentazioni culturali sincronicamente e diacronicamente assai complesso, strutturato e stratificato, continuamente mutevole, nel quale, parafrasando Paolo, “viviamo, respiriamo, siamo”, checché se ne voglia. Liquidare sbrigativamente i conti con il passato non è che un modo per evitare di fare i conti con esso; di prenderlo, e di prenderci, sul serio.
Questo contributo non intende opporre a quanto così sommariamente descritto lunghe e articolate riflessioni storico-filosofiche. Utilizza piuttosto un pretesto, di distinto rango e autorevolezza, nonché opportunamente prossimo ai nostri anni, per ripercorrere, grazie a un testimone di cultura privilegiato, alcuni tratti di un Idealtypus pedagogico, la cui evocazione temporalmente prossima non ne oscura affatto i connotati di modello di ‘lunga durata’ storica: il maestro. Il testimone cui si è fatto cenno è la filosofa spagnola, lungamente vissuta, nella sua erranza, anche in Italia, María Zambrano (1904-1991), allieva originale di Ortega y Gasset, figlia di un maestro elementare, poi insegnante di pedagogia nella scuola normale (Tarantino, 2010). Due eredità, queste, che segneranno a fondo la sua filosofia della “ragione vitale” e della “ragione poetica”, per dare voce all’essere umano integrale, dando luogo a un ripensamento radicale dei principi del razionalismo occidentale, oltre idealismo e materialismo, costruendo, a partire dal pensiero del suo maestro, quella che potremmo definire la via iberica (non volendo dimenticare le pagine eretiche della prosa e del pensiero poetante del portoghese Fernando Pessoa) alla fenomenologia dell’esperienza vissuta e vivente, tesa, con lei, a costruire e ricostruire in una dialettica ininterrotta il “sapere dell’anima” (Boella, 1998; Ortega Muñoz, 2001; Prezzo, 2006; Tarantino, 2008; Tarantino, 2014; Tarantino, 2015; Cacciatore, 2013). Sono stati molti, anche in Italia, ma non solo, coloro che, oltre alla citata Tarantino, hanno sviluppato pedagogicamente le intense suggestioni della riflessione zambraniana, ma non è possibile attardarci in una discussione esauriente (Mortari, 2006; Mortari, 2015; Mortari, 2017; Casado & Sánchez-Gey, 2007; Casado & Sánchez-Gey, 2008; Antequera Gallego, 2009; Russo, 2016).
Le pagine testimoniali cui ci riferiamo (Zambrano, 2007/2008), pubblicate nel 2007 in Spagna, a Málaga, per iniziativa della Fundación María Zambrano e per la cura di Ángel Casado e Juana Sánchez-Gey, con il titolo Filosofìa y educación. Manuscritos, raccolgono articoli e brevissimi saggi della Zambrano, alcuni, scritti perlopiù a Roma, preparati per alcune riviste di Puerto Rico, avendo la Zambrano nel 1963 stipulato un contratto con il Dipartimento di Istruzione Pubblica dell’isola caraibica, gli altri o editi in alcuni suoi testi o, in grandissima parte, rimasti inediti, talvolta con carattere frammentario. Accanto a questi, abbiamo posto un significativo e partecipe saggio dedicato dalla filosofa a José Ortega y Gasset (1883-1955), suo maestro, come ricordato (Zambrano, 1964/2004, pp. 93-117), il rapporto con il quale fu intenso e originale, perché, muovendo dalla “ragione vitale” del maestro, volle orientarsi in direzione della “ragione poetica”, esplorando orizzonti di senso appena sfiorati da Ortega, come il mondo della poesia e del sogno, appunto, o il pluriverso dell’esperienza religiosa, avvicinandosi ad altre, divergenti voci fondamentali della cultura ispanica, quali Unamuno e Machado (De Monticelli, 1997; Savignano, 2004; Blundo Canto, 2006; Zucal, 2009).
2 Il ricordo di un maestro, Ortega y Gasset
Entriamo dunque, senza altri indugi, nel cuore della questione, che occupa molto il pensiero della filosofa ispanica (Gómez Cambres, 2000), se non altro per il forte legame, morale e intellettuale, con la sua maggior guía, alla quale dovette la realizzazione della propria vocazione filosofica, quella di “vivere pensando” (Zambrano, 1997, p. 128).
La strada va subito sgombrata da un possibile equivoco: se dotto (o dottore) è chi sa, maestro (o professore) è chi sa insegnare (Zambrano, 2007/2008, p. 111). Da qui si parte e vedremo presto che ciò non ci conduce nel didatticismo, ma verso il centro di una consapevolezza filosofico-pedagogica della vocazione propria, specifica e irrinunciabile del maestro. Procediamo per esclusione. Saper insegnare non è affatto consegnare all’interlocutore risposte già pronte e confezionate, congruenti al patrimonio dei saperi tràditi. Ne rappresenta piuttosto l’antitesi più netta, come già ben sapeva Piaget, autentico maestro (suo il celebre adagio: se si vuole impedire a qualcuno di imparare qualcosa, il modo migliore è quello di insegnarglielo). Niente di più efficace, a rovescio, che precedere e surrogare l’impellente emergenza delle domande con la didascalica genericità di risposte standardizzate a quesiti insussistenti nella mente dell’allievo. Allora il maestro è forse chi sa rispondere alle ‘tue’ domande? Per Zambrano è troppo e troppo poco. Poco, perché il maestro è più impegnato a domandare che a rispondere. Troppo, perché non ha ‘già’ le risposte alle ‘tue’ domande, ossia a quelle pertinenti al mondo di vita e di senso dell’allievo nel dinamismo situazionato (concetto carissimo a Zambrano) del suo processo formativo. Forse, tuttavia, è davvero maestro colui con il quale impari a porre domande, le tue; e a cercare risposte, le tue e non le sue, senza saziarti mai, senza spegnere la sete.
Aldo Capitini, trattando da par suo dell’atto di educare, scriveva: “La nostra esperienza ci dice che più di tutti ci ha educato chi ci ha dato l’impressione pura di un valore e chi ci ha fatto sentire la netta distanza da una realtà più vera” (Pomi, 2010, p.7). E qui, com’è evidente, si raccorda il piano dei saperi con quello dei valori, come esemplarmente farà anche Zambrano nella sua finissima ricognizione filosofica. Il cenno capitiniano, così essenziale nel suo pensiero non solo pedagogico (Capitini, 2010; Pomi, 2005; Romano, 2016), all’avvertimento di una distanza, alla tensione tra due realtà delle quali maestro e allievo partecipano, e al loro drammatico dislivello, trova un rimando assai forte anche nella nostra, quando ci racconta che “l’esistenza storica comincia a partire da un’unità che si perde” – che è sempre perduta – e che l’esistenza è proprio “lì dove c’è scissione nell’essere umano e la inevitabile primaria e determinante separazione del suo essere con tutto e con il tutto”; scissione che non si guarisce guardando indietro, ad una mitica origine, ma forse soltanto quando “l’essere vero”, nel suo “farsi”, si “affida al futuro” e fa della propria educazione un “impegno umanizzatore” e l’attivo “vedere sé stesso come larva, conato d’essere, che non è interamente né può cessare di essere quel che è”; qualcosa al quale è dato “questo sentire che è sentirsi nella nascita illimitata”, nella “direzione di ciò che non è verificabile”, sperimentando il vivere come ricerca di più vita e più-che-vita, un “trascendimento”, un “dirigersi verso qualcosa che guida e che sta oltre”, battendo un terreno dove “in principio non c’è già cammino” (Casado & Sánchez-Gey, 2007/2008, pp. 28, 21; Zambrano, 2007/2008, p.189, 156). Tutto ciò ci porterebbe però troppo lontano dai nostri più modesti obiettivi.
Accontentiamoci, per ora, di ripercorrere il breve ritratto che Zambrano ci restituisce del suo maestro, per poi esporre e commentare per cenni quanto tratteggerà nei suoi manuscritos. L’esordio è eloquente: “Il pensiero di un maestro… è un aspetto che è quasi impossibile separare dalla sua presenza viva. Perché il maestro, prima di essere uno che insegna qualcosa, è qualcuno dinanzi al quale ci siamo sentiti vivere in quella particolare relazione che non procede soltanto dal valore intellettuale” (Zambrano, 1964/2004, p. 93). È presenza, parola presente, presenza fatta parola, il maestro; presenza che istituisce una relazione, la tiene desta e viva, permanente e mobile; presenza che agisce non soltanto in forza del suo sapere, ma della integralità umana (concetto decisivo della koinè culturale ispanica che fu della nostra e prima di Ortega e Machado) del suo esserci, del suo essere-a-noi, per-noi (chi sorride con supponenza quando ascolta don Milani dichiarare di non leggere, non studiare, non pensare altro che per i suoi ragazzi, per giovare ai suoi ragazzi, ha qui di che riflettere…). Relazione duplice e ambivalente, che attira a sé ed egualmente lascia essere l’altro e lo spinge nella direzione della sua autenticità: “Se siamo stati davvero suoi discepoli, vuol dire che egli ha ottenuto da noi una cosa in apparenza contraddittoria: che avendoci attratti a sé siamo giunti ad essere noi stessi” (ibidem). Ciò è reso possibile dal maestro, dalla sua presenza inesorabilmente compresente agli anni della giovinezza, a quegli stessi umori, odori, sensazioni, spezzoni di immagini, emozioni che la memoria adulta – almeno quella della Zambrano – conserva gelosamente. Non ci si stupisca di questo: il pensiero penetra nella vita, la intride nelle fibre più intime e, non cessando d’essere pensiero, “ha reso la vita più vita; perché il pensare rende la vita più viva” (Zambrano, 1964/2004, p. 94).
I frutti permanenti dell’azione del maestro, pensiero in atto, parola che si fa presenza di integrale umanità, sono “ordine”, “chiarezza”, e qualcosa di meno nitido ma non meno reale e consistente, “autenticità”: l’emergenza, osserva Zambrano, del nostro “fondo vero”. Dapprima il maestro distrugge la confusione della mente inesperta, abbatte “sottilmente le pareti che isolando i pensieri gli uni dagli altri li convertono in ossessioni, fanno di ogni idea un ostacolo”: questa è opera di “ordine” (Zambrano, 1964/2004, p. 95). Quindi occorre dar tempo e modo a questo ordine intellettuale di “insinuarsi oltre” e, in virtù della sua forza performante, “atterrare il muro che nell’adolescente separa l’intelligenza dall’anima”, permettendo alla vita di respirare nell’aria tersa del pensiero, di raschiare le sue opacità, di farsi infine sempre più “trasparente”: ecco l’opera della “chiarezza” (ibidem). Più tardi, “forse molto più tardi”, nota la filosofa, ma non importa quanto più tardi, “sorgono i problemi propri, quelli della nostra vita e del nostro pensiero”: emerge gradualmente – tra scosse e tentennamenti, arretramenti e timidi passi innanzi, vorremmo aggiungere – “il fondo vero, segreto, che correva il rischio di rimanere non rivelato”; alla fine, la “quaestio magna” di Agostino, che sa di doversi cercare senza fine nella specola del mondo e del cielo, e non l’inganno di Narciso, illuso da una pozza d’acqua.
E così, grazie ai nostri maestri, “siamo entrati nella vita originale, autentica”. Abbiamo imparato, infine, a pensare “partendo da noi stessi, e ciò avviene non coi pensieri del maestro, ma a partire da essi, cioè dall’ordine e dalla chiarezza che hanno lasciati; dall’autenticità alla quale eravamo stati preparati” (ibidem). Ci sembra una pagina esemplare, tra le più nitide e insieme commosse della filosofa spagnola, e non sarà un caso se, nel concludere questo bellissimo ritratto dal vivo del suo e di ogni discepolato, ricordi con un rapido cenno che non nasconde l’orgoglio che “si sia dato il caso di discepoli che pensando i propri pensieri, quelli che corrispondevano all’autenticità della loro vita, abbiano condotto a compimento alcuni pensieri del maestro” (Zambrano, 1964/2004, p. 96, corsivo nostro). Lo vedremo più avanti: una volta che il discepolo entri nella sua “nascita illimitata”, comincia quel “dialogo” che fa dei due una sola compresenza di pensieri in atto, quella “ragione vivente”, plurale e interlocutoria, che, per entrambi, fu il filosofare.
3 La vocazione del maestro: risvegliare all’altrimenti
È dunque chiaro che il vero maestro non chiede di essere come lui, ma propone di fare come lui. La sua “forza di attrazione” non spinge alla “mimesis”, perché il suo è un appello alla coscienza, alla sua luce ragionante, scrive Zambrano, e dunque all’azione conseguente, autonoma, responsabile. Si è passivi imitando, spiega, e invece sempre attivi quando “si segue l’esempio” (Zambrano, 2007/2008, p. 71). Il maestro è “guida” e non modello. La sua presenza “non trasmette una rivelazione”, semmai “enuncia… talvolta indica solamente”: il suo esserci può essere appena un discreto, oculato far cenno, aprire uno spazio vergine allo sguardo, disegnare un varco all’altrove e all’altrimenti. “Una guida”, annota la nostra in un altro suo saggio, “offre prima di tutto… una certa musica, un ritmo o una melodia che colui che è guidato deve catturare seguendola”. Come già si è detto, l’allievo, lo scolaro, il discepolo “bisogna che parta da sé, dallo stato in cui si trova, bisogna che si risvegli, prendendo coscienza” (Zambrano, 1989, pp. 30-34).
Già in una lettera a Agustín Andreu del luglio del 1975 Zambrano proponeva la sua idea del maestro come guía, e del discepolato attivo e creativo, invitando i maestri a tenersi rigorosamente “al bordo di quel mistero dell’essere di ciascuno che è la sua vocazione”. Solo chi è lasciato libero di nascere, può compiere la sua vocazione. La prima risposta del maestro alla “domanda di riconoscimento del discepolo” – per la quale soltanto l’ascoltatore-interlocutore guadagna quell’arduo status pedagogico-esistenziale – non è che quella di “lasciarlo intatto sulla via del risveglio”. “Ho avuto maestri così”, sottolinea, “e di ciò do testimonianza” (cit. in Casado & Sánchez-Gey, 2007/2008, p. 19).
Ma questo lasciar libero l’altro di essere ciò che potrà essere, questo risvegliare all’altrimenti di sé, che è la vocazione personale di ciascuno, intesa come chiamata a dare esistenza a qualcosa delle infinite possibilità impellenti nella ‘nascita’ alla coscienza responsabile dell’esistenza consapevole, nel fuoco della sua circostanza e situazione storica, non è, da parte del maestro, un abdicare alla sua stessa “vocazione” – che non è, precisa opportunamente la nostra, una semplice “professione” o tantomeno una mera “occupazione” o “impiego” (Zambrano, 2007/2008, p. 99). Anche il maestro, come ogni essere umano, non è che “una promessa di realizzazione creatrice” (Zambrano, 2007/2008, p. 100). Rispondere di questa promessa, a sé e di fronte agli altri, è un dovere esistenziale, e sociale, imprescindibile. Mancherebbe a ciò il maestro, se volesse dimenticare ciò che è: “chi ha una vocazione non può liberarsene, nonostante la possa sentire come una servitù” (Zambrano, 2007/2008, p. 109).
E se magister viene da magis, avverbio comparativo, ciò non può significare altro, per Zambrano, che il maestro “ha dovuto arrivare ad esser… più di quello che lui stesso era prima di arrivare ad esserlo” (Zambrano, 2007/2008, p. 111). Prima che maggiore di altri, egli ha dovuto essere maggiore di ciò che era, lavorare a fondo su di sé per cercare un “compimento”. Ora, solo ora, acquisisce il dovere di comunicare ad altri il suo insegnamento, ossia ottiene la sua vocazione: non farlo, lo trasformerebbe in una goffa “controfigura” di sé. Ora egli “si trova in una prova senza fine, a ogni momento”, la sua azione è “un esame perpetuo, una continua prova” (ibidem). Ha gratuitamente ricevuto – questa curvatura evangelica non crediamo dispiacerebbe a Zambrano – quanto dovrà gratuitamente dare.
Per questo l’insegnamento non è una occupazione, un impiego. Non sono in questione doveri estrinseci di ruolo o di status, né il sacrosanto diritto alla giusta mercede. Sono aspetti secondari, derivati. Per chi vi è giunto, essere maestro è essere, e basta. Non potrebbe non esserlo, senza tradirsi. Ma come è pervenuto a essere maggiore di ciò che era, è divenuto anche maggiore di chi ora lo guarda e aspetta la sua parola, i suoi gesti, i suoi atti. Quell’azione di “trascendimento” che ha esercitato su di sé, quella “fuoriuscita” dall’essere suo, “dai confini che gli appartengono” – gli appartenevano – “per andare a riversarsi oltre”, quel “concentrarsi in sé stesso per manifestarsi con maggior pienezza” (Zambrano, 2007/2008, p. 106), quel suo inesorabile trascendere in cui la Zambrano riconosce un “mediare, un andare e venire” tra gli estremi dell’esser-già e dell’essere-altrimenti (Zambrano, 2007/2008, p. 112), esige che egli, che lo ha già fatto e sempre lo fa per sé, lo faccia per chi è più indietro nel cammino della propria vocazione, dato che trascendersi è per tutti l’imperativo esistenziale: “tutta la vita è forma o la persegue” (Zambrano, 2007/2008, p. 115), un “marciare verso qualcosa, ma anche attraverso qualcosa… verso qualcosa che guida e che sta oltre”. Questo trascendere, precisa Zambrano, somiglia ad un “passare attraverso” che pure paradossalmente non “abbandona” quanto oltrepassa (Zambrano, 2007/2008, pp. 156-157).
Essere “in trasformazione, in transito”, davvero “creatura impari” proiettata verso il futuro di sé e del mondo (Zambrano, 2007/2008, p. 126), l’umano è impegnato nell’esercizio del trascendere in quanto essere-in-educazione. Ma il suo “risvegliarsi alla realtà” per trascenderla, perché “non sommerga l’essere e ciò che gli è proprio, non lo opprima e non si precipiti su di lui”, non può rovesciarsi in un esiziale abbandono della realtà, in una uscita “dalla realtà”. Qui interviene il maestro: “educare significa fare in modo che non esca dalla realtà, in mancanza di quell’assistenza che l’essere umano deve pagare come pegno costante a tutto ciò che lo circonda”. La paradossale tensione del crescere alla vita necessita di quella “assistenza” che l’umano deve all’umano, vincolo di solidarietà che ci fa essere ciò che siamo. In forza della diade educatore-educando diviene possibile quello “scoprire e sostenere la realtà” che “fa scoprire sé stessi, fa comparire (corsivo nostro)”, venire all’esistenza consapevole: “Realtà ed essere si sposano: l’uomo fa essere la realtà, la salva… Elevando la realtà fino all’essere, l’uomo sta realizzando il reale, sta riempiendo di realtà il suo essere e la sua sostanza di vita” (Zambrano, 2007/2008, p. 159).
La vita umana, suggerisce Zambrano, è “un viaggio di conoscenza verso la realtà”, ed è così “avvolgente e inesorabile” che non può aprirsi alla compresenza intelligente e fattiva dell’umano se non “chiedendo” di “essere cercata”. Ma questo, prosegue, “esige una morale che sostenga l’anima e indirizzi la volontà verso di essa, che tempri il cuore e la sensibilità”; esige l’educare, chiama in causa la “vocazione” morale e intellettuale del maestro (Zambrano, 2007/2008, p. 153). Non si può fare a meno del maestro, allora.
Il maestro è, deve essere, “mediatore rispetto all’essere mentre cresce, e crescere per l’uomo non è solo aumentare ma anche integrarsi” alla realtà, nei termini in cui si è detto. E perciò il maestro sarà “mediatore… tra il sapere e l’ignoranza, tra la luce della ragione e la confusione in cui inizialmente ogni uomo è solito stare”. Potrà farlo comunicando quei “saperi multipli e diversi” – oggi più che mai – di cui ogni essere umano ha bisogno “per integrarsi, per crescere in senso propriamente umano” (Zambrano, 2007/2008, p. 113, corsivo nostro). Per trasformare, vorremmo dire, o meglio per compiere, la sua natura in cultura, riscattando “l’essere e la ragione, la verità e la vita, per l’esistenza concreta dell’uomo”. Per essere, come già ricordato, vita che cerca più vita e più-che-vita, facendo del proprio “germe” – che include vita e ragione e l’urgenza d’essere persona autonoma e integralmente responsabile – una forma in continuo transito di forma in forma, come amava dire, jaspersianamente, Enzo Paci. Perché, anche grazie al maestro, discenda “sulla ragione bene e verità, anche armonia e ordine, fondamenti della bellezza giustamente in funzione dell’essere” (Zambrano, 2007/2008, p. 114).
4 La tentazione della rinuncia
Chi nasconde quanto ha ricevuto, o se ne vergogna, o teme di mostrarlo perché intuisce quanto sia duro quell’essere sempre in prova di cui sopra diceva Zambrano, lo vedremo ora, dimostra di ignorare, o codardamente rifiutare, che l’esercizio educativo è sempre, inesorabilmente, esercizio di potere, perché mediazione di potere tra chi ne ha e chi ne è destituito: potere d’essere, pensare, fare, agire.
Il potere, tuttavia, come ha esemplarmente mostrato Aldo Capitini, pur confitto in una radicale, oscura e ardua ambivalenza, è tanto potere di chiusura, quanto potere di apertura: asservimento, assimilazione, annullamento dell’altro o testimoniato e vissuto appello a quel “coraggio di esistere” che sarà donazione di senso e apertura inesausta all’imprevedibile avvento della vita (Pomi, 2012). Il maestro-mediatore della Zambrano esercita anzitutto questa funzione di apertura, questo potere di apertura, che lo mette integralmente in gioco nella relazione educativa. La nostra ne racconta paure e tentazioni ricorrendo quasi a una messa in scena, a un teatro filosofico.
Ecco l’aula vuota, sulla quale infine ci soffermeremo, gli studenti che entrano, la riempiono, attendono, curiosi, guardano l’insegnante che si fa avanti a sua volta (egli rappresenta ancora soltanto un ruolo, quello di chi esercita l’insegnamento, non è ancora un maestro: questo dovrà guadagnarselo proprio lì, davanti agli allievi). “Tutto dipende da ciò che accade in quell’istante che apre la classe ogni giorno; tutto dipende dal fatto che, nel confronto tra maestro e alunni, non si verifichi la rinuncia di nessuna delle due parti; dal fatto che il maestro non rinunci trascinato dalla vertigine, quella vertigine che assale quando si sta soli, su di un piano più alto del silenzio dell’aula, e dal fatto che non si difenda neppure dalla vertigine aggrappandosi all’autorità stabilita. La rinuncia trascinerebbe il maestro sullo stesso piano del discepolo, alla finzione di essere uno di loro… La reazione difensiva lo condurrebbe a dare per fatto quel che deve ancora farsi, perché una lezione deve essere offerta allo stato nascente” (Zambrano, 2007/2008, p. 118, corsivo nostro).
La lunga citazione ci sembra opportuna perché davvero, tipologicamente, esemplare. Che cosa insidia il costituirsi di una autentica relazione educativa tra l’insegnante e gli allievi, quanto, cioè, fa di loro un maestro e dei discepoli, ossia quanto non sono semplicemente in virtù della loro posizione istituzionale, ma possono essere unicamente per l’attivazione di una veritiera comunicazione pedagogica? La tentazione della rinuncia da parte del maestro: questo innanzitutto. Rinuncia che ha due facce: la vertigine, splendida parola-azione della Zambrano, e, più brutalmente, il dogmatismo, l’esiziale equivoco che fa della comunicazione una mera trasmissione. La vertigine è paura di mettersi integralmente in gioco, di esercitare il proprio potere di mediazione di potere; paura di non essere adeguato o adeguata (il maestro è uomo o donna, non fa differenza, e chi usa questo termine grammaticalmente solo al maschile è proprio una donna, peraltro assai consapevole e orgogliosa della propria identità di genere); paura della solitudine, perché essere ciò che è dipende soltanto da lui: tutto si decide grazie a lui. Sì, si può essere maestri anche di fronte ad alunni distratti, rumorosi, demotivati, persi nei social, assuefatti all’accidia della chiacchiera, che non vogliono imparare. Sì, sta al maestro sedurli, trarli fuori da loro stessi, mettendosi in gioco pensando per loro e con loro in prima persona.
Lo sapeva bene anche la Montessori: l’educazione comincia sempre con una seduzione. Con l’invito ad entrare nella relazione educativa; invito perentorio, perché esercitato da chi in quel gesto mette tutto sé stesso nell’integralità del suo chiamare l’altro a essere altro da ciò che già e comunque è. Il maestro, o è tale o non serve a niente. E sarà solo, finché non avrà chiamato altri a stare con lui, in classe, a fare classe, compagni nell’avventura dell’imparare. Naturalmente che tutto dipenda da lui non significa che sempre possa aver successo. Ma l’insegnante che non fa il maestro, che rinuncia a metter tutto in gioco per essere maestro, non avrà nessun diritto di contestare all’allievo la sua insipienza, la sua refrattarietà, il suo disinteresse. È il maestro che fa dell’allievo un discepolo, e non viceversa.
L’altro volto della rinuncia appare perfettamente speculare alla finzione di essere come l’allievo, alla paura di essere fedele alla propria vocazione e allo smarrimento che ne segue. L’autoritarismo nasconde, goffamente, la mancanza di autorevolezza; il dogmatismo, la capacità di offrire il sapere allo stato nascente, secondo la suggestiva espressione di Zambrano. Un sapere rimasticato, irrigidito, sequestrato in formule e schemi editi, non più interrogato e ravvivato a muovere dall’urgenza esistenziale del maestro e poi, conseguentemente, dell’allievo, occupa miseramente il posto di una vissuta e vivente comunicazione di cultura, “confluenza di sapere e non sapere ancora”, che realmente possa risvegliare e dare spazio e diritto d’essere alla “domanda che il discepolo porta scritta sulla fronte” e che potrà così, gradualmente, “manifestarsi e farsi chiara a lui stesso”, facendo dell’allievo, finalmente, un discepolo che è tale solo “quando gli si rivela la domanda che porta nascosta dentro”.
La duplice rinuncia sottrae all’allievo quel maestro di cui ha assoluto bisogno per iniziare a risvegliarsi alla maturità; risveglio che è “l’espressione stessa della libertà” di cercarsi e di gettarsi senza paura nella pur stremante complessità del mondo alla caccia di sensi e significati per cui valga la pena di spendere il meglio del proprio tempo e della propria vita. “Non avere maestro è come non avere a chi domandare e, ancora più profondamente, non avere colui al quale domandare a sé stessi; il che (significherebbe) restare chiusi all’interno del labirinto primario che in origine è la mente di ogni uomo; restare chiusi come il Minotauro, traboccante d’impeto senza via d’uscita” (Zambrano, 2007/2008, p. 118).
L’adolescente-minotauro ci pare davvero un’efficacissima immagine di qualcosa che noi, donne e uomini di scuola, conosciamo bene, assai da vicino. Energie esuberanti che non trovano sbocco, un fine prima che uno scopo, che non hanno modo di svincolarsi dalle forze centripete che avvitano gli adolescenti su loro stessi e le loro idiosincrasie, fragilità, paure, narcisistiche autoassoluzioni, assuefatti a un’esistenza liquida in cui, per mancanza di limiti, la vita non trova forma né può tendere a liberarsi nella rischiosa avventura di volere un destino, il proprio, pagando quel che c’è da pagare, godendo di ritrovarsi nella paziente inquietudine di una ricerca che restituisce in abbondanza quanto chiede a ciascuno.
L’adolescente-minotauro, anche se non lo sa ancora, chiede al maestro di “essere colui che apre la possibilità, la realtà di un altro modo di vivere, la realtà della vita vera”, fuori dal labirinto dell’immaturità (Zambrano, 2007/2008, p. 119). Ma ha bisogno di essere riconosciuto per ciò che è nella viva domanda di sé che magari maschera d’arroganza o abulia, e che troppe volte l’adulto elude o, peggio, soffoca di risposte improprie, inadeguate, vili, bugiarde. Ma ha bisogno di tempo, un “tempo vibrante e calmo, un risveglio senza soprassalti”, per liberarsi dall’aggressività scatenata dal proprio timore di prendere su di sé la propria vocazione esistenziale: l’aggressività del “Minotauro nel suo oscuro labirinto. In principio ogni vita è imprigionata, irretita nel proprio impeto”. Ancora una volta spetta al maestro, “senza dubbio”, precisa la nostra, far sentire “all’alunno che ha tutto il tempo per scoprire e per andare scoprendosi, liberandolo dalla densità dell’ignoranza dove la domanda si nasconde, liberandolo da quel timore iniziale che incatena l’attenzione” (ibidem).
Purtroppo chi non ha più tempo, non può donare tempo. Aveva ragione Nietzsche a dichiarare con la consueta sua sibillina acutezza che gli insegnanti – noi ormai diremo i maestri – sono coloro “che hanno ancora tempo”, sempre e nonostante tutto, il tempo di indugiare sulla via della loro e altrui formazione, tempo da perdere per cercarsi e cercare, tempo da regalare a chi ancora non sa di esserne stato derubato. Quel tempo che hanno ostinatamente imparato a custodire e valorizzare è il dono che i maestri possono offrire ai propri allievi, per farne discepoli.
5 La mediazione del maestro e l’iniziazione alla vita: nello specchio delle aule
Il luogo per eccellenza in cui il tempo si dona e condivide è, per Zambrano, l’aula. Mentre “ai giorni nostri bisogna sempre fare qualcosa; qualcosa che abbia un risultato immediato, tangibile, materiale” e “dà vergogna non poter dire ‘non ho tempo per fare niente’”, dimentichiamo troppo facilmente che “quel ‘niente’ può ben essere tutto. Tutto ciò che salva la condizione umana dal non precipitare nella vacuità, nel non senso”.
L’aula appare appunto il vuoto – è questa la sua radice – il niente che si fa “luogo e tempo disponibile… simbolo del tempo non occupato, del tempo in cui ci dedichiamo a pensare, a meditare e pregare, chi può farlo”; luogo straordinario e felicemente distonico che aiuta a vincere “l’orrore di ciò che è disinteressato” (Zambrano, 2007/2008, p. 184). Quel vuoto si riempie, lentamente, al passo tardo della formazione, di senso e di significati in gestazione, di valori umani e culturali, il cui spessore supera quello delle mere conoscenze e, diremmo oggi, delle tanto conclamate competenze: “Molti di coloro che sono passati attraverso di esse forse non hanno acquisito tante conoscenze, com’era necessario. Ma nel frequentare le aule è accaduto loro qualcosa; in esse si insegnò loro qualcosa di essenziale per essere uomini: a udire, ad ascoltare; a fare attenzione, a lasciare che il tempo passi senza rendersene conto volendo capire qualcosa, ad aprirsi al pensiero che cerca la verità. E molto di più: a stare di fronte a un maestro che rappresenta sempre, che è in verità, per poco brillantemente che compia il suo dovere, un mediatore”; colui che niente di meno rende possibile e plausibile “un’iniziazione alla vita”, vita di pensiero e di cultura, vita di sensi risvegliati all’avventura dell’esistenza, vita che cerca e persegue il proprio singolare, irripetibile valore (Zambrano, 2007/2008, pp. 184-185), e che impara, cercando, che il proprio tendere sarà un’inquietudine irrisolta eppure, misteriosamente, pacificante.
Purché quel maestro che accompagna il discepolo nella sua iniziazione alla vita di cultura e che insieme a lui riempie il vuoto dell’aula di tante tracce “del nostro essere e del nostro passo”, che fanno di quel luogo uno “specchio” verace di una pluralità di storie in atto fin nella vita degli oggetti che ci rispondono (Zambrano, 2007/2008, p. 65), non ceda all’ultima sua tentazione, potremmo dire, che la Zambrano non esplicita, ma che si lascia riconoscere in filigrana: la tentazione di Narciso.
Connessa all’altra terribile e meschina rinuncia – l’autoritarismo, il dogmatismo, tanto più debole quanto più prepotentemente ribadito – la tentazione narcisista del maestro insidia la vita del discepolo nel modo più sottile, vanificando la sua iniziazione al proprio, imbarattabile, destino. “Vedete come sono bello?”, sembra dire quel falso maestro, “Siate dunque come me; conformatevi allo splendore della verità che incarno e rifletto”. Mentre dovrebbe dire, lo abbiamo ricordato: fate come me, cercate e cercatevi, senza riposo. Se lo specchio delle aule restituisse una sola immagine, quella del maestro moltiplicata nei volti degli allievi, sarebbe soltanto un miserabile luogo di solitudine e di fallimento esistenziale, prima che culturale. Per fortuna Narciso non è un potente seduttore: sa incantare giusto quelli come lui, ovvero solo sé stesso. L’allievo sfugge a Narciso non appena si lasci, almeno un po’, attrarre dal lume, per quanto debole, che il maestro, anche il più pieno del proprio vuoto, ha permesso che filtrasse dal mondo di fuori, profittando di quelle pur brevi latenze di tempo che il discorso di Narciso ha lasciato, per riprendere fiato.
“Dare tempo e luce” sono gli “elementi essenziali di ogni mediazione” (Zambrano, 2007/2008, p. 119) e persino i maestri peggiori, spesso, ce ne possono offrire quel poco che basta per salvarci dalle loro rinunce e tentazioni. Anche la chiacchiera di Narciso non è eterna, ma occorre far tesoro dei provvidenziali intervalli di silenzio. Luce e tempo sono raccolti dal silenzio; il silenzio “che fa tacere il parlottio della psiche quando va liberata”; il silenzio “che è contenimento”, aria tersa che pemette di vedere, sentire, capire (Zambrano, 2007/2008, p. 65).
Luce, tempo, silenzio vincono almeno i narcisi meno abili e pericolosi (e sono i più, o così speriamo). Il mondo di fuori ci chiama, l’attenzione dilata e intensifica il tempo, la luce di qualcosa che non è nostro e che, per fortuna, non ci somiglia, ci seduce a muoverci, ad andare verso altro e altrove, verso un nostro possibile altrimenti. Ora il maestro non è più Tutto, ma solo una presenza viva accanto a noi che indica appena il principio di un cammino che intuiamo assai lungo e avventuroso. Comunque sia, gliene siamo grati. L’imitazione cede alla “ammirazione”. Egli non riempie più ogni nostro vacuo, piuttosto ci svuota della nostra troppa confusione, del nostro troppo io, ingorgato nei suoi sterili rovelli. Ascoltiamo, osserviamo, partecipiamo, meravigliandoci, parole, presenza, gesti e atti che additano e svelano altri mondi possibili, altre modalità di essere uomini e donne, il brusio di simboli che viene da altrove e che si affolla, ancora meravigliosamente, nell’aula e si lascia ascoltare, al quale, timidamente, associamo i nostri balbettii.
Anche in lui ci pare di cogliere una novità, qualcosa di diverso nei nostri confronti: la diremmo “stima”. I nostri balbettii hanno la sua attenzione, destano la sua curiosità, che si fa domanda partecipe, autentica, impegnata a capire insieme a noi che cosa ci sta accadendo. E ora in ‘ci’ è compreso anche lui, il maestro. Ma avviene di più: si interessa a noi, capiamo che siamo diventati importanti per lui, non solo in funzione di ciò che ha da dirci, in ragione del successo della sua mediazione, ma per la sua stessa ricerca, che è sempre in atto, lo sentiamo, e che lui condivide con noi. Si apre così uno spazio nuovo nell’aula, dove sono ora comparsi, finalmente, un maestro e dei discepoli: uno “spazio di speranza” (Zambrano, 2007/2008, p. 66). La speranza ancora indeterminata – ma ci sarà tempo perché diventi per ciascuno la sua propria speranza determinata in un destino che valga davvero la pena di vivere – nella forza dirompente, e capace di aprire mondi ignoti, del comprendere, dell’intendere, del sapere quanto ancora e sempre avremo da imparare.
Con lui, intanto. E poi mai veramente da soli, perché un maestro, un vero maestro, non ci abbandona mai. La comunicazione delle intelligenze in atto si mette in circolo e si “risveglia” nello stesso modo nel maestro e nell’allievo, “il quale solo allora comincia a essere discepolo. Nasce il dialogo” (Zambrano, 2007/2008, p. 119). E così, finalmente, ci siamo: l’opera del maestro è compiuta.
Era questa difatti la scienza da ricercare, la più necessaria: la scienza-arte di fare di un allievo un discepolo. La scienza di chi, dichiara Zambrano, evocando Aristotele, “si offre al dialogo, di chi in sé stesso è già dialogo”: il maestro. Perché soltanto chi vive del proprio dialogo con la moltitudine che lo abita e il multiverso del mondo, può chiamare altri alla parola che dona senso e significato; infine a ciò che altrove si è chiamato il coraggio di esistere. Senza dimenticare che “la parola del dialogo può restare molto tempo senz’altra risposta che il silenzio, guadagnando con esso, talvolta, in fecondità” (Zambrano, 2007/2008, p. 144).
“Interiorizzazione ed esteriorizzazione generosa” (Zambrano, 2007/2008, p. 107) sono le incruente armi del maestro, con le quali lotta contro la solitudine, la confusione, la mancanza di speranza. Contro gli ostinati silenzi dei suoi allievi. Ma ha dalla sua il vuoto accogliente dell’aula, la sua “disponibilità” a trattenere le voci, a offrire una cornice alla scena decisiva che vi si gioca, il suo essere aperta, essere una “apertura”, al gran gioco del mondo.
L’aula, questo mirabile congegno dell’intelligenza e della cultura umana, ribadisce con convinzione, e ci pare quasi con profetica energia, la filosofa spagnola. Uno spazio umanizzato per umanizzare l’umano, “una creazione che è parte della creazione propriamente umana che, prima ancora che in opere d’arte e di pensiero, consiste in una società dove tali opere possono nascere e vivere. Uno spazio dunque, diremmo, poetico” (Zambrano, 2007/2008, pp. 61-63).
Il nostro percorso, seguendo le suggestioni di Zambrano, è iniziato con l’evocazione di un grande maestro, Ortega y Gasset. È proseguito oltre, fino a delineare, con tratti nitidi e scarni, il profilo di un Idealtypus pedagogico di lunga durata storica, quello del maestro. Ne abbiamo così definito natura, vocazione, tentazioni, opportunità; abbiamo descritto il senso pedagogico dello spazio-tempo culturale in cui opera e, soprattutto, abbiamo riconosciuto i tratti essenziali e generativi della relazione educativa, indispensabile a umanizzare l’umano e a proiettarlo e sostenerlo nell’intrapresa dell’esistenza libera, consapevole, responsabile.
Non vorremmo aggiungere altro, ci sembra abbastanza. Per dirla con efficace informalità, la conclusione – intellettuale, civile, politica – pare scriversi da sola. È necessario che ci sia un maestro (uomo o donna che sia), perché ci siano dei discepoli. Le aule, senza maestri, rimangono desolatamente vuote.
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Cfr. l’importante convegno bolognese, promosso dal Centro Alberto Manzi, dall’Assemblea Regionale e dal Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna: “L’eredità dei grandi maestri. Storie di un passato da riscoprire per rispondere alle sfide del presente”, 8-9 aprile 2016. Per gli atti si veda il sito (http://www.zaffiria.it).↩