Nel suo saggio Connessi e isolati. Un'epidemia silenziosa lo psichiatra Manfred Spitzer descrive, con dovizia di riferimenti ad autorevoli studi e ricerche internazionali, la crescente condizione di solitudine degli abitanti, soprattutto più giovani, della contemporaneità (Spitzer, 2018). Spitzer, direttore della Clinica Psichiatrica e del Centro per le Neuroscienze e l’Apprendimento dell’Università di Ulm, già professore ad Harvard e autore di numerosi saggi che focalizzano i problemi legati all’utilizzo massiccio di digital media, è convinto che l’abuso degli strumenti digitali abbia conseguenze drammatiche relative alle capacità cognitive e alla competenza emozionale necessaria per i rapporti sociali. Solitudine tanto più terribile in quanto mascherata spesso dalla sua causa principale: l'eccedenza di relazioni virtuali in sostituzione di interazioni sociali autentiche, quelle che comporterebbero presenza, contatto di corpi, svolgimento di esse in contesti e situazioni reali. Fenomeno, sostiene Spitzer, che comporta non solo conseguenze dannose per l'equilibrio psicofisico degli individui ma, a lungo termine, ricadute preoccupanti sull'intera società. Gli hikikomori (termine giapponese) sono giovani auto segregati nelle loro camere domestiche. In Italia sono più di 100.000 giovani tra i 13 e i 30 anni, per lo più maschi, auto reclusi nella loro stanza e nel loro silenzio, prigionieri della rete e delle incomplete e inautentiche relazioni che si instaurano in essa, timorosi e incapaci di averne altre. Gli hikikomori, ovviamente, sono la punta dell’iceberg di un fenomeno che riguarda molti anzi, in un certo senso, ci riguarda tutti poiché, come ci fanno notare Giuseppe de Rita e Antonio Galdo nel loro Prigionieri del presente (De Rita & Galdo, 2018), viviamo in un contesto linguistico deformato e abbreviato, incapace di dare forma ad argomentazioni e narrazioni complesse. Ciascuno di noi, d’altra parte, può verificare quotidianamente come siamo inseguiti e perseguitati da un continuum di messaggi asfittici, da esibizioni di emozioni sproporzionate rispetto all’oggetto cui si riferiscono, da microfilmati dilettantistici, non di rado volgari, spesso carichi di violenza imbellettata con qualche tratto di comicità, che invadono i nostri smartphone, da messaggi promozionali di oggetti e idee rudimentali mescolati fra loro e formulati in modo compulsivo e sgrammaticato, presentati da testimonials improbabili e grossolani.
Mentre ero immerso nelle inquietanti considerazioni di Spitzer, anche per il bisogno di controbilanciare le apocalittiche considerazioni dello psichiatra tedesco, sono andato a ripescare un libro scritto dal filosofo estetologo Gianni Carchia: L’amore del pensiero (Carchia, 2000).
Carchia è stato un intellettuale profondo e delicato, morto purtroppo molto giovane, intorno ai cinquant’anni, tanto che il libro di cui stiamo parlando è stato pubblicato postumo e viene considerato una specie di testamento spirituale. Senza rinnegare il ruolo del filosofo come ricercatore di verità e intellettuale impegnato e responsabile «uomo del mondo», Gianni Carchia rivendica con determinazione, per il filosofo, le caratteristiche dell’artista. E se l’arte del novecento, abbandonando la ricerca di un’identità formale e tecnica, rivendica e pratica lo spazio concettuale, eidetico, spesso ideologico delle filosofie per elaborare e comunicare in forma visuale idee, Carchia arriva a questa identità di funzione e di essenza attraverso il percorso inverso, partendo da una concezione di filosofia capace di essere arte del significare, del collegare, dell’unire e scegliere in una logica che è anche armonia e bellezza della forma del pensiero. Riferendosi a Platone, Tommaso d’Aquino e Kant evidenzia il rapporto che esiste tra il filosofare (cioè costruire pensiero con il rigore della filosofia) e la dimensione della meraviglia. Carchia ci fa notare come la casa del pensare filosoficamente sia abitata non solo dal rigore razionale ma anche dall’incanto, persino dall’estasi, mantenendo il vantaggio di non perdere mai la coscienza dei limiti della condizione umana, della sua precarietà, perché l’eccitazione estetica del filosofare non è mai fine a se stessa: l’Eros filosofico libera mentre consente di acquisire consapevolezza critica, elaborare il principio di realtà, e, utilizzando le sue parole, instaurare con esso una forma di “dipendenza emancipatrice” (Carchia, 2000, p. 44). Il pensiero del filosofo, peraltro, non è mai solipsistico, perché egli sa bene che la competenza eidetica, anche quando la utilizziamo in dimensione intrapsichica, nasce, si forma e prende consistenza, come ci insegna Socrate, nel dialogo intersoggettivo. Ecco perché da pedagogista leggendo queste pagine, ho provato, insieme a un senso di estetico e eidetico sollievo, un moto di fastidio nei confronti di una scuola che rivendica il compito di formare soggetti capaci di «sapere, saper fare, saper essere» ma non saper pensare, popolata da insegnanti che non considerano fra i loro compiti primari la capacità di stupire e illuminare di bellezza le loro parole nel momento della lezione, né quello di far crescere nei discenti il piacere e la competenza del dialogo, della conversazione euristica, della co-costruzione dialogica delle idee e delle rappresentazioni. Perché non ha senso considerare le tecnologie causa delle solitudini e delle separazioni dalla realtà e che anzi, nell’eventualità di un loro uso corretto e competente, sono una risorsa, come ci ricorda Stefano Moriggi per il quale non solo “la tecnologia ci rende umani”, ma, osservando come le tecnologie siano da sempre un complemento dell’esistenza umana e contemplando lo scenario consumistico che già imbrattava il mondo pre-digitale, ci invita a concentrarci, “più che sul disagio dei figli, sull’horror vacui dei padri” (Moriggi, 2009, p. 157).
Ciò che dovrebbe essere chiaro a tutti è che chi educa dovrebbe saper presentare il pensiero e le relazioni ad esso connesse come esperienze esteticamente appaganti e dunque dotate di un quoziente di senso preferibile alla dispersione dell’io e del sé nella vaghezza della rete.
Parlandoci dell’amore per il pensiero, per la bellezza del pensare e del condividere, costruire e co-costruire pensiero, Gianni Carchia svela lo scenario simbolico nel quale non c’è più un alto e un basso, un dentro e un fuori, uno sfondo e una figura. Nella profondità, al contempo euristica ed estetica, dell’attività pensante, l’essenza si rivela nell’apparenza, ma questa, a sua volta, trae la propria luce e il proprio senso dall’essenza. Perché il pensiero che prende forma di dialogo, di argomentazione, di racconto, non è solo contenuto, ma anche ritmo, suggestione fonetica, sorpresa metaforica.
Carchia, mentre ci ricorda come Tommaso d’Acquino avesse già detto qualcosa a questo proposito nel Commento alla Metafisica di Aristotele, riprende e fa propria la sua convinzione: la ragione per la quale il filosofo viene paragonato al poeta è che entrambi hanno a che fare con lo stupore. Piero Bertolini, nell’anno 2000, inventò, per un convegno che stava organizzando insieme agli allievi e agli amici redattori di Encyclopaideia, il seguente titolo: Pensare, dire il pensiero, educare. Il fondatore e direttore di Encyclopaideia illustrava così i contenuti e le intenzioni del convegno:
Il tema del Convegno fa riferimento alla convinzione che l’educazione contemporanea debba volare alto. Di fronte ad un tecnicismo sempre più incalzante e ai rischi di una sua dispersione in attività estemporanee, […] siamo convinti che occorre puntare su un’autentica capacità di pensare e quindi su un’educazione che sappia restituire al soggetto la capacità di riflettere, immaginare, prestare attenzione, ricordare e soprattutto di mettersi in relazione con il mondo esterno, con se stesso e con gli altri in modo attivo e significante. Ma poiché il pensiero necessita di essere comunicato per costruire e condividere significati e orizzonti di senso, si impone una riflessione anche sulla capacità di dire (comunicare) il pensiero, in altre parole di renderlo fruibile anche agli altri, con i quali pervenire ad una costituzione sempre aperta e dinamica di una realtà intersoggettiva. I soggetti della relazione educativa, l’educatore ma anche l’educando, sono così chiamati ad una esperienza autentica di attenzione, interesse, capacità di ascolto sui reciproci vissuti.
Sarebbe importante e auspicabile che chi si occupa di educazione e di formazione avesse consapevolezze e competenze utili a indicare agli educandi (e a se stesso) questa direzione di vita e di senso.
Riferimenti bibliografici
Carchia, G., (2000). L’amore del pensiero. Macerata: Quodlibet.
De Rita, G. & Galdo, A., (2018). Prigionieri del presente. Torino: Einaudi.
Moriggi, S., (2009). Perché la tecnologia ci rende umani. Milano: Sironi.
Spitzer, M., (2018). Connessi e isolati. Un'epidemia silenziosa. Milano: Corbaccio.