Tra i filosofi del Novecento Edmund Husserl (1859-1938) è stato certamente uno dei più originali – e ostici – e probabilmente il più incompreso, a giudicare dagli esiti anche divergenti che l'esplosione del suo astro ha generato, in quella “galassia” fenomenologica (la metafora non è mia) che, a partire dagli animatori dei circoli di Monaco e Gottinga, si è poi diffusa in tutto il mondo assumendo accezioni che quegli stessi iniziatori non sempre condividerebbero. Ma quanto questo “movimento fenomenologico” – per riprendere l'espressione gadameriana – si sia effettivamente “mosso”, non solo progredendo, ma anche distanziandosi dal suo centro propulsore, lo dimostra il fatto che lo stesso Husserl ancora nel 1928 considerasse Martin Heidegger il suo allievo più promettente, salvo comprendere il suo tradimento (non solo politico, ma anche intellettuale) soltanto pochi mesi dopo averlo designato come suo successore a Friburgo.
Ecco: questo volume nasce probabilmente dall'esigenza di ristabilire il senso originario della fenomenologia, aiutando il lettore a dipanare un fil rouge che consenta di seguirne gli sviluppi e di distinguerla dalle sue più o meno eterodosse volgarizzazioni. Roberta De Monticelli ci ricorda che Husserl ha fornito per primo “l'etica della mente fenomenologica” (p. 11), indicando un metodo (la “scienza rigorosa” di cui parla nel 1911) al quale attenersi per comprendere il senso della nostra esperienza. Ed essendo la fenomenologia “uno stile di ricerca filosofica […] che si apprende solo praticandola” (pp. 9-10), il testo comprende alcuni basilari “esercizi di fenomenologia” (cap. 10) che sono il compendio in certo qual modo di quelli più estesamente proposti nel lavoro forse più metodologico dell'Autrice, La conoscenza personale (2000). Nondimeno, questo libro non è (o lo è solo in parte) un'introduzione al metodo fenomenologico, ma piuttosto un saggio sul significato autentico della fenomenologia husserliana e sulla sua rilevanza attuale.
Se c'è un Leitmotiv, in queste pagine dense ma di piacevolissima lettura, è rappresentato dalla convizione che il realismo appartenga alla fenomenologia in modo non accessorio e non coincida affatto con una prima “fase” del pensiero husserliano a cui farebbe seguito una presunta “svolta” idealistica. Husserl, infatti, mantenne sempre la premessa e la promessa delle origini: quella enucleata nel programma (non solo uno slogan) del ritorno “alle cose stesse”. Egli, meglio di ogni altro pensatore contemporaneo, ha sostenuto che la ragione è essenzialmente recettività nei confronti del “dato” di esperienza e ha dimostrato che “i vincoli al nostro arbitrio non siamo noi stessi a porli” (p. 12) ma sono insiti nelle cose stesse che ci si manifestano. De Monticelli argomenta in modo cristallino come, dalla Filosofia dell'aritmetica (1891) e dai primi corsi sull'origine e la giustificazione delle norme alle Ricerche logiche (1900-1901) ai due volumi delle Idee (1913-1914) fino alle Meditazioni cartesiane (1931) e alla tormentata e mai compiuta elaborazione della Crisi (1936), la produzione husserliana sia sostanzialmente coerente con la sua ispirazione originaria, ovvero con la tesi della “priorità del dato sul costruito” (p. 73), che rimane un punto fermo del suo pensiero, anche nelle opere più tarde, erroneamente considerate espressione di un solipsismo idealistico o di un relativismo intersoggettivo del tutto estranei alla fenomenologia. Il procedimento stesso dell'epoché e della “riduzione fenomenologica”, che mette in luce la struttura dell'intenzionalità e la soggettività trascendentale, non equivale affatto alla sussunzione del contenuto noematico nel momento noetico, bensì tende alla ricerca di quelle strutture essenziali che rimangono “rivelate” alla coscienza pura. La fenomenologia, insomma, “non è un idealismo che riduce il mondo alla coscienza che ne abbiamo” (p. 87). Questa affermazione sgombra il campo da un equivoco fondamentale: quando Husserl parla di idealismo, lo fa sempre in riferimento alle idee, ovvero a quelle strutture essenziali e a quei “vincoli” di significato che sono insiti nella nostra esperienza del mondo.
La fenomenologia, dunque, è trascendentale non in senso kantiano, bensì “in quanto studia i modi della trascendenza di ciò che chiamiamo reale” (p. 147). In questa chiarificazione risiede il primo (e forse principale) motivo di interesse di questo lavoro per i lettori di questa rivista: esso può essere motivo di riflessione per quanti (inclusi pedagogisti di matrice fenomenologica) tendono a far coincidere l'approccio fenomenologico con il soggettivismo e l'ermeneutica o con paradigmi di carattere socio-interazionistico e costruttivistico che, se radicalizzati, ne rappresentano a ben vedere l'esatto contrario.
I “nemici” elettivi della fenomenologia, del resto, sono da sempre il naturalismo e lo storicismo, nelle loro molteplici forme e riedizioni: il primo, naturalizzando la coscienza, riduce il soggetto a una cosa tra le cose; il secondo, relativizzando il mondo, riduce le cose alla soggettività. Non senza qualche ragione, dunque, lo psichiatra Viktor Frankl – la cui matrice fenomenologica, in particolare scheleriana, era del tutto esplicita – sosteneva nelle sue lezioni americane (Psychotherapy and Existentialism, 1967) che la riumanizzazione, ovvero la “ripresa” dell'umano dall'oggettivismo e dal relativismo, dovesse contemplare la risoggettivazione dell'esistenza (operazione che egli riconosceva al collega svizzero Ludwig Binswanger) e la rioggettivazione del significato (impresa che, invece, attribuiva a se stesso). E infatti, come la stessa De Monticelli ricorda, la psicopatologia fenomenologica ha descritto l'esperienza schizofrenica e il delirio psicotico come un distacco dalla realtà e una perdita di quella “fiducia nell'ordine del mondo” (p. 165) su cui si basa l'esistenza razionale. Il mondo, insomma, esige di essere (ri)conosciuto per quello che è.
Ma se l'esperienza non può più accampare alcuna pretesa di validità, ogni giudizio di valore (e forse anche ogni giudizio di fatto) diventa arbitrario. Il rischio di questa deriva è sotto gli occhi di tutti: nell'epoca dell'opinionismo diffuso e dell'evanescenza della verità, la retorica dominante dei format televisivi e delle febbrili interazioni sui social media sembra supporre che tutto e il contrario di tutto abbiano pari diritto di cittadinanza. Il “punto di vista” soggettivo, in fatto di legittimità, ha preso il posto di quella che un tempo era considerata la verità (ed è inquietante che questo termine suoni ormai così desueto). Contro questo scetticismo, del resto, De Monticelli si era già pronunciata a più riprese, ad esempio nel suo Al di qua del bene e del male (2015), intravvedendo esattamente le implicazioni etiche e politiche – e quindi, aggiungerei, educative – che la questione inevitabilmente comporta.
E questo è a mio parere il secondo motivo di interesse di questo libro, quello se vogliamo più strettamente pedagogico. Poiché l'intuizione eidetica non coglie semplicemente dati di fatto (Sachverhalten), ma anche nel contempo dati di valore (Wertverhalten), “ogni cosa reale contiene un «dover essere» ideale” (p. 76) e pertanto è fonte di normatività. Un altro affondo nei confronti di chi ritiene che, anche sul piano educativo, fini e valori non siano che l'espressione – implicita o negoziata – del contesto storico e culturale. La fenomenologia di Husserl (e non solo) ascrive l'etica all'ontologia, mostrando come l'esperienza di qualcosa sia sempre anche simultaneamente l'esperienza appunto di un vincolo. Le “idee”, infatti, non sono solo essenze, ma esigenze che si impongono alla ragione. Un tema che De Monticelli aveva già trattato ne L'ordine del cuore (2003), interamente dedicato alle connessioni tra la fenomenologia dell'affettività, l'etica e la maturazione personale.
Cosicché l'intenzionalità della coscienza presenta due poli: essa è, da un lato, il modo in cui gli oggetti di esperienza mi sono presenti; ma è anche, dall'altro, la mia risposta, la posizione che assumo nei loro confronti. L'esercizio della “razionalità” consiste dunque non soltanto in quella più o meno affinata attitudine a conoscere la realtà, che caratterizza il soggetto intellettuale, ma anche e soprattutto in quella “disponibilità a rispondere adeguatamente alle esigenze poste dalla realtà” (p. 158), che qualifica il soggetto morale.
Sono temi, quelli dell'ontologia dell'essere personale, che l'Autrice ha sviluppato in lavori come La novità di ognuno (2009) o l'antologia di testi fenomenologici La persona: apparenza e realtà (2000), di grande rilevanza anche per l'antropologia pedagogica. Non è questa la sede per discuterne. Mi limito, qui, a sottolineare che è proprio sul terreno di questa inevitabile presa di posizione che si gioca, giorno per giorno, l'impresa difficile e sempre precaria della formazione personale: perché essere umani dipende essenzialmente da un'assunzione di responsabilità. A questa responsabilità del pensare e dell'agire punta la fenomenologia, e in questo senso si può ben dire che “la pedagogia husserliana è socratica dalla testa ai piedi” (p. 23), nella misura in cui mira a “far crescere in noi un soggetto capace di veglia critica e di ricerca, quindi di sensata esperienza e dubbio e domanda” (ibidem). Proprio questa capacità di giustificazione – oggi così fuori moda quando non addrittura vituperata – rappresenta il primo fronte di investimento educativo, perché una formazione fenomenologicamente orientata – sottolinea De Monticelli – non può che mettere al centro due cose: “la logica, perché ammaestra alla responsabilità del linguaggio, e l'educazione sentimentale, che forma alla cognizione del dolore e del valore” (p. 171). Questo dunque è il compito educativo a cui la fenomenologia husserliana ci richiama: quello di crescere menti educate alla disciplina difficile della domanda, del dubbio, del confronto e dell'argomentazione. Perchè “le radici della democrazia non sono nella forza del demos che sulle piazze esprime l'appartenenza di ognuno alla sua comunità, ma nel faccia a faccia delle discussioni, dove ognuno risponde in prima persona di quello che fa e dice, ognuno è vincolato al riconoscimento degli stati di cose accertati con evidenza sufficiente, almeno fino a prova contraria” (p. 179).
È appena il caso di rilevare l'attualità di questo discorso e le sue ripercussioni sociali e politiche, alle quali comunque l'Autrice dedica l'ultima parte delle sue riflessioni, sul destino della nostra civiltà e della nostra idea di cittadinanza. “Una democrazia, come ogni altra istituzione normativa, non si regge indipendentemente dall'esercizio quotidiano di cognizione, giudizio, critica e autonomia da parte degli individui” (p. 47). A tal proposito, opportunamente vengono richiamati i saggi sull'idea di rinnovamento, che Husserl aveva scritto originariamente per la rivista giapponese Kaizo su invito di Tadayoshi Akita (1923-1924), poi tradotti con il titolo L'idea di Europa. Qui Husserl sostiene che l'Europa, così come noi la conosciamo, non è una mera entità geografica e men che meno un complesso di interessi economici, bensì un'aspirazione spirituale che nasce nella Grecia del VII-VI secolo a.C. dallo spirito della filosofia, ovvero dal rapporto tra libertà e verità. Un nesso che, se viene spezzato, lascerebbe libero corso alla dissoluzione intellettuale e morale e consegnerebbe la nostra esistenza – e l'Europa stessa – ad un “oscuro destino”. Una sfida culturale ed educativa, tutto sommato, ancora tragicamente attuale.