«Acqua, fuocherello, fuoco» è un gioco in cui si deve trovare un oggetto nascosto e l’intensità del calore aumenta man mano che ci si avvicina.
1 Acqua: nascondersi
“Scrivere è sempre nascondere qualcosa in modo che venga scoperto”, ha detto Italo Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore (Calvino, 2012, p. 477), come a dire che la doppia azione di velamento – disvelamento dell’identità fa parte della scrittura. Il titolo del prologo di Elena Ferrante – Cancellare le tracce – sembra essere l’itinerario idealistico della scrittrice ‘aprocrifa’ (dal greco apókryphos, nascosto, segreto): cancellarsi come progetto estetico rigorosamente messo in atto nella vita «vera».
La storia del nuovo nome e cognome – Elena Ferrante – è dunque il modo dell’autrice di “alterare il rapporto tra la propria opera e la propria persona, per sottrarsi senza scomparire, per stabilire un’equazione di identità fra un sè costante ma celato.” (Campo, 1998, p. 254) Questa provocazione dell’inesistenza altro non sembra che un controcanto a una bulimia della presenza, allo spazio sovraesposto, feroce, all’accessibile, che nell’etimo è parente del morboso e del morbo, della malattia: “non ho scelto l’anonimato, i libri sono firmati. Ho scelto piuttosto l’assenza.” (Ferrante, 2016, p. 246)
C’è un verbo in spagnolo, velar, che ha il doppio significato di velare e curare, custodire; la tetralogia dell’amica geniale si apre proprio con una triplice sparizione «velazione»; quella dell’autrice, quella della co-protagonista Lila e quella di due bambole:
Sono almeno tre decenni che mi dice di voler sparire senza lasciare traccia, e solo io so bene cosa vuole dire. […] Il suo proposito è stato sempre un altro: voleva volatilizzarsi; voleva disperdere ogni sua cellula; di lei non si doveva trovare più niente. E poiché la conosco bene, o almeno credo di conoscerla, do per scontato che abbia trovato il modo di non lasciare in questo mondo nemmeno un capello, da nessuna parte. (Ferrante, 2017, pp. 12-13)
E poi:
Era stata colpa sua. In un tempo non troppo distante – dieci giorni, un mese, chi lo sa, ignoravamo tutto del tempo, allora – mi aveva preso la bambola a tradimento e l’aveva buttata in fondo a uno scantinato. Ora stavamo salendo verso la paura, allora ci eravamo sentite obbligate a scendere, e di corsa, verso l’ignoto. In alto, in basso, ci pareva sempre di andare incontro a qualcosa di terribile che, pur esistendo da prima di noi, era noi e sempre noi che aspettava. […]
Nu e Tina non erano felici. I terrori che assaporavamo noi ogni giorno erano i loro. Non ci fidavamo della luce sulle pietre, sulle palazzine, sulla campagna, sulle persone fuori e dentro le case. Ne intuivamo gli angoli neri, i sentimenti compressi ma sempre vicini a esplodere. […]
Lila sapeva che avevo quella paura, la mia bambola ne parlava ad alta voce. Per questo, proprio nel giorno in cui senza nemmeno contrattare, solo con gli sguardi e i gesti, ci scambiammo per la prima volta le nostre bambole, lei, appena ebbe Tina, la spinse oltre la rete e la lasciò cadere nell’oscurità. (Ferrante, 2017, pp. 26-31)
Le due bambine che si scambiano le bambole predilette, cosicché una delle due possa compiere il primo tradimento ordito e subito gettando la bambola dell’amica nel buio di uno scantinato, è una sorta di iniziazione all’oscurità della condizione femminile: “a differenza che nei racconti, la vita vera, quando è passata, si sporge non sulla chiarezza ma sull’oscurità” (Ferrante, 2017, p. 3671). La Ferrante condivide con la fiaba il culto del segreto e una passione di clandestinità; misterioso è il narratore di fiabe; la cantastorie in questione è Elena Ferrante, e vogliamo chiamare la sua opera romanzo popolare, non best seller, perché la cultura popolare è l’infanzia del mondo. Grazie alla preziosa analisi dell’antropologa Aurora Milillo (1987, pp. 64-66) scopriamo che la bambola smarrita e poi ritrovata è un tema conduttore ricorrente oltre che in un’antica tradizione indiana – quella del Çukasaptati – anche nelle favole dell’Ottocento italiano: è il caso di Lu pappagaddu chi cunta tri cunti della raccolta Fiabe novelle e racconti popolari siciliani di Giuseppe Pitrè e de Il Pappagallo, presente nelle Novelline popolari italiane di Domenico Comparetti.
In entrambi i cunti è un pappagallo a raccontar favole, e in entrambe le favole narrate la mancanza che motiva la partenza da casa dell’eroina è costituita dalla bambola perduta o dimenticata nel bosco; in un quadro iniziatico al femminile che ha per oggetto la mutazione di stato della donna la pelle abbandonata da questo serpente in muta, il bozzolo abbandonato da cui resuscita la nuova crisalide è la bambola. Vladimir Propp (1949, pp. 317-319) sottolinea il ricorrere del motivo in situazioni di trasmissione ereditaria femminile, citando alcune fiabe in cui la madre che muore lascia una o più bambole come aiutanti magici e segreti della figlia.
Queste fiabe – narrate per la maggior parte da donne – prospettano la vicenda del passaggio iniziatico e il cambiamento fisico da un diverso angolo visuale della donna che abbandona la sua vecchia identità adolescenziale, trovandosi nella perturbante situazione di non essere più e non essere ancora. La bambola è l’intermediaria fra due età della vita, fra due mondi, fra femmine, ed entra inevitabilmente nella traiettoria del destino della Ferrante come figura «smarginata»: incompiuta, indefinita, ambigua e per questo ricca di grandi potenzialità di utilizzazione, la bambola destinata al gioco infantile è immagine di giovane donna in età feconda, modello per la bambina del suo futuro status di giovane madre ma allo stesso tempo curata come un bambino. “Le protagoniste dei romanzi di Ferrante ci dicono che bisogna perlustrare lo spazio oscuro in cui abitano le antenate” (De Rogatis, 2018, p. 246): la bambola è un’eredità che arriva da lontano, attraversa le pieghe del tempo e giunge fino a noi.
La forma “non è un lusso ma una necessità”, scrive Cristina Campo, (Campo, 1998, p. 178): qual è la forma di Elena Ferrante? L’autrice si fa lacuna, ellissi. Segreta, dall’etimo secernere, metter da parte: “Il vero lettore, penso, cerca non la faccia friabile dell’autrice in carne e ossa che si fa bella per l’occasione, ma la fisionomia nuda che resta in ogni parola efficace” (Ferrante, 2016, p. 172). La scrittrice si secerne, si “s cancella” (Ferrante, 2017, p. 946 e p. 949) e fa dell’invisibilità la più astuta delle provocazioni, diluendosi nel testo in un’assenza brillante. Cosa resta? La vitalità di ciò che accade realmente, fatta di piccoli atti, gesti, sensazioni e senti-menti. La scrittura “affonda le sue radici in una dimensione preverbale, in un collasso della parola” (De Rogatis, 2018, p. 53), si fa materica, fisiologica, corporea, diviene lacuna carnosa e fa spazio a “immaginazione, creatività pulsioni, ansie, ma direi anche fonazione, umori, reattività nervosa” (Ferrante, 2016, ibid.) struccando il reale; l’autrice “benda” i suoi lettori per fargli sentire le punteggiature del destino scritte sul corpo, le note in corpo minore dell’esistenza: “Cancellarsi era una sorta di progetto estetico. […] Eh, disse una volta, quante storie per un nome; famoso o no, è solo un nastrino intorno a un sacchetto riempito a vanvera con sangue, carne, parole, merda e pensierini” (Ferrante, 2017, pp. 3630-3631).
Elena Ferrante ci fa il favore della sparizione, si fa ellitticamente E.F., costringendo noi lettori a leggere le sue opere come si guarda dal buco di una serratura e, come fanno le fiabe in quanto narrazioni popolari, stabilisce un legame intimo e sorprendente con i bisogni elementari di ognuno, passando per il suo incarnarsi in un corpo, con quel che comporta in fatto di crescita, declino, sofferenza, piacere. L’infanzia appartiene a questa dimensione profondamente radicata nella natura e nei suoi simboli, piena di senso e di sentire, appartiene a quel «ɐuɐɹƃılıɟ uı opuoɯɐɹdos.»
2 Fuocherello: dire le parole segrete
L’universale è nell’intimo, e le filastrocche contengono segreti; le parole si uniscono in costellazioni di linguaggio ritmico, rituale, sacro.
Le parole segrete dell’infanzia posseggono questo sentimento liturgico, la parola si fa azione una lingua d’incantesimi che mette in contatto con simboli insieme così totali e particolari che cercano di spiegare l’insondabile, che diventa così ‘toccabile’. L’incantesimo è anche nel nome Elena Ferrante, che si rifà per assonanza ad Elsa Morante, avendo forse in comune l’ossessione della «sanguinosa» infanzia. La filastrocca è un fatto fisico, una partitura scritta di un ritmo corporeo, è simbolo della potenza generativa della parola. “L’estasi dello scrivere non è sentire il soffio della parola che si libera dalla carne, ma la carne che fa tutt’uno col soffio delle parole” (Ferrante, 2016, p. 441), e ci sussurra questa formula sottovoce:
Mangia la cacca
Bevi la piscia
Bevila liscia
Niente parole
Solo tagliole
Senti che pace
Se tutto tace.1
A ben guardare la filastrocca riguarda interamente gli orifizi: si apre sulla bocca, porta d’ingresso di materie salvifiche e dannose; sazietà e rifiuto, accettazione o disgusto. Bocca che è il luogo privilegiato della fame e del racconto dal quale hanno avuto inizio tutti i racconti, ma anche il luogo dell’eros (Rak, 2005, pp. 255-256), spalancata dallo stupore e che solo il mistero riesce a chiudere letteralmente: il termine «mistero» viene da una radice che significa chiudere la bocca, ammutolire.
E il mistero ha a che fare con l’arte: “l’artista è colui che fa dialogare gli astra e i monstra, l’ordine celeste e l’ordine viscerale, l’ordine delle bellezze del sopra e quello degli orrori del sotto” (Warburg in Pinotti, Somaini, 2009, p. 253).
Cadono così le barriere fra il corpo e il mondo, si scavalcano i confini e corpo e mondo si mescolano, come nelle fiabe: “il sangue e le lacrime, la merda e le pietre preziose scorrono fuori dai buchi dei corpi e sopra le loro pieghe”(Rak, 2005, p. XI). La figura femminile è legata a questo molto più intimamente di quanto lo sia l’uomo: i cicli lunari, le mestruazioni, la fecondazione, la gestazione, la placenta, il parto, il seno, il latte si svolgono tra il dentro e il fuori del suo corpo.
“È il basso che dà la vita” dice Michail Bachtin, e quello della parola non è che il parto dell’immaginazione: “una parola che nasce è un atto altamente spirituale, abbassato e sconsacrato per mezzo di una trasposizione sul piano materiale e corporeo del parto. L’alto diventa il basso e la parola, localizzata nella bocca e nel pensiero (in testa), viene rinviata al ventre. […] Ed è universale: il dramma del corpo che mette al mondo la parola.” (Bachtin, 1979, pp. 925-926).
La stessa parola ‘grammatica’ sottolinea la stretta associazione tra magia e scrittura, rimandando alla parola grimoire, il manuale per maghi per invocare spiriti soprannaturali e creare incantesimi; la grammatica della filastrocca ritorna alla voce, al canto, ai gesti, ai sensi.
Prosegue Bachtin: “è questo il motivo per cui gli atti del dramma corporeo – la nascita, la crescita, la vecchiaia, le malattie, la morte, lo spezzettamento, lo smembramento, l’assorbimento da parte di un altro corpo – avvengono ai confini tra il corpo e il mondo, o tra il corpo vecchio e il corpo nuovo; in tutti questi avvenimenti del dramma corporeo l’inizio e la fine della vita sono indissolubilmente legati.” (Bachtin, 1979, pp. 948-949)
La spiaggia di Notte, spin-off de La figlia oscura, storia dal punto di vista di una bambola perduta, è tutto questo: è una parola che la bambola deve ritrovare, «il suo marchio speciale», e in questa ricerca non fa altro che sfuggire alla morte, incarnata dal Bagnino Crudele del Tramonto, che le ha strappato di bocca il suo Nome – Celina – e che vuole renderla muta.
È la parola – afferma Tiziana De Rogatis (2018, p. 229) – “il bene più prezioso della bambola Celina, ciò che resiste strenuamente in fondo al suo corpo alla violenza del Bagnino Crudele, all’amo «disgustoso di saliva» (Ferrante, Cerri, 2007, p.16) che vuole strappargliele dal petto.” Ed è proprio grazie alla parola che avrà salva la vita, dando scacco matto alla morte sulla spiaggia, tributando così Ingmar Bergman.
E se infanzia e morte provenissero dallo stesso luogo? Documentazioni archeologiche ed etnologiche dimostrano che feticci e simulacri traggono probabilmente origine dalle effigi funerarie, usate a scopi magici; “il feticcio è quasi sempre un sostituto, il cui uso sembra collegare il mondo dei viventi a quello dei defunti, gli uomini al soprannaturale, al sottomondo.” (Cerulli, 1987, p. 82)
E non è da lì che i bambini arrivano? Tanto che utilizziamo l’espressione «dare alla luce», come affiorassero dal regno del buio. L’infanzia è vicina alla morte forse perché entrambe, benché in direzioni opposte, hanno a che fare con l’Altrove. Giorgio Agamben (2001) racconta di come presso gli antichi i bambini venissero considerati come dei fantasmi (dal greco phantázein: far vedere, mostrare, apparire) creature sospese tra l’essere e il non essere, tra l’essere già qualcosa ma il non essere ancora qualcuno, tra l’essere già fra noi, ma il non essere propriamente «umani», e di come venissero ritenuti perturbanti.
Infanzia è, secondo Giorgia Grilli, “insieme un essere qui e un essere altrove, e per questo età malinconica per eccellenza, anzi: la sola età che conosca l’autentica malinconia; [..] l’infanzia vive la soglia: è tra noi, è entrata nella nostra vita e nella nostra capacità di organizzare la giornata, ma è come appena giunta e ancora avvolta da un’altra dimensione in cui tutta questa quotidianità non si dava, in cui tutta la realtà coi suoi principi non aveva senso né valore.” (Grilli, in Hamelin, 2001, p.92)
Prosegue Milena Bernardi, affermando che “la vicinanza dell’infanzia con la morte rimanda ancora una volta all’indefinibilità della sua provenienza, vissuta così drammaticamente dalle culture preletterate da far sì che i neonati fossero sottoposti a riti di margine e quindi a sequenze di separazione, di liminarità e di aggregazione, come gli stranieri, gli sconosciuti, gli Altri: l’altro assoluto, ripete spesso Zygmunt Bauman, è la morte.” (Bernardi, 2016, p. 59)
Proprio come la bambola, perturbante e ‘straniera’, estranea e intima al contempo: superficie di congiunzioni, invita a riconoscere sé nell’altro, lo strano nel familiare e lo straniero nel domestico, “accettando lo straniero che è in noi e comprendendo essere l’altro la dimensione più propria del medesimo” (Orlando, 1996, in Farnetti, 1998, p. 55): si può sentire l’eco di Anna Maria Ortese.
3 Fuoco: bruciare
Il termine inglese doll deriva dal greco eidolon, ossia idolo: immagine, aspetto, figura. Nell’idolo vediamo la cosa di cui esso è immagine. La bambola è fiction, rappresentazione, ma ha fame di realtà, così come il gioco è profezia e propedeutica, reale simulazione in quell’unica prova generale della vita che è l’infanzia.
In questo magmatico come se la bambola recita la vita, si fa totem di un quadro iniziatico femminile: sineddoche, corpo di fiaba, sorte in miniatura; una rarefatta intensificazione del sentimento della vita, per dirla alla Cristina Campo.
Che ruoli interpreta, che ruoli fa interpretare?
È erotica e confortante. Mutevole nei suoi atteggiamenti, è un giocattolo in bilico tra innocenza infantile e sensualità, tra candore ed erotismo primordiale – al centro delle primissime esperienze affettive dell’infanzia. Oggetto d’amore libidico agli albori di un’identità ancora confusa col mondo-corpo di madre, aiuta a sopportare la frustrazione del desiderio della madre fungendo da sostituto, da doppio sè in formato ridotto. A questo forse è dovuta la nostalgia sprigionante da tutte le bambole, espressione di un sentimento inconscio sempre presente verso uno stato fusionale, verso un’antica esperienza di con-fusione e simbiosi con l’altro- madre e di annullamento della singolarità soggettiva. (Quintieri, 2011-2012, p. 27)
Come se fosse un prolungamento della sua stessa mente, secondo lo psicoanalista Donald Winnicott (1953), il bambino utilizza questo “oggetto transizionale” conturbante che è la bambola per mettere in scena le sue paure e i suoi desideri, come un ‘ponte’ tra la propria mente e il mondo reale. Ma il nostro bisogno di oggetti transizionali non scompare mai del tutto, e lo ritroviamo nei momenti di crisi legati al lutto o al terrore nella nostra vita adulta; letteratura o rituali, opere d’arte o giocattoli svolgono la stessa funzione confortante.
È madre e figlia: ancora una volta come nelle fiabe “sono i rapporti di parentela che configurano il quadrante che permette l’azione. L’azione ha sempre inizio e fine all’interno della famiglia; la famiglia è il punto del circolo all’interno del quale tutte le vicende si concludono. Anche quando la vicenda cancella la famiglia precedente, lo fa per ricostituire un nuovo circolo parentale.” (Rak, 2005, pp. 174-175)
Tutte le storie della Ferrante parlano del rapporto madre-figlia, che trova un trasparente correlativo oggettivo nella relazione bambina-bambola: “Io stessa ora stavo giocando, una madre non è che una figlia che gioca, mi aiutava a riflettere.” (Ferrante, 2012, p. 919)
Una sineddoche tematica: “I ruoli di figlia e di madre sono centrali nei miei libri, certe volte penso che non ho scritto d’altro. Ogni mia inquietudine è andata a collocarsi lì.” (Ferrante, 2016, p. 242) E bambola come oggetto magico che permette di sdoppiarsi, in un mondo metaforico dove gioco e sessualità, verità e finzione, infanzia e maturità si intersecano senza posa. Ci si immerge in un’incessante metalessi, entro uno spazio confuso di bambole e di bimbe, di donne e di madri: “[…] quelle bambole non sono solo la miniaturizzazione dell’essere figlie. Le bambole ci sintetizzano come donne, in tutti i ruoli che il patriarcato ci ha assegnato.” (Ferrante, 2016, p. 422)
Avere una bambola significa fare la parte della madre: la stessa etimologia del termine bambola è significativa in questo senso, e il latino pūpa sembra trovare un collegamento in puppa, seno materno, suggerisce Rosalinda Quintieri (Quintieri, 2011-2012, pp. 9-10):
Cos’è una bambola per una bambina. Ne avevo avuta una con bei capelli a boccoli, me ne occupavo molto, non l’avevo mai persa. Si chiamava Mina, mia madre diceva che il nome gliel’avevo dato io. Mina, mammina. Mammuccia, mi venne in mente, una parola per dire bambola che da tempo non si usa più. Giocare con la mammuccia. Mia madre si era sempre concessa pochissimo ai giochi che cercavo di fare col suo corpo. Si innervosiva subito, non le piaceva fare la bambola. Rideva, si sottraeva, si arrabbiava. La indispettiva che la pettinassi, le mettessi nastrini, le lavassi la faccia e le orecchie, la svestissi, rivestissi.
Io invece no. Da grande ho cercato di tenere bene a mente la sofferenza di non poter maneggiare i capelli, il viso, il corpo di mia madre. Perciò sono stata pazientemente la bambola di Bianca, nei suoi primi anni di vita. Lei mi trascinava sotto il tavolo di cucina, era la nostra capanna, mi faceva sdraiare. Ero stanchissima, mi ricordo: Marta non chiudeva occhio la notte, dormiva un poco soltanto di giorno, e Bianca mi stava sempre intorno piena di pretese, non voleva andare al nido, le volte che riuscivo a lasciarcela si ammalava complicandomi ancora di più l’esistenza. Tuttavia cercavo di tenere i nervi saldi, volevo essere una buona madre. Mi sdraiavo sul pavimento, mi lasciavo curare come se fossi malata. Bianca mi dava le medicine, mi lavava i denti, mi pettinava. A volte mi addormentavo, ma lei era piccola, non sapeva usare il pettine, quando mi strappava i capelli sussultavo svegliandomi. Sentivo gli occhi che mi lacrimavano di dolore. (Ferrante, 2012, pp. 769-771)
E fare la parte della figlia: ancora una volta grazie alla ricerca di Rosalinda Quintieri (2011-2012, pp. 16-18) scopriamo che la bambola è «l’altro che piange», la parte dolorosa del sé che tramite la proiezione viene messa gradualmente a distanza, in vista di un suo superamento. La bambola si nutre di pensieri e di fantasmi proiettivi, permettendo l’elaborazione psichica di eventi più o meno traumatici. Questi rituali ripetitivi come il gioco della bambola si esplicano in fedeltà al proprio passato, alle proprie figure di attaccamento e al mondo materno, alla qualità di quella relazione i cui gesti garantivano sicurezza e accoglienza.
Fuoco. Tutto inizia e finisce con una bambola – ciclicamente, come in un rito – e a conclusione dell’ultimo volume della tetralogia, Lenù riceverà al suo indirizzo torinese un pacco contenente le due bambole consunte perdute cinquantasette anni prima:
Ieri, rientrando, ho trovato sopra la mia cassetta della posta un pacchetto mal confezionato con carta di giornale. L’ho preso perplessa. Niente testimoniava che era stato lasciato per me e non per qualche altro inquilino. Non c’era un biglietto d’accompagnamento e nemmeno il mio cognome segnato a penna da qualche parte.
Ho aperto con cautela un lato del cartoccio ed è bastato. Tina e Nu sono schizzate fuori dalla memoria prima ancora che le liberassi del tutto dalla carta di giornale. Ho riconosciuto subito le bambole che una dietro l’altra, quasi sei decenni prima, erano state gettate – la mia da Lila, quella di Lila da me – in uno scantinato del rione. Erano proprio le bambole che non avevamo mai ritrovato, sebbene fossimo scese sotto terra a cercarle. Erano quelle che Lila mi aveva spinto ad andare a riprendere fino a casa di don Achille, orco e ladro, e don Achille aveva sostenuto di non averle mai prese, e forse si era immaginato che a rubarcele fosse stato suo figlio Alfonso, e perciò ci aveva risarcito con del denaro perché ce ne comprassimo altre. Però noi con quei soldi non avevamo comprato bambole – come avremmo potuto sostituire Tina e Nu? – ma Piccole donne, il romanzo che aveva indotto Lila a scrivere La fata blu e me a diventare ciò che ero oggi, l’autrice di molti libri e soprattutto di un racconto di notevole successo che si intitolava Un’amicizia. (Ferrante, 2017, pp. 3668-3669)
“Saper guardare un’immagine sarebbe, in qualche modo, divenire capaci di distinguere dove essa brucia, dove la sua eventuale bellezza serba il posto a ‘un segno segreto’, a una crisi irrisolta, a un sintomo. Dove la cenere non si è raffreddata” (Pinotti, Somaini, 2009, p. 253).
Dove brucia l’opera della Ferrante? Nella massima superficie massima profondità, e ancora una volta ne La spiaggia di notte (unica opera della Ferrante destinata a un pubblico ‘minore’) le luminose illustrazioni sono il plenilunio che segue all’eclissi dell’autrice, il suo manifesto programmatico.
4 Accudire le braci
Se ne L’amica geniale Lila e Lenù saltano la scuola per tentare la fuga verso il mare (come nel finale de I 400 colpi di François Truffaut, a ricordare quell’esperienza oceanica che è essere bambini), ne La spiaggia di notte la scrittrice scava nella sabbia, mentre bruciano le immagini falò dell’illustratrice. Compiono così un’azione «liturgica»: rendono al pubblico una scintilla, visibile e contemplabile, di verità non addomesticata.
Elena Ferrante e Mara Cerri illuminano il reale, un reale a più strati che “[…] quando si è giunti ad analizzare fin l’ultimo strato, non risulta affatto reale, ma pura e profonda immaginazione.” (Ortese, 1965, p. 56)
Fabian Negrin crea una potente metafora dell’illustrare: “è come andare al cinema e accorgersi a un certo punto della polvere nell’aria, che appare improvvisamente perché illuminata dal fascio di luce della cabina di proiezione. La polvere c’era anche prima, ma non la si vedeva. L’illustrazione dovrebbe essere come quel faro, quella luce.”2 Simboli di un bacino di immaginario inconscio comune, le illustrazioni ci fanno segno nel buio; è necessario aprire gli occhi, acuire lo sguardo, mettersi in cerca di queste scintille vibranti di umanità, di bagliori, di desideri luminosi.
Infanzia e (buona) letteratura hanno a che fare con l’autenticità; nell’infanzia ogni gesto, ogni sguardo, è mosso da un selvatico bisogno di verità: per chi osserva significa non accontentarsi di simulacri, farne una “professione di incredulità nell’onnipotenza del visibile”, poter vedere quello che non c’è e andare al vero: “L’ideale per me sarebbe riuscire a ottenere con risposte brevi lo stesso effetto della letteratura, cioè orchestrare menzogne che dicono sempre, rigorosamente, la verità.” (Ferrante, 2016, p. 137).
L’unica certezza sembra essere la falsificazione, a dirla come Calvino: “Non mentire al pubblico significa anzitutto non mentire a se stessi, recuperare la possibilità di confrontarsi con la realtà, saperla leggere, incontrarla. Magari proprio a cominciare dalla finzione letteraria, dalle fiabe che come scrive Italo Calvino nella prefazione alla sua raccolta, «sono vere»: materia viva, di fiato, di caldo e di freddo.” (Ferrante, 2016, p. 216)
Non c’è scissione tra vita e finzione, e la vita viene sempre prima; così la bambola ci umanizza: ci vive e ci pensa, ci agisce e ci cresce, ci guarda e ci guarisce. Attraverso questa materia che facciamo vivere, veniamo a conoscenza di noi stessi, come una matrioska di nostri plausibili sè. La bambola è la figlia oscura, lei che fugge e che resta, bambina perduta, frantumaglia, e noi biografie reali di queste profezie che ci allenano a essere donne, madri, figlie, spose, amiche.
Con la sua alterità mimetica questo ‘talismano’ ci invita a stare sulla soglia: tra realtà e finzione, “in bilico tra essere e non essere, tra noi e altro, tra il qui e l’altrove” (Grilli in Beseghi, Grilli, 2011, p. 30), educandoci a essere più di noi stessi, più di un mero ‘io’; la bambola ci trasmuta nella sua “amica geniale”, dove per genius seguiamo le parole di Giorgio Agamben (2005, pp. 9-11): elemento impersonale e preindividuale che spezza la pretesa di Io di bastare a se stesso, è la nostra vita in quanto non ci appartiene.
Di cosa bisogna disfarsi? “Tutto quello che si perde, ritorna, e tutti stiamo al mondo in eco involontario o eredità di altri che ci hanno preceduto, nel silenzio che precede i nomi di quelli che ci seguiranno”, scrive Lucia Calamaro (Calamaro, 2012, p. 35) in una drammaturgia il cui perno è la figura della madre. La bambola, come la finzione tutta, è ciò che resta: una narrazione che sfugge alla morte e fa proseguire il racconto verso ciò che non è ancora, o che permette sempre di poter dire ‘non gioco più’ e cominciare tutto daccapo.
Si gioca come si vive, così la Ferrante abbandona di proposito una bambola sulla spiaggia, perché i lettori se ne approprino e tornino a casa con lei. In fondo, non facciamo altro che inseguire (quel mistero che è) la nostra infanzia, “il luogo geometrico delle cose che accadono per la prima volta”.3
Dateci qualcosa che bruci, offenda, tagli,
sfondi, sporchi. Che ci faccia sentire che esistiamo.
— Primo Levi
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Winnicott, D. (1953). Transitional Objects and Transitional Phenomena. International Journal of Psychoanalysis, 34, 89-97.
Ferrante & Cerri, 2007, p. 10↩
http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2017/02/06/ASKGD1BG-genova_fratelli_illustratore.shtml↩
n.b.: l’ultimo autore non viene citato appositamente, per proseguire il gioco↩