Alla vigilia di un’importante elezione europea che qualcuno vuole ridurre a un derby fra sovranisti e globalisti, è sorprendente e sconcertante riflettere sul mito fondativo di Europa. Secondo la mitologia classica Europa era la figlia di Agenore, re di Tiro, città fenicia, tuttora esistente a una novantina di chilometri a sud di Beirut, nel Libano meridionale. Esiodo e successivamente Ovidio raccontano che la ragazza fosse bellissima, tanto che lo spregiudicato Zeus se ne invaghì e volle a tutti i costi possederla. Ma viste le sue virtuose resistenze, ricorse come spesso faceva a uno stratagemma: si trasformò in un bellissimo toro bianco e si presentò a lei mentre giocava sulla spiaggia insieme ad alcune amiche. Attratta da quell’insolito toro mansueto Europa vi salì in groppa. A quel punto, Zeus-toro si tuffò in acqua e si allontanò dalla riva rapendo la fanciulla. Poi il racconto si fa confuso: probabilmente Zeus le usò violenza tanto che quando dopo lungo peregrinare attraverso il Mediterraneo la scaricò sulle spiagge dell’isola di Creta, la fanciulla era incinta. Di certo, dall’unione con Zeus nacquero tre figli, fra i quali Minosse che sarebbe divenuto re di Creta. Fu proprio il figlio semidio che per onorare la madre volle intitolare tutte le terre a nord di Creta con il suo nome, che ancora oggi portano.
Benché sia sempre rischioso leggere con le categorie del contemporaneo i miti classici, cosa ci dice il mito del ratto d’Europa che ha variamente ispirato l’immaginazione di artisti post-rinascimentali come Tiepolo, Tiziano, Veronese o Rembrandt?
Prima di tutto che il nostro continente prende il nome da una libanese rifugiata in un paese dell’attuale Unione Europea. Europa, strappata contro la sua volontà e in modo violento dalla sua patria, probabilmente stuprata dal suo rapitore ottiene però asilo in una nuova terra dove anzi riesce a ricostruire un futuro. Inoltre, il mito celebra una fondazione basata su un incontro interculturale fra la lingua e la civiltà fenicia e quella greca che fino ad allora rappresentavano mondi distanti e incomunicabili. Inevitabilmente, infine, questo mito ci ricorda come quella stessa terra che accoglieva rifugiati e richiedenti asilo e anzi ne porta il nome, oggi chiude le sue frontiere a coloro che fuggono dalla povertà, dalla guerra, dalle persecuzioni. Questo mito, insieme ad altri come quello del troiano (e quindi turco) Enea, che fugge dalla guerra e dalla sua città natale in fiamme e sbarca come profugo sulle coste laziali e diviene il capostipite della romanità, comunque li si voglia interpretare, ci interpellano rispetto al valore etico della solidarietà e alle sue origini antiche.
Le origini mitiche dell’Europa celebrano anche in epoche pre-cristiane o pre-illuministiche – quando la solidarietà è innalzata a virtù etica o a diritto politico – quello che oggi consideriamo una minaccia, su cui si costruisce un consenso politico che fa leva sugli istinti più bassi di un elettorato stanco, impaurito e arrabbiato. In tempi più recenti, quello stesso valore è sancito anche nel fondamentale articolo 2 della Costituzione, uno dei principi fondanti del nostro stato di diritto, che indica come la Repubblica riconosce i diritti inviolabili dell’uomo (sic.) e “richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
Sin qui considerazioni sull’etimo di Europa che riecheggiano il dibattito politico attuale tanto nelle sue forme più raffinate come in quelle più popolari o addirittura triviali. Ma quali sono le specifiche sfide pedagogiche che queste considerazioni ci pongono davanti? Quali possibili risposte provengono dalla riflessione pedagogica europea nell’attuale scenario politico? Quale contributo può aggiungere lo specifico pedagogico a al discorso politico sull’accoglienza, la solidarietà, l’integrazione di rifugiati e richiedenti asilo? Ovviamente l’enormità di queste domande richiederebbe risposte e analisi che esulano dai limiti di questo editoriale. Qui ci limitiamo a evidenziare la necessità di porsele, quelle domande, specialmente in un momento critico per le istituzioni europee.
Al di là della solidarietà e dell’accoglienza emergenziale, pure importanti se si pensa alle esigenze educative dell’altissimo numero di minori stranieri non accompagnati, dalla pedagogia ci si aspettano risposte strutturali di medio-lungo periodo. Su questo piano la riflessione pedagogica che riguarda quelli che qualcuno ha definito i post-migranti (Zoletto, 2012) richiede un serio ripensamento dei paradigmi pedagogici con i quali finora si è affrontato il tema della diversità culturale nei processi e contesti educativi.
La pedagogia interculturale, specie se declinata in termini di educazione alla giustizia sociale (Tarozzi, 2015), resta una concreta e valida risposta pedagogica, ma non esaurisce la gamma di sfide educative che la diversità culturale, le diseguaglianze sociali, le discriminazioni, i razzismi vecchi e nuovi, la decolonizzazione, la povertà pongono oggi alle società globalizzate europee. Essa riguarda soprattutto i percorsi scolastici dei post-migranti dove si articolano identità culturali plurali e ibride con le quali è importante imparare a convivere. Le società europee sono di fatto multiculturali e le sue istituzioni educative, formali e non formali, lo sono giocoforza e in modo costitutivo. In questo l’educazione interculturale alla giustizia sociale, lontana da eccessi culturalisti e attenta alla dimensione dell’uguaglianza sociale, offre solide risposte pedagogiche di medio e lungo periodo per imparare a riconoscere la differenza come un valore.
Ma il multiculturalismo e le sue declinazioni pedagogiche, così come gli approcci interculturali, sono oggi oggetto di furiose critiche in tutta Europa.
Al crescente senso di ostilità per tutti gli approcci centrati sulla valorizzazione della differenza culturale, che sfociano spesso in espliciti atteggiamenti xenofobi, strumentalmente sfruttati dalle nuove destre, così come dai partiti più tradizionalmente conservatori, fa riscontro una tendenza volta a promuovere un’integrazione sociale all’interno di valori e credenze di riscoperte identità culturali nazionali. In molti paesi, specie del nord Europa, anche a seguito dei numerosi attentati terroristici di matrice islamista, governi conservatori moderati hanno varato riforme educative che vanno della direzione di una “integrazione civica”. Questa assegna una priorità all’integrazione, o neo-assimilazione, degli studenti di origine migrante nella lingua, nelle tradizioni e nei valori liberaldemocratici della società nazionale. Un esempio emblematico è l’introduzione della materia obbligatoria “Fundamental British Values” all’interno del curricolo nazionale inglese che impone di promuovere attivamente i valori fondamentali britannici di democrazia, libertà individuale, stato di diritto, tolleranza e rispetto reciproco.
La questione oggi non è tanto comprendere quale modello di politiche educative sia più efficace o adatto a rispondere alle esigenze contemporanee e poi individuare il paradigma pedagogico corrispondente. Il problema è che gli stessi modelli nazionali di integrazione dei post-migranti sono oggi in crisi (Joppke, 2007; Wieviorka, 2014) e l’Europa non offre una voce politica univoca per gestire complessi problemi dell’accoglienza, favorire l’integrazione sociale, contrastare il razzismo in ogni forma e promuovere il dialogo interculturale. Per converso, i modelli nazionali non offrono risposte complesse e multidimensionali, ma soluzioni semplificate e di corto respiro ad uso di un elettorato disattento e impaurito. I problemi educativi legati alle migrazioni globali non possono essere isolati dai contesti economici, sociali, politici, ambientali che le hanno generate. Per questo c’è bisogno di approcci pedagogici non riduttivi che offrano una nuova prospettiva olistica per risignificare i dilemmi dell’educazione alla cittadinanza post-nazionale in società diverse e in un mondo interconnesso. Fra questi l’educazione alla cittadinanza globale (Tarozzi & Torres, 2016) offre questa visione d’insieme che considera la pluralità delle identità culturali e la differenza come elementi costitutivi e strutturali dell’eterogeneità delle nostre società e non come emergenze create da un’immigrazione pensata come un transitorio sottoprodotto della globalizzazione economica.
Ma l’educazione alla cittadinanza globale è anche un concetto estremamente scivoloso e ambiguo che può essere riferito a un discorso neoliberale globalista e sradicato dai contesti che mira alla formazione delle nuove élite globali capaci di affermarsi in un mercato del lavoro globalizzato o di fornire le competenze globali necessarie ai più per sopravvivere nello stesso mercato deregolamentato, flessibile e incerto.
Il mito di Europa ci ricorda che una prospettiva globale in educazione orientata alla giustizia sociale e fondata su una prospettiva critica e postcoloniale, può e deve trovare un radicamento nelle comunità locali, nei territori, nelle reti di senso collettive. Allora può diventare una prospettiva capace di dar senso a diversi tipi di conoscenze, competenze, abilità e valori. Altrimenti, sganciata dalla dimensione locale, resta una vuota, insensata e idealistica astrazione.
Riferimenti bibliografici
Joppke, C. (2007). Beyond national models: Civic integration policies for immigrants in Western Europe, West European Politics, 30(1), 1–22.
Tarozzi, M. (2015). Dall’intercultura alla giustizia sociale. Per un progetto pedagogico e politico di cittadinanza globale. Milano: Franco Angeli.
Tarozzi, M. & Torres, C.A. (2016). Global citizenship education and the crises of multiculturalism. London: Bloomsbury.
Wieviorka, M. (2014). A critique of integration, Identities: Global Studies in Culture and Power, 21(6), 633–41.
Zoletto, D. (2012). Dall’intercultura ai contesti eterogenei: presupposti teorici e ambiti di ricerca pedagogica. Milano: Franco Angeli.