Il libro ricostruisce i punti di riferimento storici, politici, teorici e operativi attraverso i quali dare conto dell’apporto del lavoro educativo nell’ambito della salute mentale. Con lucidità e determinazione le due autrici definiscono il loro posizionamento, che le porta ad affermare l’importanza di integrare in maniera sempre più decisa il sapere medico con un sapere pedagogico. In questi termini, il testo non solo è un’utile chiave di lettura dal punto di vista teorico, per supportare le ragioni di questo posizionamento, ma è anche uno dei molti tentativi che si stanno portando avanti di questi tempi per affermare l’importanza del sapere dei professionisti dell’educazione in quei contesti che hanno a che fare con l’accompagnamento delle persone nei loro percorsi di vita.
Il testo rappresenta un punto di incontro tra le riflessioni di Maria Benedetta Gambacorti Passerini relativamente al tema dell’incontro tra sapere medico e sapere pedagogico (2016) e alcune delle più recenti teorizzazioni di Cristina Palmieri attorno alla questione del metodo in educazione (2018).
Nel capitolo di apertura le autrici si cimentano in un interessante percorso di ricostruzione delle modalità attraverso le quali, dal Mondo Antico ad oggi, la follia e la malattia mentale sono state affrontate, dando conto delle ragioni che hanno portato all’incontro/scontro tra diversi saperi: giuridico, medico e filosofico. Grazie al ricorso ad alcuni riferimenti imprescindibili, come La storia della follia nell’età classica di Foucault (1992), per il lettore è possibile esplorare il passaggio da un’idea di follia come funzione sociale ad una codifica di essa quale emblema della condanna della diversità, che si concretizza nel «grande internamento». Attraverso il pensiero di Pinel, Esquirol e Kraepelin si coglie poi il percorso culturale che ha portato all’integrazione progressiva tra sapere giuridico e sapere medico e quindi ad un’affermazione sempre più netta di un posizionamento scientifico positivista rispetto alla malattia mentale. Procedendo con la lettura, si arriva alla messa in discussione di questo approccio oggettivante e classificatorio, ripercorrendo i punti cardine della filosofia esistenzialista e della filosofia fenomenologica, che aprono progressivamente alla comprensione della malattia mentale come modo di vivere (in questo senso sono fondamentali Freud, Jasper e Binswanger). Si arriva poi alle istanze dell’antipsichiatria e quindi alle esigenze di cambiamento degli anni ’60 e ’70, che determinano uno spazio e un tempo culturalmente adeguati all’affermazione della legge 180 del 1978, la «Legge Basaglia», basata sull’istanza della de-istituzionalizzazione, che riecheggia, dal punto di vista educativo, la pedagogia della libertà (Freire 1977, 2011; Bernardi 1980).
Si delinea infine il passaggio dal concetto di follia e malattia mentale a quello di «salute mentale» che “consente di far emergere gli aspetti esistenziali, sociali, psicologici, formativi, compresi nella patologia, andando a sottolineare l’importanza di quelli che la letteratura scientifica sempre più evidenzia come «determinanti sociali» (Marmot et al. 2008)” (p. 55). Strettamente connesso a questo concetto è quello di guarigione in termini di recovery, ovvero attraverso la valorizzazione delle capacità di ciascuno di auto-curarsi e di trovare nel proprio percorso di vita le possibilità per farlo. Questi due concetti sono i presupposti per un agire educativo in questo ambito, nei termini in cui le autrici intendono affermarlo.
Se il primo capitolo, dunque, permette di comprendere quale sia l’oggetto del discorso, successivamente si dà conto dei presupposti politici e sociali alla base dell’integrazione socio-sanitaria in Italia. Si afferma in che modo, a livello dichiarato, sia sempre più attuale l’idea di un gruppo curante e di una professionalità collettiva, che consenta la cura della persona nella sua globalità. All’interno di questo panorama, il testo analizza con lucidità le dimensioni critiche di un agire pedagogico che sempre di più necessita di affermare la propria specificità, non tanto per rivaleggiare con altre professioni, ma piuttosto per difendere il valore ineliminabile di un accompagnamento quotidiano competente che integri le dimensioni sanitarie, psicologiche e riabilitative della cura delle persone.
Si enunciano poi, in maniera approfondita, i nessi tra disciplina psichiatrica e disciplina pedagogica. Le autrici includono nel loro ragionamento il riferimento alla già richiamata opera di Foucault, la rilettura di questo autore da parte di Riccardo Massa e l’opera di Karl Jaspers Il medico nell’età della tecnica. Il lettore viene dunque accompagnato a capire in che senso le modalità di analisi e trattamento del disagio psichico sottendano sia la necessità di comprenderne le dimensioni biologiche, proprie di un sapere medico, che le dimensioni esistenziali, intese come traiettorie di vita di ogni singolo individuo, ascrivibili a un sapere pedagogico. Il disagio mentale viene inteso dunque come intreccio complesso, esito di molteplici condizioni che l’uomo si trova ad affrontare. L’approccio riflessivo che permette di comprendere in che modo questo intreccio complesso si genera nell’esperienza di ciascuno, costituisce il punto di incontro tra sapere psichiatrico e sapere pedagogico. Se si riconosce in che modo l’essere-nel-mondo di ciascuno si è determinato, è anche possibile articolare una progettualità di vita differente. Secondo le autrici, questo è il senso di una competenza pedagogica applicata nell’ambito della salute mentale.
Si apre dunque una parte del testo, che potrebbe essere vista come un manifesto del lavoro educativo di qualità, che significa essere consapevoli della complessità, contingenza e intrinseca problematicità dell’esperienza educativa e quindi della necessità di agire “con metodo” (Palmieri, 2018). Lavorando con persone con disagio psichico, ciò significa attivarsi perché ciascuno possa allargare il proprio campo di esperienza e quindi riconoscere in modo sempre più sfaccettato i propri desideri, preparando un contesto territoriale aperto e disponibile ad accoglierli. In questo senso, l’idea di recovery appare come implicitamente educativa, perché pone grande attenzione alla quotidianità, come situazione in cui sperimentare «l’autodeterminazione nelle piccole cose» e ai territori, intesi come contesti in cui «preparare il mondo all’incontro con l’altro».
In un libro che intende affermare l’importanza dello sguardo educativo nell’ambito della salute mentale, è essenziale lo spazio che viene poi dedicato alla definizione dei profili professionali che operano in esso, sia a un livello operativo (educatori socio-pedagogici e socio-assistenziali) che a un livello di coordinamento e supporto (pedagogista, supervisore). Le professioniste chiamate a contribuire al testo, attraverso scritti narrativi relativi alla loro esperienza, esplorano con attenzione sia le dimensioni ottimistiche che quelle più critiche del proprio operato e questo costituisce certamente un punto di forza del testo.
Attraverso lo sguardo di un’educatrice è possibile comprendere quanto sia delicato il mestiere di chi quotidianamente cerca di mettere in atto gesti autentici di cura. Dalla narrazione di una coordinatrice si possono cogliere quali siano le strategie organizzative per affermare un modello di recovery all’interno di un’equipe multiprofessionale che intende supportare le persone nel proprio percorso di apprendimento esistenziale: “Si offre così l’opportunità alle persone di ridisegnare il loro progetto di vita perché se il disagio è una situazione appresa lo può essere anche il benessere” (p. 174). Grazie alla testimonianza di una supervisora, infine, si possono comprendere le potenzialità e i limiti di un percorso che intende dare agli educatori delle chiavi di lettura della propria esperienza professionale, nello svolgersi di essa.
Quanto richiamato dei contenuti, dovrebbe permettere di cogliere tutta la densità di questo libro, che ha il pregio di contribuire al dibattito sulla qualità dell’agire educativo in salute mentale (ma non solo, aggiungerei) mostrando diversi livelli di discorso: storico, politico, teorico e operativo. In questi termini, riesce a dare conto delle molteplici sfaccettature della questione e della sua complessità, soprattutto in un contesto come quello attuale in cui la fragilità esistenziale si attesta sempre più come una dimensione che riguarda tutti. In questo senso, riuscire ad affermare con precisione teorica il valore dell’inter-professionalità e dei molteplici sguardi che possono contribuire a costruire percorsi esistenziali che rispondano davvero ai desideri di ciascuno, è sempre più importante, per sfuggire alle possibili semplificazioni che dividono chi è considerato «normale» da chi non lo è.
Si tratta dunque di un testo che dovrebbe essere letto dai professionisti del settore che siano disponibili a porsi delle domande di senso sul proprio operato, ma anche da coloro che fanno fatica a comprendere il valore effettivo di un agire educativamente orientato, che accompagni un progetto esistenziale, attivando apprendimenti quotidiani e azioni concrete di inclusione sociale.
Riferimenti bibliografici
Bernardi, M. (1980). Educazione e libertà. Milano: Giovanni De Vecchi editore.
Foucault, M. (1992). Storia della follia nell’età classica. Dementi, pazzi, vagabondi, criminali. Milano: BUR.
Freire, P. (1977). L'educazione come pratica della libertà. Milano: Mondadori.
Freire, P. (2011). La pedagogia degli oppressi. Torino: Edizioni Gruppo Abele.
Gambacorti Passerini, M. B. (2016). Pedagogia e Medicina: un incontro possibile. Un’esperienza di ricerca in salute mentale. Milano: Franco Angeli.
Marmot M., Friel S., Bell R. & al. (2008). Closing the gap in a generation: health equity through action on the social determinants of health. Lancet, 372(9650), 1661–1669. https://doi.org/10.1016/S0140-6736(08)61690-6.
Palmieri, C. (2018). Dentro il lavoro educativo. Pensare il metodo, tra scenario professionale e cura dell’esperienza educativa della formazione. Milano: Franco Angeli.