Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education. Vol.23 n.54 (2019)
ISSN 1825-8670

Patrizia Garista, Come canne di bambù. Farsi mentori della resilienza nel lavoro educativo, Franco Angeli, Milano, ISBN 9788891769404, 162 pagine, 2018

Cristina CoccimiglioINDIRE, Istituto Nazionale Documentazione Innovazione Ricerca Educativa (Italy)

Pubblicato: 2019-07-30

Cosa significa parlare di resilienza nei contesti educativi? Quale teoria può accompagnare lo sviluppo di un sapere su questo costrutto, evitando distorsioni, forzature e abusi, per poi declinarlo in relazione a molti temi della riflessione pedagogica come le competenze di vita, l’orientamento educativo, la cura, la lettura, il lavoro interculturale e l’accoglienza, le differenze di genere a scuola, l’inclusione e molto altro?

Garista invita, fin dalle prime pagine, ad adottare uno sguardo critico e biografico, a esplorare teorie e narrazioni alla ricerca di una propria auto-teoria sulla resilienza, fondata nella letteratura oggi a disposizione, ma aperta al dialogo con la fenomenologia dei contesti educativi che frequentiamo e con le biografie che fondano le nostre epistemologie. Così come esplicitato nel titolo del libro, il fattore mentoring risulta essere cruciale nello sviluppo di resilienza. Fattore mentoring non è semplicemente il mentore incarnato in una persona “anche il narratore di un libro può fungere da fattore mentoring” (p.111). Come sottolinea Zannini, nella prefazione al testo, infatti “il fattore mentoring non necessariamente corrisponde a un’unica figura tutoriale, tuttavia compare sotto varie vesti nel lungo percorso di definizione e costruzione di un sé resiliente” (p.24).

Ed è proprio questo aspetto che rimanda alla relazione educativa ma anche alla relazione con il sapere e con la costruzione delle conoscenze, ad evocare una riflessione personale, alla ricerca di un’auto-teoria sulla resilienza. Mi chiedo infatti se molto spesso non possa essere anche una stessa disciplina a svolgere un ruolo di fattore di rafforzamento a un’attitudine alla resilienza oltre che strumento per indagarne limiti e opportunità, in una prospettiva fenomenologica. Dunque penso alla filosofia ad esempio, nel momento in cui diviene esercizio di pensiero critico sul presente, sull’attualità, sui processi e sulle relazioni interpersonali.

Altro aspetto interessante, in un momento in cui hanno molto séguito le storie di successo e sui talenti, è anche un approfondimento che questi studi sulla resilienza possono portare relativamente al ruolo degli insuccessi o dei cosiddetti “fallimenti”, degli errori e della loro trasformazione in un nuovo apprendimento tramite il processo educativo e resiliente. I numerosi esempi tratti da storie di vita stimolano a ricordare una riflessione di Pasolini sull’importanza di educare al valore della sconfitta, alla sua gestione. All’umanità che ne scaturisce, per costruire un’identità capace di avvertire una comunanza di destino, dove si può fallire e ricominciare senza che il valore e la dignità ne siano intaccati. Partire anche da narrazioni complesse dunque ribaltando la visione del resiliente, eroe postmoderno del successo a tutti i costi. Partire dai margini. Dalle storie. E su questo innanzitutto condividere prospettive e riflessioni, sempre coltivando una visione interdisciplinare, pronta a ridefinirsi e trasformarsi come la stessa resilienza richiede. D’altra parte, quando si parla di resilienza, nell’evoluzione delle sue ricerche, si fa riferimento a un costrutto che si fonda fenomenologicamente su un paradigma narrativo. La cultura della resilienza si nutre dei saperi dello scienziato e dello studioso ma soprattutto delle storie di vita e di formazione dei soggetti e delle loro comunità.

Questo libro ha il merito di rimettere al centro l’importanza del tema della capacità di adattamento ma anche del potenziale educativo di un mancato adattamento, e aiuta a chiarire l’evoluzione dello studio della resilienza in questi ultimi decenni. Nel libro si citano le ultime argomentazioni di Tisseron (2017), il quale individua tre fasi di studi sulla resilienza, di cui l’ultima, supportata anche dagli studi delle neuroscienze sulla plasticità del cervello e sull’adattamento nelle diverse fasi della vita, è in linea con studi sociologici che analizzano le reazioni a poteri sociali e culturali. Questa fase, al momento la più sviluppata, inquadra la resilienza come una forza, come un’attitudine che in parte ciascuno possiede e che può essere influenzata dall’ambiente sociale, culturale e relazionale. Si configura quindi la possibilità di parlare di attitudine alla resilienza (e di resilienza come attitudine allo studio di storie, biografie, ma anche di processi del passato che hanno portato trasformazioni sociali e culturali) e di capacità di dare un senso a ciò che ci accade, gestendo emozioni, facendosi carico di un lavoro di cura di sé (supportati dal fattore mentoring) e di un certo livello di autostima anche in situazioni sfavorevoli. Le capacità di introspezione, di astrazione, di immaginazione, di costruzione di uno spazio mentale che funga da riserva psichica, la speranza, i legami significativi, le competenze comunicative, l’umorismo (Cyrulnik, Malaguti, 2005) sono tutti fattori rielaborati in questo volume, che assumono dunque una valenza fondamentale nella creazione di nuovi apprendimenti.

Altro punto che viene messo in luce in questo lavoro è che lo scopo della pedagogia non è solo comprendere i processi educativi ma trasformarli in una progettualità futura e il fine della ricerca nel campo della resilienza non è tanto svelarne le leggi (fattori di protezione interni o esterni, meccanismi di elaborazione) quanto indagare modi e significati con cui i soggetti elaborano e interpretano situazioni, strumenti e saperi in forme contingenti.

Seguendo questo ultimo punto la lettura della seconda parte, più densa di proposte metodologiche se pur ancorata a temi e contesti specifici, pone il lettore in una nuova fase riflessiva, sulle proposte educative e di ricerca sulla resilienza e richiama l’adozione di uno sguardo obliquo, trasformativo, profondo e disincantato ma anche scrupoloso rispetto allo sviluppo di una competenza etica per educare alla resilienza. Come evidenziano Bruzzone e Zannini (2014), citati nel testo, nei processi di mentoring (e quindi anche quelli relativi alla resilienza) il lavoro di cura è infatti «caratterizzato da un’ineliminabile connotazione etica e umanistica, oltre che scientifica e tecnica» (p.152).

Dare spazio a una co-costruzione aperta del sapere sulla resilienza è quindi decisivo, sia a livello di pratiche che di riflessioni e ricerche. Un sapere che, come si spiega nel testo, per porsi al servizio di un lavoro educativo per la resilienza altrui non può prescindere da un lavoro su di sé e sulla propria resilienza.

Riferimenti bibliografici

Bruzzone, D., & Zannini, L. (2014). Prospettive fenomenologiche della cura di sé nella formazione continua dei professionisti della salute, Encyclopaideia, 18(39), 3–5. https://doi.org/10.6092/issn.1825-8670/4565.

Cyrulink, B., & Malaguti, E. (2005). Educarsi alla resilienza. Trento: Erickson.

Tisseron, S. (2017). La résilience. Paris: Presse Universitaires de France/Humensis.