L’educazione è la principale sfida per lo sviluppo e per la prevenzione delle tante forme di violenza e marginalità. I cambiamenti culturali e sociali che stiamo vivendo, ma anche quelli tecnologici dovuti alla più imponente rivoluzione degli ultimi anni, richiedono percorsi formativi e competenze idonee alla crescita e alla competitività del Paese. La complessità sociale ed economica del nostro tempo impone di investire sull'educazione, perché è solo così che si può dare risposta ai mutamenti che stanno cambiando le nostre società a una velocità inaspettata. I nostri ragazzi dimostrano di non avere gli strumenti culturali per affrontare gli straordinari stravolgimenti che stanno modificando il modo di conoscere e di apprendere, ma anche il lavoro e le relazioni. Questa consapevolezza deve costituire un patrimonio di tutti, dalle istituzioni ai cittadini: è ai minori di oggi che spetterà il compito di costruire il futuro del Paese.
Oltre che sulla scuola dobbiamo investire anche sull'educazione informale. Costruire percorsi di formazione attivando sinergie con l'intera comunità territoriale: le famiglie, i servizi e il volontariato svolgono un ruolo decisivo far crescere un territorio e la comunità locale. Perché l'educazione non è mai una questione privata: è sempre pubblica e politica e, per questo, è necessario che la responsabilità educativa venga condivisa di fronte alle emergenze certificate ogni giorno dalle ricerche scientifiche, dai monitoraggi e anche dalla cronaca quotidiana.
Costruire un progetto educativo significa, prima di ogni altra cosa, aiutare a cercare risposte alle domande di senso, perché le povertà educative e materiali sono tante e diversificate. Il rapporto della Fondazione Openpolis e dell’Associazione “Con i bambini” certifica come, in meno di 15 anni, il numero dei minori in condizioni di povertà sia triplicato: dal 3,9% del 2005 al 12% di oggi. I bambini e gli adolescenti in povertà assoluta in Italia sono un milione e 200mila. Ma le povertà materiali e quelle educative sono facce della stessa medaglia, poiché le famiglie con minore scolarizzazione sono quelle in cui l’incidenza del tasso di povertà risulta maggiore: in un nucleo a basso reddito, potrebbero servire cinque generazioni per raggiungere il reddito medio nazionale.
A 30 anni dalla firma della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia, sono proprio i minori a subire maggiormente l'impatto della recessione economica. Oggi si registra il dato più grave di analfabetismo strumentale e funzionale dall’ultimo dopoguerra, come dimostrano le indagini di Unicef. In alcune realtà meridionali molti bambini si scolarizzano soltanto a 6 anni, e meno di 2 bambini su 10 frequentano un asilo nido. Inoltre, in Italia si registra un tasso di dispersione tra i più alti in Europa: il 17% dei giovani tra i 18 e i 24 anni lasciano prematuramente ogni percorso formativo, divenendo così più esposti ai rischi della strada. A ciò si aggiunga che tre milioni di minorenni tra i 6 e i 17 anni non hanno mai letto un libro non scolastico. Infine, permane elevato il numero dei ragazzi nella fascia 15-24 anni che non studiano e non lavorano (NEET): circa 1,3 milioni di persone, ovvero il 20% della popolazione di questa fascia di età.
Non è un Paese per bambini, anzi: per la prima volta i figli stanno peggio dei genitori. L’ascensore sociale, che per decenni ha registrato un benessere crescente con il susseguirsi delle generazioni, si è fermato. E il peggioramento riguarda non solo le condizioni materiali, ma soprattutto quelle educative. In questo quadro allarmante, è evidente come l’accessibilità ai servizi per minori e una scuola di qualità diventino strumenti fondamentali per contrastare il fenomeno drammatico della recessione.
Le aree del Paese dove l’istruzione è migliore, hanno saputo rispondere in maniera più efficace alla crisi. Per questo, la scuola deve essere messa nelle condizioni di diventare un reale agente di cambiamento e mobilità sociale, in grado di fornire un’estesa educazione inclusiva che garantisca effettive opportunità di apprendimento per tutti. I dati rilevano invece che i tassi elevati di abbandoni scolastici, la carenza di competenze e i livelli non adeguati di conoscenza, coincidono con le aree più povere dello stivale, quelle dove maggiore è la povertà e minore l’accesso servizi come biblioteche, musei, attività sportive, servizi per la prima infanzia, fruizione digitale. Purtroppo, siamo invece agli ultimi posti per quanto riguarda la spesa in istruzione (l’Italia spende il 3,9% del PIL, contro una media europea del 4,7%); e non sembra vi sia da nessuna inversione di questo trend, che rischia di condannare il nostro Paese a un futuro di mancata crescita e crescenti disuguaglianze.
Dobbiamo guardare alla condizione dei minori in Italia e nel mondo con senso di responsabilità e lungimiranza, mettendo in campo politiche di media education e uso corretto della rete, educazione ai sentimenti e al rispetto del corpo-persona, educazione alla cittadinanza, scuole aperte al territorio oltre l'orario delle lezioni, rafforzamento dell'interazione tra la scuola e le altre agenzie educative, potenziamento dei servizi per la prima infanzia. Invece, tagliare sull’educazione significa sottrarre alle persone e ai territori opportunità indispensabili alla costruzione del futuro. Senza un progetto di lungo periodo e risorse ad hoc, la scuola, soprattutto nelle aree di maggiore degrado e abbandono, non potrà mai diventare un laboratorio di sperimentazione didattica e sociale.
Ma il contrasto alla povertà educativa non è solo una questione di risorse economiche. È necessaria una politica di welfare capace di entrare nei luoghi educativi e investire sulla presenza capillare degli educatori. Più opportunità offriamo ai ragazzi, maggiore è la possibilità di sottrarli all’emarginazione, al disagio e alla devianza e, soprattutto, di restituire loro un futuro praticabile. Il compito più importante della politica, del resto, è dare un futuro al paese, e senza una vera attenzione ai più piccoli non saremo in grado di farlo. Né sul piano degli strumenti cognitivi, né sul versante economico, né su quello, decisivo, della democrazia.
Dove non si investe sulla democrazia si espande una comunicazione di massa che, senza adeguate mediazioni, spinge i cittadini a seguire gli imbonitori e i loro messaggi semplici e disintermediati. Si propongono soluzioni attraenti, si descrive una realtà alterata in cui le regole possono essere aggirate e questa visione distorta, fondata su messaggi spesso ingannevoli, impedisce che emerga una responsabilità pubblica collettiva. Il risultato è un’assenza di senso delle istituzioni.
Oggi, più che mai, l’antidoto contro queste dannose derive può essere un rilancio dell’educazione intesa anche come capacità critica nei confronti della politica e della società. Un’educazione per la politica e alla politica. Un’educazione che restituisca ai cittadini la capacità di comprendere, approfondire, valutare, sentire, scegliere, decidere.
Numerose indagini dimostrano che alle radici del populismo c’è un drammatico deficit di istruzione. La stagione politica recente, a livello europeo e mondiale, ha indicato in tutta la sua evidenza che oggi la frattura è tra laureati e non laureati, centri urbani e periferie. Le reazioni a questi dati sono ostili e si riassumono nel timore che le élite tolgano potere al popolo. Paura espressa in un tono rabbioso e sprezzante, anche violento. Se la politica fosse volta al bene comune, oggi si impegnerebbe per colmare questo divario, prima che il fossato dell’odio e del rancore diventi troppo largo per essere colmato; si impegnerebbe per rimettere al centro della sua agenda istruzione ed educazione, diffondendo nelle periferie servizi, infrastrutture, reti solidali e cultura.
Solo istruzione e conoscenza possono salvare la democrazia dall’ideologia populista. Perché se le scelte delle persone nascono da informazioni scorrete e mendaci, basate su pregiudizi, slogan e fake news, la democrazia perde la sua forza e si trasforma in un sistema inefficace. Se l’educazione smarrisce il suo senso e il suo valore, la democrazia diventa un sistema di governo che è tale solo sulla carta. La qualità della democrazia passa, invece, attraverso l’educazione come strumento di rinascita della coscienza civile, dell’umanesimo sociale e dell’etica politica, contro il trionfo del pensiero unico manipolato da una comunicazione distorta e aggressiva che trasforma i cittadini in sudditi illudendoli di un nuovo protagonismo.
Se vogliamo evitare una deriva in cui la mancanza di coscienza critica aumenti il culto del potente di turno e la più devastante demagogia, diventa decisivo ripensare in termini etici la politica e ridare senso e valore all’educazione, quale unico strumento per favorire davvero il cambiamento e promuovere l’emancipazione.