L’essere e la realtà sono puro non senso,
chi ha senso e dà senso è l’esistente, l’uomo.(E. Lévinas, Dall’esistenza all’esistente)
Quando Albert Camus, nel 1942, scriveva nell’incipit de Il mito di Sisifo che vi è soltanto un problema filosofico veramente serio, ovvero quello del suicidio, intendeva sottolineare che la domanda per eccellenza a cui l’essere umano è chiamato a rispondere è “se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta”. Accade, soprattutto, allorché avverte l’insensatezza del suo destino o, per meglio dire, quando il destino lo pone in condizioni di dubitare del senso della vita, di fronte cioè a situazioni irreversibili di fronte alle quali si scopre precario e impotente. Appare chiaro allora che, in quanto minacciata dal non senso, “la vita è dar vita all’assurdo” (Camus, 2017, p. 50). Nel suo contesto originario, questa affermazione enfatizza l’eroismo dell’essere umano che – come Sisifo, appunto – lotta quotidianamente per la vita nonostante tutto. Ma, a ben vedere, essa si attaglia anche a chi non condivide la Weltanschauung atea e nichilista dello scrittore francese: ogniqualvolta deve affrontare un destino avverso o incomprensibile, ciascuno di noi scopre in se stesso un misterioso impulso a ricercarne il senso (pur dubitandone) e a riconfigurare la propria esistenza per metabolizzare ciò che la mette in scacco.
L’esperienza della malattia – soprattutto nelle sue declinazioni più severe, croniche o addirittura terminali – è una di quelle situazioni-limite di fronte alle quali l’esistenza individuale è esposta al rischio del “naufragio” (Jaspers, 1983). E tuttavia, proprio dinanzi alla “tragica triade” (Frankl, 2000, p. 128) della lotta, del dolore e della morte, si manifesta più chiaramente quella ricerca di senso che può mantenerci in vita perfino nelle condizioni più estreme. Proprio questa esigenza di significatività, anzi, rappresenta un fattore protettivo di inestimabile valore, nelle situazioni difficili, e in quanto tale necessita di essere stimolata e accompagnata nel lavoro di cura, che da questo punto di vista acquisisce una caratterizzazione squisitamente educativa (Bobbo, 2009).1
1 Ogni corpo è una storia
Se c’è una cosa che la malattia mostra con chiara evidenza, è che una persona è anzitutto un corpo e, tuttavia, non è mai riducibile ad esso. L’esperienza della malattia, infatti, è caratterizzata da un processo di attribuzione di significato che ne rende variabile la percezione e che condiziona gli stili di coping messi in atto da ciascuno. “Siamo creature materiali e metaforiche al contempo” (Charon, 2019, p. 98) e questo comporta che tutto ciò che ci accade sul piano fisico è immediatamente filtrato da precomprensioni culturali (Quaranta & Ricca, 2012) e connotato da implicazioni emotive, esistenziali e spirituali, che non possono essere trascurate nell’ascolto del malato (Good, 2006). Ogni corpo è una storia, in quanto reca le tracce mnestiche degli accadimenti che l’hanno coinvolto, e al tempo stesso è un progetto, in quanto incarna il modo peculiare di essere-nel-mondo di ciascuno.
Come dice un noto semiologo:
Il corpo è scritto. Esso è il primo e più fondamentale supporto di scrittura del mondo umano. Su di esso segniamo costantemente le tracce che ci permettono di organizzare il suo rapporto con gli altri corpi, con la natura non umana, con la società. Ogni modificazione del corpo (…) lavora su queste tracce e le modifica. (Volli, 2002, p. 251)
Questo processo di scrittura e ri-scrittura del corpo include tutte le modificazioni agite (lo vestiamo in un certo modo, coprendolo o esponendolo, lo decoriamo in modo più o meno indelebile, lo alleniamo, lo sottoponiamo a disciplina, ecc.) e le modificazioni patite (crescita, invecchiamento, violenza, disabilità, malattia): ognuno di questi eventi assume un certo significato e ristruttura retroattivamente l’esperienza di sé nel suo complesso. È chiaro, quindi, che l’identità personale è radicata nel vissuto del corpo e, in particolare, nel racconto che ciascuno ne fa.
Jerome Bruner (1991; 1992) aveva compreso che la realtà con cui ci rapportiamo è sempre l’esito di un processo di costruzione narrativa, attraverso il quale conferiamo un ordine e un senso agli eventi. Analogamente, il Sé risulta costruito come un testo che conferisce coerenza e direzionalità alla propria esistenza. Non si tratta, quindi, di un edificio solido e indistruttibile, ma piuttosto di un cantiere in continuo divenire.
È soprattutto nell’ermeneutica di Paul Ricoeur (1986; 1996) che la nozione di identità narrativa è stata ulteriormente sviluppata. Secondo il filosofo francese, il rapporto che noi stabiliamo con la realtà è simile alla mímesis, ovvero a un’imitazione creatrice che, sulla base di eventi oggettivi, costruisce una storia individuale. Questo processo si instaura sulla base di tre principi fondamentali: la prefigurazione (ogni vita ha una precomprensione narrativa che la rende suscettibile di essere raccontata), la configurazione (l’atto vero e proprio di intessere l’intreccio narrativo) e la rifigurazione (il senso di una storia si completa solo quando viene letta o ascoltata da altri). Il racconto che una persona costruisce della sua vita narra, di fatto, ciò che essa è e, al tempo stesso, ciò che può diventare. In altre parole: ciascuno è autore e prodotto della propria storia, cioè della narrativizzazione della sua esperienza (White, 1981).
Nella cornice di questa comprensione narrativa dell’esistenza, fatti e significati non sono il polo oggettivo e quello soggettivo dell’esperienza, contrapposti o sovrapposti l’uno all’altro. Essi rappresentano semmai i due elementi costitutivi dell’esperienza stessa: l’accadimento (Geschehnis) e il vissuto (Erlebnis) sono infatti inseparabili, dal momento che qualsiasi accadimento viene immediatamente percepito da chi lo vive come avente un certo significato (Straus, 2011). Tuttavia, gli accadimenti della vita non hanno un significato una volta per tutte, ma il loro significato può modificarsi nel tempo e in relazione al divenire della personalità. L’accadimento di un evento indesiderato (ma anche talvolta il non accadimento di un evento desiderato) può potenzialmente causare una “frattura biografica” (Bury, 1982), una interruzione nella trama della propria storia che può mettere in crisi l’intero senso di vita di una persona, la sua percezione di sé, perfino il suo quadro di valori e le sue convinzioni più radicate. La malattia grave, in questo caso, può rappresentare un evento traumatico che costringe il paziente a riscrivere l’intero racconto di sé.
Cogliere questa valenza biografica (non solo biologica) della malattia è indispensabile per prendersi cura delle persone. Escludere questa dimensione del significato, invece, equivale ad espropriarle di ciò che è propriamente personale. Ciò ha una rilevanza anzitutto sul piano dell’epistemologia della cura medica: è necessario, cioè, articolare una comprensione della malattia che non riduca il corpo a mero organismo, perché – come scrisse un noto psichiatra – “una teoria dell’altro come organismo è tutt’altra cosa che una teoria dell’altro come persona” (Laing, 2001, p. 10).2 Se da un lato la concezione del corpo come organismo consente di preservare l’oggettivazione e il distacco, dall’altro l’approccio al corpo-persona implica invece una relazione inter-soggettiva.
Il corpo è il campo ontologico della medicina: “a seconda del modello di corpo da cui si prendono le mosse, si delimiteranno, in differenti aperture di senso, specifiche ontologie regionali su cui si installerà il sapere medico” (Costa & Cesana, 2019, p. 16). L’ontologia regionale che si schiude a partire dal corpo morto (Körper) è radicalmente diversa da quella che si apre a partire dal corpo vivo (Leib): il primo è un oggetto, simile a un meccanismo che si può guastare e riparare, ma non contiene (o sono considerati irrilevanti) vissuti o desideri o progetti; il secondo invece è sempre un soggetto, irriducibile a una macchina, proprio in quanto implica una vita interiore e, quindi, un’intenzionalità (Galimberti, 1987; Zannini, 2004). In altri termini: il corpo vivo non può mai essere considerato semplicemente una cosa da osservare, ma un (altro) punto di osservazione sul mondo.
Ne conseguono modi diversi di percepire e di dare significato all’esperienza della malattia da parte di medici e pazienti (Toombs, 1993). Una discrepanza da cui dipende una certa incomunicabilità (Jaspers, 1991), che può però essere corretta dall’esercizio di una comprensione empatica il più possibile accurata.3 Per ogni paziente la malattia rappresenta “un’alterazione del suo rapporto con il mondo” (Costa & Cesana, 2019, p. 89): è necessario dunque comprendere come essa si sia innestata sulla sua storia individuale, quali disequilibri o assestamenti provochi sul piano identitario, e soprattutto aiutarlo a ritrovare un modo di stare al mondo compatibile con la situazione in cui si trova. Un clinico a cui sfugga la differenza tra i due aspetti della malattia, “quello dal punto di vista del paziente e quello dal punto di vista del medico”, è “un medico a metà” (Rugarli, 2017, p. 74). E questo vale, ovviamente, per tutti i professionisti della salute e della cura.
2 L’esperienza di malattia e la ricerca di significato
Nel campo della psicologia la questione del significato è sempre stata considerata ambigua e non scientifica, a motivo della sua difficile oggettivazione. Paradossalmente, quella che doveva essere una scienza atta a spiegare il significato dell’esperienza soggettiva, ha escluso per lungo tempo (almeno dall’ambito accademico) l’indagine su questo aspetto. Nondimeno, via via che il naturalismo mostrava i suoi limiti nella comprensione del comportamento e delle sue motivazioni, si è fatta avanti una diversa concezione della ricerca psicologica, più incerta forse, ma più aderente all’esperienza umana (Armezzani, 2002). Gli approcci umanistico-esistenziali, costruttivisti e fenomenologici (questi ultimi, peraltro, riscoperti negli ultimi anni dalle neuroscienze cognitive nell’ambito della ricerca sulla embodied mind) hanno contribuito a sviluppare modelli teorici sensibili alla dimensione del significato.
Se si dovesse rintracciare il momento in cui il tema del significato inizia a diventare una variabile interessante per la psicologia sperimentale, lo si potrebbe identificare nella pubblicazione di uno studio di Crumbaugh & Maholick (1964), in cui veniva introdotto uno strumento per la misurazione del senso dell’esistenza: il Purpose In Life test (PIL). Gli autori dell’articolo erano allievi dello psichiatra austriaco Viktor E. Frankl, noto sopravvissuto ai campi di concentramento, il quale aveva posto a fondamento della sua Logoterapia e Analisi Esistenziale il costrutto della volontà di significato (Wille zum Sinn), ovvero l’esigenza fondamentale dello spirito umano di trovare un senso e uno scopo nelle concrete situazioni dell’esistenza (Bruzzone, 2007; Bruzzone, 2012a). Frankl era persuaso, infatti, che a fronte del vuoto esistenziale nel quale le persone precipitano quando smarriscono il senso della propria vita, fosse necessaria una terapia “incentrata sul significato della vita e sull’uomo in cerca di tale significato” (Frankl, 2010, p. 51).4 Non a caso Frankl è ritenuto un antesignano della psicologia esistenziale e della psicologia positiva e un riferimento obbligato per quanti si occupano di ricerca sul tema del senso dell’esistenza (Wong & Fry, 1998; Batthyany & Guttman, 2005; Batthyany & Russo-Netzer, 2014).
Frankl aveva già rilevato il survival value di questa tensione verso il significato in quanto sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti durante la seconda guerra mondiale (Frankl, 2017): la ricerca ha confermato successivamente che essa costituisce un’importante risorsa nella promozione della resilienza e della crescita post-traumatica (Calhoun & Tedeschi, 2006). L’esperienza di malattia, in genere, esercita un impatto sulla qualità della vita (Glaser & Strauss, 1975) che dipende perlopiù dalla percezione soggettiva degli eventi, ma soprattutto dal processo di elaborazione che il paziente è in grado di farne. I processi di meaning-making hanno quindi un ruolo cruciale nel determinare l’effetto delle situazioni critiche e degli eventi stressanti sulla vita delle persone (Park, 2010) e influiscono direttamente sul benessere dei pazienti e sul loro processo di salutogenesi (Antonovsky, 1987).
Quello sul meaning-focused coping rappresenta ormai un filone di ricerche articolato e promettente. Crystal L. Park, dell’Università del Connecticut, ha elaborato un modello teorico sul meaning-making che distingue due livelli: il significato globale e il significato situazionale (Park & Folkman, 1997). Il global meaning include tre fattori principali: credenze e convinzioni; ideali e aspirazioni; senso personale e orientamento allo scopo. Ciascuno di questi tre aspetti è direttamente correlato allo stato di benessere e di salute psicofisica. In particolare, il global meaning
gioca un ruolo essenziale nel determinare il modo in cui le persone affrontano le situazioni di crisi o di malattia grave, influenzando il loro adattamento e, come alcune ricerche suggeriscono, perfino la loro sopravvivenza. (Park, 2013, p. 41)
Il situational meaning, invece, è sostanzialmente il senso che una persona attribuisce a ciò che sta vivendo in un dato momento: il modo di rappresentarsi gli eventi e di reagire ad essi. Tale attribuzione di significato dipende, in buona parte, dal background culturale e biografico, ma anche dalle risorse contingenti (relazionali, affettive, religiose, ecc.) su cui un soggetto può contare in una certa fase della sua vita.
Si tratta dunque di un modello discrepancy-based: la percezione di una discrepanza tra il significato di una situazione particolare (ciò che le persone sperimentano concretamente) e il sistema di riferimento generale (ciò che le persone credono e desiderano) crea una tensione, che le persone cercano di ridurre mediante assimilazione (modificando il significato della situazione concreta) o accomodamento (cambiando se stesse e il proprio sistema di riferimento).
L’esperienza della malattia grave, cronica o terminale può stravolgere il sistema di significato di una persona, mettendo in crisi le sue convinzioni e la sua identità, insinuando dubbi radicali, destabilizzando il suo senso di controllo, rendendola più consapevole della propria precarietà, limitando oggettivamente le sue possibilità di realizzazione, fino a produrre sfiducia nel futuro e perdita della speranza. Il meaning-making aiuta a ridurre lo stress derivante dalla situazione critica, “aiutando i pazienti a assimilare la malattia nel loro sistema di significato preesistente o a cambiare il loro sistema di significato globale per accomodarlo ad essa” (Park, 2013, p. 43). Si tratta di un lavoro di carattere educativo, e non clinico, in quanto non agisce sulla malattia, ma sulla persona, accompagnandola in un processo riflessivo di reinterpretazione di sé e di ciò che sta vivendo, al fine di ritrovare un ordine nel caos e, soprattutto, di ridare alla vita una direzione significativa.5 È infatti l’intenzionalità l’elemento cruciale nella ricerca di senso: l’essere orientati verso uno scopo, l’essere protesi verso qualcosa o qualcuno. Frankl chiamava questa qualità autotrascendenza; il filosofo François Jullien l’ha recentemente denominata de-coincidenza, ovvero quella “tensione che mantiene in vita” (Jullien, 2019, p. 33) e senza la quale la vita stessa sarebbe priva di senso.
3 Verso una integrazione narrativa dell’esperienza
Se il desiderio e l’intenzionalità sono il motore della vita, occorre attivare con i pazienti un tipo di cura che sappia intercettare, oltre ai loro bisogni psico-fisici, anche la loro esigenza spirituale di coerenza e direzionalità, aiutandoli a esplicitare le domande esistenziali connesse alla loro situazione, a ricomporre un quadro di significati e valori entro il quale la malattia non sia solo un fattore dirompente, ma possa diventare perfino una paradossale occasione di crescita e di maturazione personale.
Il Narrative meaning-making ha a che fare con “la dimensione esistenziale che soggiace al coping e all’adattamento” (Hartog et al., 2017, p. 4): il suo scopo è quello di sostenere il processo di cambiamento e di ricostruzione narrativa dell’esistenza. Di fronte a un’esperienza che mette in crisi la consistenza e la tenuta della loro visione del mondo e della vita, i pazienti devono affrontare la fatica di generare una nuova narrazione: ciò suppone un cambio del punto di vista sugli eventi, talvolta un faticoso processo di reinterpretazione di se stessi (Bruzzone, 2018) e, in ogni caso, una rimodulazione delle proprie aspettative e aspirazioni. Ciò coinvolge almeno tre dimensioni: quella del giudizio (evaluation), cioè della valutazione di un evento come positivo o negativo in rapporto alla propria vita; quella dell’azione (agency), ovvero della propria capacità di prendere posizione nei suoi confronti; e quella della possibilità (scope), vale a dire della portata dell’evento in relazione ai propri obiettivi.
L’esistenza di una persona, infatti, “si svela attraverso la sua biografia: essa manifesta (…) ciò che realmente è quest’uomo, sia nei significati che egli ha effettivamente realizzato che nelle possibilità di significato” (Frankl, 2005, p. 68). Questa distinzione è di somma importanza per comprendere che cosa significhi il termine significato secondo una prospettiva fenomenologico-esistenziale. Il significato, secondo Frankl, non è semplicemente qualcosa che si produce in modo arbitrario, ma una concreta possibilità esistenziale che deve essere identificata e realizzata.6
Si può parlare di integrazione narrativa “nella misura in cui l’evento biografico viene integrato nel racconto di vita, acquista un significato ed entra a far parte dell’identità personale di qualcuno” (Hartog et al., 2017, p. 8). Sono stati individuati, a questo proposito, quattro diversi atteggiamenti che i pazienti possono adottare:
Negazione (Denying): la situazione di malattia viene rimossa o minimizzata e marginalizzata e la propria storia di vita viene mantenuta rigidamente in piedi, come se niente fosse. Si tratta di una situazione ad alto rischio di collasso, che può durare più o meno a lungo prima di implodere.
Riconoscimento (Acknowledging): la malattia viene effettivamente presa in considerazione come elemento di disturbo che avrà delle conseguenze sulla propria vita, ma si tratta di una presa di coscienza che ancora non riesce ad attivare un vero processo trasformativo.
Accettazione (Accepting): il paziente tenta di trovare un modo per scendere a patti con la malattia e di reinterpretare la propria esistenza alla luce della nuova situazione, affrontando i cambiamenti necessari.
Accoglimento (Receiving): il paziente riesce a integrare la propria malattia completamente nella sua biografia, rivedendo le proprie priorità e i propri obiettivi, maturando nuove prospettive di valore, talvolta perfino trasformando i limiti in insospettate risorse.
Non si tratta, beninteso, di una serie di stadi dell’elaborazione personale, ma di alcune posture esistenziali che i pazienti di fatto manifestano, talvolta attestandosi immediatamente su una di esse, più frequentemente transitando dall’una all’altra in cerca di un nuovo equilibrio. I percorsi di rielaborazione narrativa dell’esperienza, pertanto, dovrebbero essere pensati in modo da stimolare un progressivo avvicinamento all’obiettivo di una piena integrazione biografica della situazione critica. È possibile infatti che la narrazione – e soprattutto la scrittura autobiografica – rinforzino schemi rigidi di emplotment degli eventi; lo scopo del lavoro educativo, invece, è quello di rendere più flessibile l’interpretazione degli eventi e permettere l’emersione di nuove storie di malattia.
Da questo punto di vista, è forse utile ricordare che, nell’analisi esistenziale frankliana, le “due qualità essenziali dell’esistenza umana” (Frankl, 1994, p. 110) sono l’autodistanziamento e l’autotrascendenza: il primo coincide con la capacità di prendere le distanze da se stessi e dai propri sintomi, di guardarsi dall’esterno e di sorridere di sé; la seconda si manifesta nella capacità di dedicarsi a qualcosa d’altro rispetto a se stessi: una persona da amare, un compito da portare a termine, una sfida a cui rispondere. La dinamica della responsabilità, in particolare, sottrae il paziente al vittimismo e al fatalismo che talvolta si accompagnano alla malattia grave e gli permettono di mantenere intatta la sua autorialità rispetto alla propria storia di vita. Accade, talvolta, che le persone siano vittime non del proprio destino, ma del racconto in cui lo hanno incluso (Hillman, 2006, p. 21): allora l’esistenza non è più libera di evolvere, ma appare “sempre più consegnata a un particolare progetto dal quale viene afferrata o sopraffatta” (Binswanger, 1973, p. 287). C’è dunque una differenza tra la narrazione libera e spontanea (che può comunque spontaneamente assumere una direzione costruttiva) e quella che si suggerisce in un contesto formativo, ad esempio di consulenza autobiografica (Demetrio, 2008): in questo caso, occorre aver cura di individuare gli eventuali copioni ricorrenti e suggerire modalità alternative di storytelling.
In questo processo di ricostruzione del significato e di ristrutturazione dell’esperienza, accanto agli aspetti cognitivi, un ruolo decisivo è giocato dagli aspetti emozionali. Fenomenologicamente, infatti, l’esperienza consiste in un flusso preriflessivo che viene colto immediatamente nel sentire (feeling) prima di poter essere concettualizzato e verbalizzato (Gendlin, 1962). È indispensabile, allora, che i percorsi di accompagnamento narrativo dell’esperienza dei pazienti (e dei loro caregivers) non si risolvano in un esercizio puramente intellettuale, ma consentano di acquisire una maggiore consapevolezza di emozioni, tonalità emotive e sentimenti (Iori, 2006) che tingono l’esperienza personale e determinano il modo di affrontare gli eventi. L’analisi fenomenologica ha dimostrato che tramite l’intuizione emozionale percepiamo i valori e le qualità di valore delle cose (De Monticelli, 2003): emozioni e sentimenti, dunque, contengono un elemento valutativo che, di fatto, orienta le nostre scelte e la nostra condotta. La stessa interpretazione degli eventi che ci accadono è filtrata, in certo qual modo, da ciò che proviamo in un dato istante, in quanto la particolare tonalità emotiva che ci pervade può dischiudere o precludere certe possibilità di esperienza (Bollnow, 2009). Ciò significa che, nei percorsi educativi di elaborazione narrativa della malattia, un passaggio cruciale consiste nell’espressione, nella condivisione e nella trasformazione dei vissuti emotivi. Il racconto di un evento cambia, infatti, nel momento in cui si modifica la percezione emotiva che ne abbiamo. Da questo punto di vista, come insegna María Zambrano (2014, p. 87), “quel che si chiama pensare dovrebbe essere, prima di tutto, decifrare ciò che si sente”.
4 Conclusioni
La malattia rappresenta un momento dell’esperienza biografica del soggetto che comporta una cesura o una interruzione nella trama narrativa dell’esistenza. L’approccio fenomenologico-esistenziale consente di comprendere i modi in cui l’intenzionalità dei pazienti si modifica in rapporto alle diverse fasi e all’evoluzione della loro storia di malattia. L’impatto e l’esito che l’esperienza di malattia avrà sulla loro esistenza è in misura significativa correlato alla possibilità che viene loro offerta di integrarla nel proprio racconto di vita. La letteratura consente oggi di disporre di alcuni modelli di meaning-making in base ai quali è possibile comprendere i modi in cui le persone si rapportano con la sofferenza. Sulla base di questa comprensione è possibile coltivare direzioni di ricerca più sensibili all’elaborazione personale della malattia e integrare con maggiore consapevolezza le dimensioni emotive ed esistenziali nella presa in carico dei pazienti. Nel caso soprattutto delle patologie croniche o terminali, infatti, l’assenza di una risignificazione dell’esperienza può effettivamente ostacolare il processo di recovery e la progettazione di sé da parte dei pazienti, mentre il lavoro narrativo può aiutarli a tener viva la significatività della loro esistenza.
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In realtà, la questione del senso e del non-senso dell’esistenza ferita (Moravia, 1999) coinvolge direttamente anche i professionisti della salute, costantemente a contatto con la sofferenza e con le domande che essa suscita. Anche per loro la ricerca di senso è tanto più necessaria quanto più i contesti in cui lavorano sono segnati dal limite e dall’irreversibilità: proprio quando il dolore diventa inevitabile, si dischiudono infatti interrogativi radicali (Natoli, 1996). Nella formazione iniziale e continua, dunque, la domanda di senso dev’essere accolta, esplicitata e approfondita, al fine di umanizzare compiutamente i luoghi della cura e le organizzazioni che se ne fanno carico (Mori & Varchetta, 2012) e, soprattutto, per aiutare i professionisti della salute a non smarrire la motivazione e la speranza, alimentando attitudine riflessiva e competenza emozionale (Bruzzone & Musi, 2007).↩︎
Sull’epistemologia fenomenologica e l’ontologia dell’esistenza personale, cfr. Bruzzone, 2012b; circa i modi in cui la sensibilità fenomenologica può contribuire a umanizzare la relazione educativa e in generale la relazione d’aiuto, si veda invece Bruzzone, 2016. Sull’approccio fenomenologico nella formazione dei professionisti della cura, si rimanda a Bruzzone, 2014 e all’intero focus, a cura di D. Bruzzone e L. Zannini, pubblicato in Encyclopaideia, n. 39 (https://encp.unibo.it/issue/view/461).↩︎
Si potrebbe esemplificare questa alternativa epistemologica osservando due quadri famosi: il primo è La lezione di anatomia del dottor Nicolaes Tulp, dipinto da Rembrandt in piena rivoluzione scientifica (1632), di proprietà del Mauritshuis de L’Aia; il secondo è Scienza e carità, dipinto da Pablo Picasso nell’età dell’oro del positivismo (1897) e conservato al Museu Picasso di Barcellona. In entrambi i casi il soggetto è la professione medica: ma se nel primo quadro è evidente che la medicina scientifica si stava formando a partire dal corpo-cadavere (un oggetto privo di storia e di identità), nel secondo l’artista ritrae un medico al capezzale di una donna ammalata e l’intera scena suggerisce che essa abbia sentimenti, desideri e progetti, tanto da porre una domanda cruciale: chi si occuperà del fatto che, pur essendo una paziente, quella donna continua tuttavia ad essere una madre? In questo caso, la preoccupazione per il figlio ancora piccolo rende la storia della sua malattia diversa da quella di qualunque altro paziente affetto da un simile destino.↩︎
Logo-terapia (da lógos, significato) vuol dire letteralmente “cura attraverso il significato” (Frankl, 2010, p. 125).↩︎
Le ricerche dimostrano che un’alta percentuale di pazienti oncologici registra livelli positivi di crescita personale a seguito della malattia. Per potenziare queste risorse sono nati diversi approcci meaning-oriented. Ad esempio, William Breitbart presso lo Sloan Kettering Cancer Center di New York ha elaborato un metodo per la terapia individuale e di gruppo (Breitbart & Poppito, 2014a; 2014b) a cui si sono ispirate alcune esperienze italiane, in particolare quella dei gruppi LÆOn (Logoterapia e Analisi Esistenziale in Oncologia) presso la Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, poi replicati anche presso il Centro di Riabilitazione Oncologica di Firenze. In questi percorsi di accompagnamento si lavora su diversi temi, tra cui: valori e temi portanti della propria vita; timori e motivi di maggior sofferenza legati alla malattia; risorse personali e sociali nell’affrontamento della malattia; mentori di resilienza; insegnamenti esistenziali tratti dall’esperienza di malattia; progetti e propositi esistenziali per il futuro (Murru et al., 2014).↩︎
Da questo punto di vista, ogni situazione ha un significato intrinseco che va riconosciuto o scoperto, simili ai “requirements” (Kohler, 1938) o alle “affordances” (Gibson, 1979) nella percezione di un oggetto, che suppongono una risposta adeguata. Vale a dire: ogni concreta situazione di vita rappresenta una sfida a cercare e trovare le possibilità in essa latenti e ad assumere l’atteggiamento più costruttivo. In questo senso, il lavoro narrativo si sottrae all’arbitrio di certe posizioni costruttiviste radicali: vi sono dei vincoli, nella realtà, che un racconto non può stravolgere. Quando, anzi, la narrazione perde l’ancoraggio con i vincoli dell’esperienza, scivola – perlopiù inavvertitamente – nel delirio e nella psicosi.↩︎